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La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.


LA CITTÀ EMPORIO: 1699 – 1813

1699

Quindici anni dopo la liberazione di Vienna dall’assedio turco, Russia, Austria, Polonia e Venezia firmano la Pace di Sremskij Karlovcy (Karlowitz, in tedesco), località situata ad ovest di Belgrado: mentre la Polonia si annette la Podolia e l’Ucraina, espandendosi verso il Dnjestr, l'Austria estende i suoi domini a gran parte dell’Ungheria, alla Transilvania, alla Croazia e alla Slavonia.

Venezia, alleata dell'impero, si vede riconosciuto dai turchi il possesso di gran parte della costa dalmata, nonché di Egina, di Santa Maura e della Morea (la Morea verrà riconquistata dai turchi nel 1717); la Russia conferma la conquista di Azov.

La Pace di Sremskij Karlovcy segna per l'occidente la fine del pericolo turco, nonché il ritorno degli Asburgo al rango di grande potenza, già acquisito alla fine della guerra del Trent’anni. In questa nuova ottica sarà vista, agli inizi del secolo XVIII, la questione dell'Adriatico e di Trieste.

1701 – 1714

Con la partecipazione alla guerra di successione spagnola gli Asburgo riescono ad assicurarsi il regno di Napoli e di Sardegna, nonché i ducati di Milano e di Mantova, succedendo alla Spagna nel predominio politico in Italia: i nuovi territori si aggiungono così a quella che fino a quel tempo prendeva il nome di “Casa d'Austria” (“Erbländer” o “Paesi ereditari”). Durante la guerra di successione la debolezza di Venezia era apparsa in modo inequivocabile: la Serenissima si era rivelata incapace di garantire la neutralità del golfo, come aveva dimostrato l'impresa della squadra francese, comandata dall'ammiraglio Forbin, che nel 1702 s'era spinta a bombardare il porto di Trieste.

1717

Una “Patente” dell'imperatore del Sacro romano impero di nazione germanica Carlo VI d'Asburgo dichiara “sicura e libera” la navigazione per l'Adriatico, onde “promuovere, regolare ed aumentare il commercio negli stati ereditari, e precipuamente nell'Austria interiore e nei porti di mare”, concordando l'uso della bandiera imperiale e arciducale a quanti intendano salpare dai porti del litorale austriaco e promettendo loro di difenderli “contro qualunque potentato che li turbasse, o pregiudicasse”.

La decisione dell'imperatore – presa approfittando delle difficoltà in cui versava Venezia nella guerra con i turchi – contraddiceva apertamente il trattato di alleanza contro i turchi che Vienna aveva stipulato con la Serenissima pochi mesi prima e nel quale aveva riconosciuto l'antico diritto giurisdizionale di Venezia sull'Adriatico.

1718

Il Trattato di Požarevac (in tedesco Passarowitz) pone fine alla guerra scoppiata quattro anni prima tra l'impero ottomano e la repubblica veneta. Vienna, che si era schierata l'anno prima con la Serenissima, esce vittoriosa dalla guerra annettendosi la Valacchia, parte della Serbia ed il banato di Timisoara e raggiungendo il massimo della propria espansione. Venezia perde la Morea, assegnata ai turchi, che rinunciano a loro volta definitivamente ad ogni espansione verso l'occidente.

Della sconfitta turca e della crisi di Venezia trae vantaggio la disinvolta diplomazia asburgica, che si affretta a stringere accordi commerciali con gli ottomani, con cui si garantisce ai sudditi dei due imperi una reciproca libertà di commerci sulla terra, sul mare e sui fiumi.

Questi accordi costituiscono un ulteriore attentato ai diritti secolari che Venezia esercitava sull'Adriatico: l'Austria si spinge in questa direzione anche perché‚ dopo la guerra di successione spagnola, si era annessa la Sicilia – l'avrebbe amministrata fino al 1735 – divenuta particolarmente importante come congiunzione marittima verso gli scali dell'oriente.

1719

È pubblicata la “Patente” che “temporaneamente” concede il privilegio del porto franco a Trieste ed a Fiume. Derivano per Trieste benefici quali la libertà di esercitare commercio ed industria, l'esenzione da imposte, l'istituzione di un banco di assicurazioni, la protezione dei commercianti esteri in caso di guerra, l'assenza delle perquisizioni per le navi in arrivo, il permesso agli stranieri di possedere case e terreni.

Contemporaneamente a questa concessione vengono decise la fondazione della “Cesarea privilegiata Compagnia Orientale”, con il compito di impostare una politica protezionistica (a quel tempo si usava l'espressione “monopolismo”) in campo commerciale e dell'industria navale, nonché la costruzione di una flotta militare per difendere i traffici austriaci dai veneziani.

Non tardano le reazioni dei ceti oligarchici triestini in difesa dei vecchi privilegi e dell'antica “libertas”: il porto franco crea infatti una città nuova, attirando da ogni parte d'Europa commercianti, imprenditori, nonché gente in cerca di rapide e facili fortune, tra i quali non manca chi, grazie alla concessa immunità, era riuscito a sfuggire alla giustizia del proprio paese.

1724 – 1728

Viene costruita la nuova strada Trieste – Vienna attraverso la soglia di Postumia; contemporaneamente vengono restaurate le strade del Vipacco e del Predil, al fine di attrarre sempre più Trieste e Gorizia verso l'entroterra austriaco.

Durante questo periodo il mercato è quello degli scambi in città, delle proiezioni verso i territori veneti, verso l’Ungheria e gli altri territori sottratti all’impero ottomano che si affiancano a quelli della Carinzia, della Boemia e della Slesia. Su queste terre si sviluppa un sistema di comunicazioni funzionale ai piccoli scambi locali. Le poche vie di attraversamento dell’impero e dei domini ereditari rendono problematico il trasporto delle merci.

La preminenza veneziana nei traffici verso l’Europa centrale ed orientale ha fatto giungere nella città lagunare le più importanti vie di comunicazione. Verso nord-est una grande arteria collega Venezia ad Innsbruck attraverso Verona, Trento, Bolzano, Bressanone; da Innsbruck si raggiunge Augusta e Norimberga per poi dirigersi verso i ricchi mercati dell’Europa centrale di Francoforte, Colonia, e poi verso i Paesi Bassi. A nord si giunge a Lipsia e a Dresda, verso est si arriva a Praga, Bratislava e poi Danzica.

