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Entrano in città le avanguardie della IV Armata jugoslava, cui si erano aggiunte alcune brigate partigiane. Si conclude così la “corsa per Trieste”: l'esercito di liberazione jugoslavo aveva forzato i termini delle operazioni, correndo anche qualche rischio, pur di concludere con successo la marcia di avvicinamento. Trieste, infatti, venne raggiunta prima di Lubiana e Zagabria 1).
Le truppe jugoslave chiedono la consegna immediata delle armi al Corpo volontari della libertà, che decide di ritirare le sue forze. In questo modo gli jugoslavi vogliono sottolineare il fatto di essere gli unici “liberatori” della città e di averne il totale controllo.
Entrano in città i soldati della seconda divisione neozelandese.
Racconta Geoffrey Cox che fino al fiume Isonzo le truppe neozelandesi erano state salutate come liberatrici. Al di là del fiume cessarono i saluti e “improvvisamente […] l'atmosfera cambiò completamente. C'era qualcosa di diverso, di indefinibile, […] ma indubbiamente c'era qualcosa. Ci sentimmo stranieri in una terra straniera, come se all'Isonzo avessimo varcato un confine non tracciato ma certo. Infatti era così. Eravamo passati dall'Italia in quella che doveva diventare la terra di nessuno tra l'Europa orientale e l'Europa occidentale, e come ogni terra di nessuno era estremamente inospitale. […] Trieste doveva il suo destino al fatto di essere l'unica zona in Europa in cui gli alleati occidentali e l'Unione Sovietica non avevano stabilito in anticipo una linea di demarcazione inequivocabile. Entrambe le parti […] avevano pensato che ci sarebbe stato tutto da guadagnare a lasciare nel vago il futuro della Venezia Giulia”2).
Il 3 maggio le autorità militari jugoslave assumono anche formalmente i poteri militari e civili, emanando le prime ordinanze: le sottoscrivono il “Commissario politico” Franc Stoka e il “Comandante di città” maggior generale Josip Cerni. Sullo sfondo una città divisa tra le forze di liberazione che diplomaticamente hanno concordato le diverse zone di controllo: “È stata stabilita una linea di demarcazione” – scrive Sylvia Sprigge – “[…]: il porto ed il lungomare sono occupati dalle truppe e dalle unità neozelandesi e dalle unità navali britanniche, mentre il resto della città è in mano alle forze jugoslave. La linea non è munita: l’ho potuta attraversare per andare a visitare degli amici”3).
Con l'“Ordine N. 1” è reso noto che “nella città di Trieste ogni potere viene assunto dal Comando Città di Trieste che proclama lo stato di guerra”; si stabilisce inoltre un rigoroso coprifuoco e l’obbligo di un’autorizzazione specifica del Comando per la circolazione degli autoveicoli. Significativo è il 5° punto del testo, secondo il quale “Domani, 4 maggio, alle ore 1 di mattina tutti gli orologi vengono spostati indietro di un’ora, in modo da uniformare il tempo con quello del resto della Jugoslavia”.
Come sottolinea Ennio Maserati, le autorità militari jugoslave sapevano bene che il loro controllo sulla città si sarebbe concluso con la fine delle operazioni militari nella zona e che il potere sarebbe passato poi agli organi amministrativi civili presenti in città: si trattava quindi, nella loro ottica, di assicurare nel più breve tempo possibile il massimo del potere politico e di controllo al Comitato esecutivo antifascista Italo-sloveno (CEAIS), organismo creato agli inizi di aprile e da loro controllato 4).
Tra il 4 maggio e l’11 maggio venne emanata una serie di ordinanze con cui le autorità jugoslave tentarono a tappe forzate di imporre una sorta di nazionalizzazione dei più importanti settori finanziari e commerciali.
Furono sottoposte ad un rigido controllo le banche e vennero chiuse le compagnie di assicurazione. Venne progettata anche, ma l’iniziativa non ebbe poi realizzazione concreta, la sostituzione della lira italiana in circolazione con una nuova lira del Litorale. Dalla fine di maggio ai primi giorni di giugno vennero prelevate dalla Banca d’Italia somme per una cifra complessiva di 160 milioni, con “ordine del Governo nazionale sloveno e d’accordo col ministero delle Finanze sloveno”.
Le proprietà dei cittadini italiani non vennero confiscate, ma per il futuro vennero proibite le compravendite e le operazioni di trasferimento di capitali.
Infine le ordinanze emesse il 10 e l’11 maggio mirarono ad imporre un forte controllo sulle industrie e sulle aziende commerciali, comprese le botteghe degli artigiani.
La volontà di considerare come “sussidiarie” l’economia di Trieste e quella della Slovenia emerse nel modo più evidente a maggio, durante un incontro a Lubiana tra una rappresentanza di dirigenti industriali triestini e il governo nazionale sloveno.
Così Il nostro Avvenire 5) riportò le parole del presidente del governo sloveno Boris Kidric a conclusione dell’incontro: “Signori! Ci siamo messi d’accordo in linea di principio nelle questioni seguenti:
1) La Jugoslavia ha bisogno dei vostri prodotti industriali.
2) Trieste venderà alla Jugoslavia.
3) L’industria triestina dispone nella Jugoslavia di molte materie prime.
4) Tutti siamo interessati che i reciproci rapporti commerciali abbiano inizio quanto prima.
5) Tanto per voi, quanto per noi è necessario che presto si sviluppi l’iniziativa privata.
6) Spero che questa prima riunione dia origine a vivaci contatti e forti legami economici”.