L’altra importante strada commerciale parte pure da Venezia, giunge a Pontebba, quindi a Villaco, da dove si collega a Salisburgo. Verso est sono raggiungibili i mercati di Judenburg, Bruck e Vienna.

Trieste è lontana da entrambi i percorsi. Le principali difficoltà incontrate dalle comunicazioni sono dovute a motivi naturali; la configurazione orografica dei rilievi alpini e prealpini facilita gli spostamenti da est verso ovest e viceversa, non quelli in direzione nord-sud. Si va facilmente da Vienna fino in Baviera ed in Tirolo o verso la Boemia e la Moravia. Si utilizzano agevolmente i grandi fiumi navigabili, Sava, Drava e Danubio per raggiungere i mercati dell’oriente. Più difficile è raggiungere Trieste: si può passare attraverso Maribor e Graz, ma questa è una via lontana dai mercati interni più importanti ed è, per di più, poco sicura.

In realtà il problema della manutenzione delle strade era un problema di ampia portata ed andava affrontato ancor prima di passare alla progettazione e alla realizzazione di quelle nuove. A quel tempo ci si valeva del lavoro obbligatorio, servile (“robot”), imposto agli abitanti dei paesi attraversati e lo stato doveva affrontare autonomamente questa incombenza, in quanto la possibilità di sviluppare i commerci dipendeva strettamente da grandi ed agevoli vie di comunicazione tra i porti dell’alto Adriatico e i principali mercati continentali.

Efficaci collegamenti vennero creati con la sistemazione del valico del monte Loibl, la cui apertura al traffico commerciale nel 1728 permise un’agevole comunicazione tra Klagenfurt e Lubiana e con l’attraversamento del monte Semmering, che rese possibile raggiungere Vienna e Graz. Con la sistemazione della strada tra Trieste e Lubiana fu creata un’unica strada commerciale e militare capace di collegare Trieste con le province dell’Austria interiore prive di sbocco al mare: la Stiria, la Carniola e Gorizia.

Carlo VI perseguì con forza questa strategia di espansione commerciale verso sud decidendo anche l’apertura di una strada tra Fiume e Karlovac (Karlstadt), in Croazia: Fiume avrebbe servito così la Croazia e i nuovi territori strappati agli ottomani. I risultati non furono però immediati, come evidenziano le continue lamentele dell'ambasciatore a Vienna Marino Donà, che chiamò “gran fabrica” tutto l'impegno svolto da Carlo VI, ma aggiunse che i “due principii indispensabili per sì gran fabrica, cioè le navi e le merci, giacevano ancora nella mente del promotore”.

1730 – 1734

L'opposizione dei patrizi alle novità imposte da Carlo VI determina tensioni tali che si decide di mettere una forte guarnigione “a motivo di tener in freno la città e piegarla a patire quelle disposizioni che sono adattate al commercio”.

Nel 1732 l'imperatore giunge al punto di avocare a sé il diritto di nominare uno dei rettori della città, che fino ad allora erano stati nominati dal Consiglio municipale. Le reazioni nostalgiche del patriziato furono per il Cusin un segno di debolezza, in quanto “parte del patriziato comprendeva essere ormai prossima la fine, non solo del suo governo, ma anche della sua preminenza. […] Perduta la sua importanza politica, esso vegeta ancora un po' come ceto chiuso, per morire un po' alla volta di consunzione; […] erano ormai venute meno le ragioni della sua esistenza ed altri tempi si preparano alla vita della città”.

Risale a questo periodo la costituzione della “Commercial Intendenz” (detta anche la “Prima Intendenza Commerciale” per non confonderla con quella ridefinita qualche anno dopo da Maria Teresa); la “Suprema Intendenza Commerciale del Litorale” viene creata con il dichiarato scopo di incrementare i rapporti tra i paesi tedeschi ed italiani dei domini ereditari. Si estende ai territori del Litorale austriaco (“Litoral”), realtà economica e amministrativa che comprende anche Aquileia, San Giovanni di Duino, Buccari, Porto Re, Segna e Carlopago. Questa regione è indicata nel contesto dell’impero degli Asburgo con il termine “Küstenland”.

1735

Secondo il censimento voluto dalle autorità di Vienna – è il primo di cui si abbia notizia – la popolazione di Trieste è di 7.250 persone: 3.865 risiedono in città, 1.200 nel suburbio e 2.185 sull'altipiano. Va ricordato al riguardo che sino alla conquista francese Trieste rimarrà un Comune chiuso: la cittadinanza triestina, cioè, non comporta l’appartenenza agli “Stati ereditari”.

1736

Nei terreni fuori le mura, sui fondi dove prima erano situate le saline, vengono eretti alcuni magazzini, uno squero, ed il lazzaretto: il borgo (o città nuova) – cioè quel territorio di proprietà erariale situato a nord della città, fuori la porta Riborgo – viene sottratto alla giurisdizione del Comune e col nome di “Distretto Camerale” viene posto alle dirette dipendenze del Capitano Cesareo e del Tribunale di Cambio, in sostanza delle autorità viennesi.

Un documento riportato da Pietro Kandler indica chiaramente lo spirito che anima molti “distrettuali”: essi rifiutano l'istituzione di scuole “inutili a gente pratica”, calcando le orme del potere centrale che esortava il Comune a dedicare ad altri scopi più redditizi le somme impiegate per far conseguire ai giovani patrizi “l'inutile dottorato”.

1746

Il rapido impulso dato alle attività commerciali da Maria Teresa richiama numerosi commercianti greci ed ebrei. Si arricchisce così notevolmente la già importante presenza ebraica in città: ne è una testimonianza la stesura dello “statuto” della comunità, formulato e definito dai membri stessi. Sono sette capitoli, che trattano del funzionamento della comunità – retta da tre capi, una consulta ristretta e il consiglio generale – con un particolare riguardo a problemi quali le relazioni con il rabbino, ai metodi di tassazione, ai servizi religiosi e all'assistenza ai poveri. Da allora la comunità – che a quel tempo contava poco più di 100 membri – viene designata nei documenti ufficiali come “Università degli ebrei di Trieste” o, meno frequentemente, come “Nazione ebrea di Trieste”.

1748 – 1749

Alla conclusione della guerra di successione austriaca, la posizione di Trieste si rafforza agli occhi di Maria Teresa, “che riprese” – come sottolinea Giulio Cervani – “portandola ben oltre l’idea di uno Stato rafforzato nel suo potere attraverso l’unità direzionale, ed ebbe ben chiaro il concetto del valore strumentale ed economico che rappresentava la città con il suo porto entro la cornice complessiva dei suoi Stati”. Nel novembre del 1749 viene trasmessa al barone Wissenhutten, nella veste di Intendente commerciale del Litorale, una Risoluzione sovrana (“Hauptresolution”) promulgata da Maria Teresa per tutti i suoi domini, che definisce le linee generali della politica viennese. L’”Istruzione”, tra gli altri punti, contiene disposizioni particolari per “regolare e moderare” i pedaggi verso Trieste ed il Litorale austriaco, per sviluppare il servizio postale ed una fitta serie di regolamentazioni dei traffici e delle importazioni in particolare. Si stabilisce inoltre la sostituzione del “Capitano cesareo” della città, che dalla deditio del 1382 aveva rappresentato l’autorità arciducale davanti ai magistrati cittadini e che di fatto era diventato col tempo una mera autorità locale, con la figura del “Capitano Intendente”, che avrebbe operato sotto la diretta dipendenza del Supremo Direttorio del Commercio con sede a Vienna (“Comercial Ober Directorium”).

A questa prima Risoluzione sovrana farà poi seguito una seconda, nel 1753, con la quale verrà ulteriormente perfezionato il quadro istituzionale della città e del Litorale, e verranno definiti meglio i poteri del Capitano ed Intendente della città.

La carica di Intendente – conformemente a quanto accade in tutti i territori soggetti all’autorità imperiale – viene del tutto spersonalizzata e viene identificata con l’ufficio, con il “Gubernium”, ente giuridico, pubblico, territoriale, che assomma i poteri civili e quelli militari e controlla rigorosamente tutti i settori dell’amministrazione, attraverso un’opera radicale di razionalizzazione e di centralizzazione. La separazione dei poteri politici da quelli giurisdizionali porta alla scomparsa di antichi privilegi ed abusi attraverso la riproposizione a livello locale di organi imperiali con autorità politica e finanziaria. A partire da questo momento non si trova più traccia di reali poteri municipali: il geografo Busching, analizzando la natura del tutto particolare di questi istituti, affermò che Trieste era amministrata “a modo di possedimenti coloniali”.

Dal punto di vista economico il varo di questi decreti imperiali ha l’effetto immediato di incrementare la presenza nel tessuto urbano della comunità greca e dei mercanti originari dell'impero ottomano, il che convoglia verso Trieste molte nuove attività finanziarie ed imprenditoriali. Nasce solo adesso, secondo storici quali Vivante e Negrelli, il vero porto franco, e solo ora, con l'opera di Maria Teresa, ha inizio la trasformazione della città da chiuso comune oligarchico ad emporio statale cosmopolita.

L'opera di Carlo VI, infatti, si era realizzata solo in piccola parte, a causa soprattutto delle sue contraddizioni interne: l’istituzione del porto franco nel 1719 si era inserita nel sistema economico di uno stato ancora di tipo feudale, pieno di barriere doganali interne e di divieti di transito, adatti solo ad ostacolare un commercio, già di per sé penalizzato dalla mancanza di buone vie di comunicazione. I successivi atti legislativi avevano mantenuto quel sapore contrattuale che caratterizzava la vecchia cultura giuridica, lasciando in vita antichi privilegi o creandone di nuovi. La stessa neocostituita “Privilegiata Compagnia Orientale”, che nelle intenzioni del sovrano doveva fungere da elemento propulsore dei traffici, aveva finito invece per ostacolarli. I rigidi vincoli monopolistici avevano infatti scoraggiato l’afflusso di altri capitali.

1750

Le scelte politiche ed economiche contenute nella Risoluzione di Maria Teresa favoriscono la generale rinascita economica che si verifica nei territori degli Asburgo: gli anni che seguono vedono il primo sviluppo considerevole nel porto triestino. Qui opere importanti – come l'acquedotto, il molo Santa Teresa (oggi fratelli Bandiera), il molo San Carlo (divenuto molo Audace in ricordo della prima nave italiana che vi approdò il 3 novembre 1918), due lazzaretti, il canal grande, la nuova dogana, la costruzione di case sui fondi delle saline ed altre – preparano lo sviluppo dei commerci: nasce così il Borgo teresiano (“Theresienstadt”). In questa logica di sviluppo si ordina anche l’abbattimento delle mura: “Bisognava che l'antica città solidarizzasse con i novovenuti, si unificasse col Distretto Camerale. Ma i patrizi, che temevano la commistione, evitano di obbedire” (Tamaro).

Si apre così un periodo di notevole crescita per una borgata di 4.000 abitanti che fino a quel momento si era appoggiata prevalentemente sulle antiche saline, tra le mura e il canale, e sulla produzione del vino nel circondario.

1753 – 1771

Maria Teresa promulga una serie di decreti a favore della comunità ebraica che riguardano sia la vita interna della comunità sia i suoi rapporti con il mondo esterno. Si passa dalla mitigazione della segregazione – nel 1753 i membri di “più distinta condizione” possono in alcuni casi abitare fuori dal ghetto – alla precisa regolamentazione prevista dallo statuto generale del 1771. Il documento del 1771 sottopone gli ebrei ad una sorta di libertà vigilata, pur riconoscendo la loro attività indispensabile allo sviluppo del commercio. Lo statuto viene poi integrato con un decreto di franchigia teso a promuovere l'immigrazione di altri ebrei al fine di incrementare le attività commerciali.

1755

Un momento significativo della crescita della città è l'istituzione della Borsa, “che ebbe due stanze in piazza, sotto il Teatro di San Pietro – il Palazzo municipale del 1699 – e stava aperta dalle 10 alle 12” (così scrive Attilio Tamaro). La Deputazione di Borsa (“Kaufmannschaft”) viene consultata in ogni questione d'importanza e diventa ben presto un fortissimo centro di potere locale: gelosa della sua libertà e dei suoi privilegi, quando il giuseppismo farà sentire più forte il peso dello stato, rivendicherà anche una certa autonomia politica.

1760 – 1780

Nonostante i sensibili progressi registrati grazie allo status di porto franco, il commercio cittadino è ancora in gran parte dipendente da Venezia: nel 1768 quasi il 77% delle navi transitate per il porto batte la bandiera di San Marco. Questo dato dimostra che non è stato costituito ancora un rapporto organico tra la città e l'entroterra austriaco, che continua a servirsi ampiamente dei porti di Amsterdam e di Amburgo.

Per sopperire alla mancanza di buoni capitani, Maria Teresa, per tramite della Suprema Intendenza Commerciale, incarica nel 1754 il gesuita Francesco Saverio Orlando di organizzare una Scuola Nautica, da cui deriverà l'attuale Istituto Nautico Tomaso di Savoia duca di Genova. Da un documento a firma dell’Orlando, datato 8 agosto 1754, si apprende che fu lui stesso ad acquistare “libri e stromenti matematici” a Vienna.

1766 – 1769

Le franchigie del porto franco vengono estese ora a tutto il territorio cittadino. Patenti imperiali proclamano tale regime legge generale dello stato. L'iniziativa, grazie anche alla favorevole congiuntura seguita alla conclusione della guerra dei Sette anni, richiama un gran numero di piccoli imprenditori, artigiani, manovali, facchini, tutti attirati dal miraggio di facili fortune.

1774

Viene fondata la prima loggia regolare massonica. Altre, probabilmente clandestine, si costituiscono in questi anni in città. Il Tamaro afferma che loro compito era quello di “educare ai principi democratici la borghesia commerciale”; le definisce “l'anima occulta del nuovo movimento sociale” e non a caso nei decenni successivi troveremo un consistente numero di massoni tra i funzionari governativi.

La presenza dei massoni è evidentemente legata al fenomeno dell'immigrazione e così pure la presenza delle diverse comunità etniche e religiose che animano la città (protestanti, greco-ortodossi, serbo-ortodossi, ebrei, …).

Tale afflusso inquieta non poco gli ambienti cattolici e i gesuiti, in un momento in cui si lamentava anche la diffusione dell'incredulità tra le masse. Forti preoccupazioni derivano inoltre ai gesuiti dalle scelte del figlio di Maria Teresa, Giuseppe II, che, ancor più deciso della madre, riesce a far chiudere il loro convento ed anche la loro scuola, lasciando la città senza alcuna istituzione scolastica per ben tre anni, dal 1773 al 1776, ed imponendo al suo posto la Scuola popolare (“Volksschule” ) con lingua d'insegnamento tedesca, anziché latina. I patrizi, turbati da tutte queste novità, chiedono a Vienna l'istituzione di un'Università, che avrebbe dovuto svolgere, tra le altre, anche la funzione di baluardo del cattolicesimo e dell'ordine costituito, preparando al meglio nuovi sacerdoti e nuovi dirigenti.

1775

Lo sviluppo emporiale della città porta ad una crescente domanda di istruzione, che Vienna vuole però controllare rigidamente: al posto della secolare scuola del Comune vengono istituiti la prima “Normalschule” ed un ginnasio in lingua tedesca.

L'imposizione della lingua tedesca come unica lingua d'insegnamento suscita forti polemiche; vengono aperte delle scuole private con insegnamento in lingua italiana e chi ha la possibilità di farlo manda i figli a studiare nello stato veneto. Una statistica del 1772 elenca 17 scuole private – chiamate anche “scuole triviali” – delle quali 12 sono italiane, 2 tedesche e una francese, una è di “conti” ed una di latino: le frequentano 506 scolari, di cui 430 italiani.1) La popolazione è in quel periodo di 15.784 persone, di cui 10.664 residenti in città, 2.475 nel suburbio e 2.645 sull'altipiano.

La politica rigidamente protezionistica portata avanti per volere di Vienna crea palesi insoddisfazioni anche in altri campi. Se ne fa interprete il patrizio Antonio de Giuliani, economista e filosofo, che in una supplica a Giuseppe II lamenta le tristi condizioni della cittadinanza, l'arbitrio di speculatori e di avventurieri, l'accavallarsi delle riforme più assurde. Ancora una volta si piange la sorte della “nobiltà nazionale posposta, e avvilita, spogliata de' suoi privilegi, tenuta nell'ignoranza dalla malizia industriosa”: in realtà queste lamentele costituiscono quasi un rituale e riflettono per lo più le difficoltà di aggregazione tra i nuovi ricchi ed i vecchi ceti dominanti; questi ultimi rimangono rinchiusi nei fatiscenti palazzi di Cittavecchia, mentre la città si sviluppa in direzione sud-ovest, dal lazzaretto di Santa Teresa fino al cantiere di Odorico Panfili: i loro possedimenti non sono più in grado né di produrre né di assorbire capitale, ma, al contrario, la rendita viene duramente colpita dall'aumento dei prezzi e dalla migliore qualità dei prodotti ora in mercato.

Apih ricorda che in questo periodo “i nomi delle antiche casade compaiono, prima di scomparire, anche negli elenchi dei poveri”.

1776

È inviato a Trieste, con la nuova carica di “Governatore della Città Commerciale e del Porto Franco”, il conte Karl von Zinzendorf, fautore di una politica di ampie riforme ispirate al liberalismo e al progetto giuseppino di una Trieste porto austriaco nell'Adriatico. L'uomo, di notevole cultura – aveva conosciuto tra gli altri Voltaire –, vi rimane per sei anni, un periodo che rappresenta per Trieste una fase di intenso sviluppo, economico, civile e culturale.

Con la creazione del Governatorato viene abolito l’istituto della Intendenza, contro il quale si erano scatenate tante polemiche negli ambienti cittadini, mentre è mantenuto per altri centri della monarchia austriaca. “La città ritorna ad essere, amministrativamente parlando, parte a sé stante, circolo (‘Kreis’), con preposto un Capitano circolare che assumeva anche il nome di governatore del porto”. (Cervani)

Trieste viene eretta al rango di stato provinciale, scorporata formalmente dal Litorale, ma ormai dipendente nella sua interezza dalle autorità imperiali: segno di questa precisa volontà è l’imposizione di aprire le porte del Consiglio maggiore (o “dei patrizi”) ai residenti del borgo, agli immigrati e ai residenti fuori delle mura. Uno di questi “novelli” è il padre di Domenico Rossetti.

Tra le opere di grande rilievo decise sotto la reggenza di Zinzendorf basterà ricordare la villa Necker e la ristrutturazione di tutta la zona delle saline attorno al canale fino all'attuale via Ghega, recuperata all'edificazione. Viene inoltre potenziata notevolmente la viabilità, con la messa in opera della strada di Zaule e della strada di Scorcola che, attraverso Opicina e Lubiana, portava a Vienna. Nello stesso periodo è completato il borgo teresiano, che viene dotato di una sua chiesa parrocchiale, la chiesa di Sant'Antonio. Verso la fine del secolo, la costruzione dei quartieri “giuseppino” e “franceschino” avrebbe creato una sorta di accerchiamento del vecchio borgo sottolineandone definitivamente l'isolamento e l'anacronismo.

Non va dimenticato, infine, che è merito precipuo di Zinzendorf se Giuseppe II accoglierà alcune iniziative, a quel tempo considerate piuttosto rischiose, tese ad aprire una via commerciale tra Asia ed Austria tramite il porto di Trieste.

L’anno stesso in cui Zinzendorf è inviato a Trieste, viene fondata la prima società di assicurazioni, la “Compagnia di Assicurazioni”, che sopravviverà fino al 1824 col nome di “Vecchia Compagnia di Assicurazioni”. Come scrive Ugo Cova, “Chi ebbe il coraggio, in quegli anni, di assumersi la funzione di pioniere in un campo fino allora sconosciuto a Trieste fu Grassin Vita Levi, titolare di una solida impresa commerciale triestina. Valido sostenitore dell’iniziativa a livello amministrativo fu l’illuminato ed espertissimo consigliere dell’Intendenza commerciale Pasquale Ricci. Parteciparono all’impresa, nella qualità di azionisti, fin dall’assemblea costitutiva della Compagnia, oltre a personaggi minori e a qualche patrizio e aristocratico, anche alcuni tra i più rappresentativi commercianti e armatori triestini del momento, quali Antonio Rossetti, Giacomo Balletti, Giuseppe Belusco, Pandolfo Federico Oesterreicher, alcuni membri della famiglia Morpurgo, oltre al già citato Grassin Vita Levi”.

1781 – 1782

Una “Patente di tolleranza” (“Toleranzpatent”), emanata nell’ottobre del 1781, viene pubblicata in tutti gli stati ereditari asburgici, in Lombardia e nei Paesi Bassi, dove suscita fortissime opposizioni. Osteggiata dal papato, incontra invece il favore entusiastico degli illuministi e di quella parte del cattolicesimo che era stata conquistata dalle idee di riforma religiosa.

Con essa Giuseppe II “graziosamente” stabilisce che: “Sarà permesso agli acattolici, cioè alli consorti delle confessioni augustane ed elvetica, come pure a’ Greci non uniti alla Chiesa Romana ne’ luoghi ove essi trovino in sufficiente numero, ed ove in proporzione delle loro facoltà sarà praticabile, l’esercizio privato della loro religione da per tutto, e senza abbadare se in passato tale culto vi sia stato mai praticato o no”.

Questa prima Patente riguarda solo i cristiani ed è seguita, all’inizio del 1782, da una seconda Patente rivolta agli ebrei. Con questo secondo atto viene sostanzialmente concessa la cittadinanza agli ebrei, pur mantenendo ancora discriminazioni e disuguaglianze. Viene anche decisa la chiusura del ghetto ed il sovrano esplicitamente dichiara di voler mettere fine alla vecchia imposizione che costringeva gli ebrei a sostentarsi solo con il mestiere “delle usure e delle frodi”. Vengono inoltre abolite definitivamente tutte quelle norme che imponevano agli ebrei “la macchia ebraica”, cioè la “differenza di vestito, portamento o altri singolari segni esteriori”. L’ordine esecutivo della chiusura del ghetto giunge a Trieste al governatore Pompeo Brigido solo tre anni dopo, nell’agosto del 1795.

Queste decisioni imperiali hanno notevoli conseguenze a Trieste, perché favoriscono l’afflusso di un grande numero di mercanti e di prestatori d’opera di religione greco-ortodossa, serbo-ortodossa, ed ebraica. A partire da questo momento la comunità ebraica avrà un considerevole sviluppo, come dimostrano i dati del 1788, anno nel quale la comunità conta ben 670 membri, divisi in 153 famiglie.

Qualche tempo dopo l'aumento dei fedeli rende necessaria la costruzione di una “Scuola” più ampia (con il termine “Scuola” si indicava allora il tempio o sinagoga): la comunità delibera l'acquisto dell'edificio dei fratelli Morpurgo di Gorizia sito all’angolo della piazzetta delle Scuole israelitiche con via delle Beccherie per edificare il nuovo luogo di culto, che prende il nome di “Scuola grande” o “Tempio numero due”. La volontà di garantire nuovi spazi alla tolleranza religiosa si accompagna, nei piani di Giuseppe II, ad una maggior severità nei confronti del potere assunto dalla chiesa cattolica e dai gesuiti in particolare: con fermezza decide di sopprimere numerose istituzioni religiose, tra le quali la Compagnia di Gesù, che aveva esercitato in città grande influenza soprattutto nel campo dell’istruzione.

1783

In seguito al riordino amministrativo previsto dalla “Österreichische Verfassung” (Costituzione austriaca), Trieste diventa sede di un “Cesareo Regio governo” costituito anche dai territori della contea di Gorizia e Gradisca, che vengono annessi al Circolo. Viene al contempo riaffermata la dipendenza degli uffici provinciali da quelli centrali, segno della accentuata politica di accentramento che Giuseppe II viene imponendo in tutte le parti dell’impero. I poteri degli storici stati provinciali sono solo un ricordo.

1785

L'opera accentratrice di Giuseppe II – gli storici parlano al riguardo di una “Revolution von Oben” (rivoluzione dall’alto) – si fa sentire in tutti i campi, da quello scolastico – a questo fine viene favorito in ogni modo, se non imposto, l'uso della lingua tedesca – a quello amministrativo, dalla politica fiscale all'impulso deciso dato allo sviluppo delle attività portuali e commerciali.

Delle grandi prospettive che si aprono per la città si rende ben conto il de Giuliani, buon conoscitore dei filosofi illuministi e della nuova realtà europea: “Altre volte il mondo era tutto dei conquistatori […]. Oggi tempi più felici presentano un quadro assai diverso per l'umanità. Non si calcola più nei fasti di un monarca il numero delle città demolite, ma quello delle città edificate. Si osservino gli spiriti mediante una felice rivoluzione già inclinati ad un nuovo ordine di idee cessar d'occuparsi delle chimere, che prima assorbivano tutte le nostre attività fisiche, e morali […]. Il commercio, le scienze e le arti dopo aver soggiornato in un luogo, amano di passar sott'altro cielo a migliorare il destino delle nazioni […]. A Trieste venga l'uomo di riflessione a meditare sopra il modo con cui nascono e si formano le città”. È questo, infatti, un periodo nel quale due mondi, quello del “borghese” e quello del “cittadino”, sembrano scontrarsi irrimediabilmente, come scrive Pietro Kandler: “Il cittadino amava le storie patrie, le origini romane, le tradizioni storiche, le nobiltà, la milizia […]. Il borghese poneva queste cose in canzone, ignaro di se medesimo, non curava origini, […] ostentava ignorare tutto di sé, fuorché i lucri, pensava dover cominciare con lui la storia di Trieste […]. Ma il borghese, fuori delle astuzie e disinvolture del mestiere, era freddo, costumato, sobrio […]. Il cittadino era impetuoso, pronto alle mani, […] inferiore all'altro nelle virtù private”.

1788

La politica di Giuseppe II si scontra con l'inerzia, se non addirittura con l'opposizione della vecchia classe dirigente locale, gelosa della sua “autopolitica” municipale che i patrizi facevano orgogliosamente risalire allo statuto ferdinandeo del 1550. Tra le forze che si oppongono ad ogni tentativo di liberalizzazione proposto da Vienna, vi è anche la Borsa: è questa, alla fine del '700, a fissare i limiti dell'attività del mercato locale. È ancora questa ad opporsi al programma governativo di potenziamento industriale, come ai tentativi di riforma agraria o d'impiego di capitali nelle campagne: ad ogni iniziativa economica, cioè, che, assorbendo molta manodopera, possa contribuire alla promozione sociale delle classi diseredate. Tra il 1787 e il 1788 vengono emanate le nuove leggi sui delitti e sulle pene e sulla procedura penale, che coinvolgono tutti gli stati soggetti agli Asburgo. Di grande rilievo l’abolizione della pena di morte per i civili.

1789 – 1795

Lo scoppio della rivoluzione francese e i successivi avvenimenti internazionali non rallentano lo sviluppo della città, ma anzi favoriscono in un primo momento i porti di Venezia e di Trieste, dato l'isolamento della Francia e le sue difficoltà interne ed internazionali. Il giornale locale, L’Osservatore triestino, segue con attenzione gli avvenimenti francesi, schierandosi apertamente a favore del re e condannando ogni forma di “disordine”. I responsabili dei moti popolari sono individuati con decisione nei filosofi illuministi, in Rousseau soprattutto, e poi nelle “societés des pensée”, nei circoli, nelle logge massoniche.

La situazione poi, tra il 1790 e il 1792, si radicalizza e per il settimanale le preoccupazioni aumentano. L’esecuzione del sovrano, agli inizi del 1793, è accolta con orrore – non va dimenticato che Luigi XVI è cognato di Giuseppe II – e il giornalista riferisce con dovizia le reazioni dei triestini: “Ieri il Popolo di Trieste diè un chiaro contrassegno del non dubbio disprezzo suo per la chimerica libertà francese. Fuori dalla finestra dell’abitazione del francese Pittore Dupré, vide una bandiera bianca col nome ‘libertas’. Questo popolo […], irritossi talmente contro il Pittore, che a gran stento poté salvare la vita; giacché al solo apparente sospetto di un qualche repubblicano artifizio francese, a egli mostrava il suo disprezzo per le erronee rivoluzionarie massime di quella acciecata nazione”. Qualche tempo prima, alla notizia della condanna del sovrano, il giornale aveva ricordato che “non è questa la prima volta che scuopransi Francesi di quest’infame carattere; ve n’erano anche a’ tempi di Cicerone”.

Il governo municipale, però, è all'erta e, per evitare la diffusione delle nuove idee, decide nel 1793 di sopprimere la loggia massonica, considerata un pericoloso focolaio d'infezione di “quegli spiriti giacobini che in quell'anno spadroneggiavano in Francia”.

Le nuove idee erano entrate rapidamente anche tra gli operai, come testimonia lo stesso anno il console veneziano riferendo come nelle taverne gli uomini del popolo mostrassero “sensi arditi di parzialità per i francesi, bramandone la comparsa, asserendo essere pronti a secondarli e perfino ponendosi, bensì momentaneamente, dei segni sopra la berretta che in tal caso così farebbero a similitudine delle coccarde francesi”. Ben si comprende quindi il sollievo con cui il patriziato e le autorità accolsero la notizia della caduta di Robespierre, che nelle cronache dell’Osservatore Triestino è descritta come la giusta punizione, di natura quasi divina, di un anno di massacri e di violenze. Seguiva il solito resoconto delle manifestazioni di gioia del popolo triestino per la fine del dittatore.

Un’interessante testimonianza di questo periodo si trova anche nelle lettere che il barone Pierantonio Pittoni, capo della polizia di Trieste, invia all'amico Karl von Zinzendorf. Non mancano considerazioni che esulano ampiamente dall’ordine pubblico ed attestano, lungo il 1793, speranze che “la rivoluzione francese arricchirà Trieste, invece di bombardarla”. Ancora nel 1795 Pittoni si esprime in questo modo: “Il nostro commercio prospera sulla distruzione d'Europa, e ciò mi fa pena”.

Nei primi mesi del 1796 la congiuntura rimane ancora favorevole per la città, ma già verso la metà dell'anno le cose si mettono al peggio, come scrive Pittoni a Zinzendorf: “Questa rivoluzione causerà molte bancarotte a Trieste dove il denaro comincia a scarseggiare”. A giugno i timori sono ormai pressanti: i francesi sono giunti a Bassano e minacciano di arrivare fino in città a “recuellir les richesses qui sont à Trieste”. Così racconta Attilio Tamaro: “La desolazione tramortì il ceto commerciale, i traffici furono interrotti, il denaro sparve dalla circolazione, le banche di Venezia e di Vienna chiusero il credito alla piazza, la gente cominciò a salvarsi. Poi, visto che i Francesi non si movevano, la paura – la ‘tremarola’ come dice Zinzendorf – si calmò: ma gli affari rimasero in piena stagnazione”.

1797

Napoleone Bonaparte, a conclusione della rapida e vittoriosa campagna d'Italia, occupa Venezia e alla fine di aprile giunge a Trieste. In città viene ospitato nel palazzo del Governatore, conte Pompeo de Brigido, che Kandler definisce “avverso ai Patrizi, tutto devoto e compiacente ai negozianti”, troppo compiacente ai nuovi arrivati.

Tra i cittadini, tra i popolani e i negozianti, non manca chi vede con favore la presenza dei francesi, considerati come i figli della rivoluzione; ciò si verifica in modo particolare in certi ambienti borghesi, tra i massoni e gli ebrei. Il Consiglio dei patrizi si mostra invece nettamente contrario, per timore che l'ondata rivoluzionaria possa limitare i tradizionali privilegi. Oltre ad essere odiato e temuto in quanto a capo degli invasori, il generale Bonaparte viene anche presentato all’opinione pubblica quale ex giacobino e difensore della Convenzione durante l’assedio a Tolone.

Al di là delle differenti posizioni, una novità c’è ed è senza dubbio significativa: di fronte ai francesi la città si trova rappresentata non dai nobiluomini del Consiglio, ma dagli uomini della Borsa, cioè dagli uomini del terzo stato. Ciò sarebbe accaduto di nuovo nei decenni successivi.

L'immagine che Trieste dà in questo frangente agli occupanti francesi è molto seducente, come ricorda il generale Desaix: “Interessantissimi a Trieste sono i costumi che si vedono per le strade, di gente di tutte le nazioni e specie. Tedeschi e ungheresi che vengono a caricare le mercanzie […], gli ungheresi vestiti alla ussara […], mentre i tedeschi hanno cavalli grandi e carri enormi. E poi tanti Levantini di tutte le specie, greci, turchi dell'Asia minore, dell'Africa, ognuno col suo costume caratteristico, tutti con brache larghissime fino al ginocchio; molti portano i capelli neri attorti in trecce […]. Quelli di Smirne hanno sovrapposte due tuniche ampie e lunghe […]. I turchi sono in sandali, chi a gambe nude, chi con pantaloni ampi […], seduti a gambe incrociate su tutte le banchine, fumano in continuazione le loro lunghissime pipe”.

In questo quadro così vario le comunità più rilevanti sono quella greca, quella ebrea e quella slovena, e la consistenza di quest’ultima non dev’essere certamente trascurabile se due funzionari italiani della Borsa, Ustia e Belusco, sostengono la necessità di istituire scuole popolari slovene.

Le speranze dei “patriotti” triestini, che avevano accolto con entusiasmo – al pari di quelli italiani – le armate francesi, vengono però presto deluse: ben diverse dalle loro attese sono le reali intenzioni di Napoleone, che si affretta nell'ottobre del 1797, contro la volontà dello stesso Direttorio, ad accordarsi con gli austriaci. Con la pace di Campoformio, siglata nella Villa Manin di Passariano, Napoleone cede all'Austria in cambio della Lombardia e dei Paesi Bassi austriaci la città di Venezia, l'Istria, la Dalmazia, le isole adriatiche, il Friuli e la terraferma fino all'Adige: ha così fine la secolare indipendenza della repubblica veneta.

1797 – 1804

Il ritorno degli austriaci nella città si accompagna a polemiche e recriminazioni tra le diverse fazioni: parecchi cittadini, tra cui alcuni impiegati governativi e in generale i massoni e gli israeliti, vengono denunciati come fautori della Francia e della rivoluzione. Viene aperta un'inchiesta ed il Consiglio di stato, soddisfatto delle dichiarazioni di fedeltà trasmesse dall'inquisitore e dal governatore, non dà corso ad altre indagini.

Le condizioni di pace, la fine della concorrenza veneziana e l'orientarsi dei traffici dell'Istria e della Dalmazia verso la città portano invero ad un periodo di notevole sviluppo, come attesta anche la decisione di fondare una nuova Borsa: doveva essere l’edificio più alto ed imponente della città, più vasta di quella di Amburgo, seconda solo a quella di Amsterdam. La lingua italiana diviene automaticamente la lingua della Borsa non appena questa assume il ruolo di nuovo capolinea dei traffici tra l’Adriatico e il Levante, dove l'italiano è da secoli la lingua d'uso (“Lingua franca”). La città ha però ancora una popolazione piuttosto limitata, che non supera nel 1802 i 27.000 abitanti, compreso il circondario. Interessanti sono i dati relativi alle diverse comunità non cattoliche residenti in città, che secondo il censimento del 1802 assommano al 14% dell'intera popolazione – nel 1758 assommavano al 5,58%, nel 1778 all'8,7% –, con una distribuzione così riassumibile:

ResidentiComunità
1.247ebrei
869greco-ortodossi
110armeni
100luterani
131calvinisti

(secondo il Godoli)

Interamente cattolica è la comunità degli sloveni, alla quale lo sviluppo di questo periodo porta una novità di un certo rilievo: il lavoro del porto richiama i coloni ladini del suburbio e ad essi subentrano villici slavi; da ciò deriveranno due fenomeni importanti per la storia successiva della città e cioè lo slavismo suburbano di Trieste e l'accentuazione del carattere urbano dell'italianità triestina.

novembre 1805 – marzo 1806

Durante la guerra scatenata contro la Francia dalla Terza Coalizione, le truppe francesi del generale Solignac occupano per cinque mesi la città. Nel dicembre del 1805, la vittoria di Austerlitz sugli austriaci ed i loro alleati russi porta come bottino alla Francia ed ai suoi stati vassalli il Tirolo, la Slovenia, l'Istria e la Dalmazia, modificando ancora una volta tutti gli equilibri e riducendo ai minimi termini la presenza austriaca nell'Adriatico.

La città subisce alla fine una perdita di 12 milioni di franchi per contribuzioni di guerra, ma rimane suddita degli stati ereditari degli Asburgo.

Il Tamaro racconta che “ciò nonostante gli elementi francofili aumentarono. Camminavano con i francesi delle idee che incantavano molti spiriti”.

1806 – 1808

Sulla spinta di Napoleone, Francesco II d’Asburgo, da due anni imperatore d’Austria, rinuncia nel 1806 al titolo di imperatore del Sacro romano impero di nazione tedesca. Al posto del millenario impero nascono numerosi regni tedeschi.

Tra le conseguenze più significative della presenza francese a Trieste, vi è un'accelerazione nel processo di liberalizzazione nei confronti della comunità ebraica. Nel 1806 un cittadino ebreo viene eletto per la prima volta ad una carica pubblica: il mercante Aron Vivante è chiamato a far parte della “Magistrature publique, politique et économique”, insediata dal generale Massena. Numerosi ebrei si schierano apertamente a favore dei francesi.

Negli spazi di libertà che si aprono grazie alla presenza dei francesi, si delineano verso il 1808 i primi partiti o, meglio, i primi orientamenti: quello che vuole mantenere i rapporti con l'Austria (i “Nasoni”), i sostenitori della causa franco-italica (i “Gobbi”) ed infine i sostenitori di un condominio anglo-russo, cioè di una rassicurante occupazione da parte delle due maggiori potenze marittime presenti in Adriatico!

Poche righe del suo Itineraire de Paris à Jérusalem sono dedicate da Chateaubriand alla città di Trieste, dove lo scrittore giunse il 29 agosto 1806 per una brevissima sosta di tre giorni: “J’entrai à Trieste le 29, à midi. Cette ville, regulierèment bâtie, est située sous un assez beau ciel, au pied d’une chaîne de montagnes stériles: elle ne possède aucun monument. Le dernier souffle de l’Italie vient expirer sur ce rivage, où la barbarie commence”.

1809 – 1813

Le truppe francesi ritornano a Trieste per la terza volta durante la ripresa della guerra ad opera della Quinta Coalizione.

Dopo la vittoria di Wagram, Napoleone impone a Vienna una pace umiliante che prevede la sua esclusione completa dall'Italia, nonché la cessione di vasti domini danubiani quali Villaco, la Carniola e tutti i paesi a destra della Sava fino alla frontiera ottomana della Bosnia. Con questi acquisti territoriali Napoleone fonderà un nuovo stato, satellite della Francia, le “Province illiriche”, per creare un antemurale ai confini dell'impero, a scopi fondamentalmente militari. Non a caso a capo delle Province viene nominato un governatore militare, il maresciallo Marmont. Lubiana ne diventa la capitale.

In questo periodo la popolazione passa da 33.000 a 20.600 abitanti; il movimento commerciale da 13.700.000 a 2.500.000 fiorini (secondo il Tamaro).

La città, in un primo momento, non manifesta molta animosità nei confronti degli occupanti, che sembrano anzi voler fare di Trieste un fondamentale caposaldo di una grande via commerciale da Parigi a Costantinopoli, soprattutto nel campo del traffico del cotone. Contrasti e opposizioni si fanno sentire, alla lunga, quando il blocco continentale finisce col dimezzare il traffico portuale, colpendo anche il settore doganale, già impoverito dalla svalutazione della moneta austriaca: ciò induce molti ad emigrare.

Questo periodo di occupazione francese avrà notevoli e durature conseguenze sulla struttura politica ed amministrativa della città. Come sottolinea Giorgio Negrelli: “La politica legislativa napoleonica fa cadere definitivamente i rami secchi delle vecchie istituzioni medioevali, che gli Asburgo, pur svuotandole di contenuto, avevano mantenuto ancora in vita”.

Nel volgere di pochi anni, infatti, si ha una completa ristrutturazione amministrativa: la Borsa viene sostituita da una Camera di commercio, vengono aboliti i privilegi nobiliari e lo stesso Consiglio dei patrizi viene sostituito con una “Mairie”. Il vecchio municipio diventa sempre più un centro cosmopolita, come Marmont, ricordando nelle sue memorie la struttura etnica della bizzarra regione che Napoleone gli aveva dato da amministrare, sottolinea: “I due milioni di abitanti eran composti di tedeschi, illiri (cioè slavi), italiani, albanesi e, infine, di persone di tutti i paesi, a Trieste”. Né manca nelle sue pagine un grato ricordo alla spontaneità con cui molti triestini avevano gareggiato con gli istriani nell'iscriversi alla Guardia nazionale. Questa composizione cosmopolita caratterizza anche la formazione del Consiglio municipale, che costituisce, assieme al “maire” e ad un numero ristretto di “adjoints”, la “Municipalità”. Scrive Kandler al riguardo: “Entrarono nei consiglio […] dodici cattolici, tre israeliti, tre greco-orientali, un greco-illirico, un calvino, e crediamo che uno degli aggiunti fosse calvino. Secondo luogo di nascita, né il podestà né tre degli aggiunti erano triestini; del Consiglio tre soli e forse quattro soltanto; un arabo, due svizzeri, il rimanente friulani, genovesi, greci, tedeschi, istriani, e veneziani”.

Trieste è dunque, nel primo decennio del secolo, una città compiutamente cosmopolita, tutta immersa negli affari, tollerante nei confronti delle più diverse nazionalità. Forse la limita una certa incapacità della sua classe dirigente di misurarsi con i grandi problemi che agitano in quel periodo l'Europa per il persistere sotterraneo di un municipalismo conservatore che era tanta parte della sua storia: municipalismo che ancora caratterizza per certi aspetti molti rappresentanti della cultura e della vita politica cittadina e che si ritrova, ad esempio, in Domenico Rossetti, che proprio in questi anni comincia a farsi sentire.

L'origine e la formazione di Rossetti lo fanno fiero avversario degli ideali della rivoluzione francese, che egli considera “slealtà, ribellione, bestemmia, ignominia di ogni sorta”. Avverso alla politica centralizzatrice di Napoleone – nel 1813 stampa clandestinamente La Veglia e l'aurora di un solitario tutto pieno di livore contro i francesi –, è un tenace difensore dei privilegi del Consiglio dei patrizi. Pur essendo di cittadinanza e di nobiltà recenti – era un “novello” –, ricorda nostalgicamente il tempo in cui la città viveva ancora nella sua “naturale esistenza”; – per lui la prosperità assicurata a Trieste dal porto franco era “artificiale” –, in un mondo mai esistito nel quale, secondo lui, i cittadini, sotto la guida dei buoni e onesti patrizi, formavano “una sola quasi patriarcale famiglia in cui tutto era uno e comune”.


1)
Si dovrà attendere il 1801 per l’istituzione di una scuola maschile greca ad indirizzo umanistico-letterario. Consapevole dell’importanza della conoscenza della lingua greca per lo sviluppo commerciale dell’impero asburgico, la comunità stabilì nel proprio statuto di aprire la scuola anche a studenti di altre etnie: “[viene] ulteriormente prestabilito, che volendo intervenire in detta scuola sei giovani sudditi Imperiali di Religione Cattolica per apprendere essa lingua, vi sarebbero accolti senza alcuna contribuzione” (cap. IX, art. 2). Nel 1829 verrà aperta anche una Scuola Femminile: le due scuole saranno successivamente unificate e, nel 1882, la Scuola Greca di Trieste, otterrà l’equiparazione alle scuole statali austriache.
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