Questi provvedimenti, secondo Novak, “costituirono un’altra prova del tentativo delle autorità jugoslave di introdurre il comunismo. Questo vale soprattutto per Trieste, che era la sede delle maggiori industrie e dei più importanti istituti finanziari e commerciali della regione”.
Più sfumata, ma sostanzialmente analoga, l’interpretazione di Ennio Maserati: “I lineamenti fondamentali della locale politica jugoslava in materia economica, sociale ed amministrativa sono improntati sulla creazione di un sistema improvvisato di governo popolare di ispirazione progressista, preludente all’instaurazione di formule collettiviste e comuniste, sia pur mascherate a Trieste per esigenze di carattere propagandistico e psicologico. Contemporaneamente si tende a cancellare non solo ogni traccia delle strutture tipicamente fasciste ma anche del preesistente ordinamento amministrativo e giudiziario italiano, per inserire Trieste nel nuovo quadro statale jugoslavo”.
Uno dei segni di questa strategia seguita dagli jugoslavi è la costituzione di un sindacato “unico” a direzione comunista 6).
I “Sindacati unici” operarono come uno degli organismi fondamentali del nuovo “potere popolare” fino a quando, nel mese di maggio, il Governo Militare Alleato riconobbe ai sindacati il ruolo di rappresentanza e di tutela dei lavoratori esclusivamente in materia contrattuale e salariale.
Nel suo diario Quarantotti Gambini ci dà un’immagine molto viva di una manifestazione inscenata dalla “gente del Carso”: come dichiara l’autore stesso, in queste pagine più che un’analisi storica di quella drammatica primavera va cercato “ciò che un giuliano ha provato, veduto, udito”.
Al dolore di un istriano che teme per il destino di Trieste e della propria terra, si mescolano alcuni temi retorici che ricordano certi stereotipi della tradizione liberalnazionale: “Passano uomini e donne a due a due, in una rada e lenta fila, reggendo una quantità inverosimile di bandiere bianche rosse e blu (alcune strette e interminabili, quasi sempre serpentine, come consentono i colori uniti per lungo), e drappi, sempre bianchi rossi e blu, pendenti dall’asta come stendardi. […] Non sono triestini (basta, a capirlo, un solo sguardo); ma gente del Carso e forse di più su. Vecchi e donne.
[…] È una processione, e di campagna. Tutta gente calata dai paesi sloveni, dalle caratteristiche facce bionde un po’ schiacciate; vecchi contadini, che schivano di guardarsi intorno; e ragazzotte, quasi tutte tarchiate, vestite con vecchie uniformi fasciste di Giovani Italiane. Gli uomini procedono in silenzio reggendo le aste delle bandiere e dei gonfaloni con semplice solennità campestre; ma le ragazze, di tanto in tanto, alzano la voce come se intonassero un lungo canto liturgico o rispondessero alle litanie. Voci stridule, e lamentose, che suonano stranamente qui a Trieste.
[…] Sono piccoli, in genere, questi sloveni; notevolmente più bassi di quella che è la statura media dei triestini e degli istriani.
Osservo loro e poi i cittadini che mi passano accanto; sì, c’è una differenza di statura, oltre che somatica e di costituzione, che sorprende. Ho sempre pensato che gli jugoslavi fossero più alti; e quelli che avevo davanti dovevano essere quasi tutti croati o dalmati o intellettuali. Questi sloveni della campagna – e qui posso constatarlo perché ne ho, per la prima volta, alcune centinaie sotto gli occhi: uniformemente bassi e ossuti, biondicci e scabri – sembrano non cresciuti qui vicino ma di tutt’altri paesi, a paragone dei triestini che sono alti e baldi (baldi anche ora – son fatti così – nonostante le angosce di questi giorni impresse su tutti i volti).
Questa differenza risalta più ancora nelle ragazze. Le slovene, di corporatura corta e muscolosa (il fisico di tante servotte, pulitissime, oneste e formidabili lavoratrici, delle cosiddette «donne del latte»), sono esattamente l’opposto delle triestine, dai torsi slanciati e dalla gambe lunghe.
Sfila sempre lenta e rada sugli asfalti della città la processione di campagna, con tutte le sue bandiere all’aria di maggio; e ogni tanto si alza una voce di donna, e poi un’altra, e un’altra: anch’esse di tutt’altro timbro, così stridule e lamentose, da quelle delle donne nostre.
Penso come sarebbe un’autentica manifestazione triestina. Si procederebbe – reggendo il tricolore – quasi di corsa, e un inno proromperebbe da tutti i petti. E le ragazze, irruenti, infuocate, sfilerebbero in testa”.
Scoppiano sanguinosi incidenti in via Imbriani, che portano alla morte di cinque giovani italiani.
Un concitato resoconto di seconda mano è riportato dall’anarchico Umberto Tommasini, giunto a Trieste una settimana dopo i drammatici fatti: “Quando mi son rivà, iera za successo el fato. Iera i primi giorni di magio. Xe vignudi fora i Slavi e i comunisti e ga fato una manifestazione. Anche a san Giacomo i ga messo fora le bandiere rosse de le finestre e quando che xe arivai i partigiani i ghe le ga fate ritirar, meter fora slave, qualche bandiera rossa, pochissime. I ga ritardado un’ora de far la manifestazion; partiva da Modiano perché iera prima i operai. La gente che ne fazeva parte, gaveva quasi tute le bandiere rosse e dopo bandiere italiane co’ la stela e dopo bandiere slave co’ la stela, qualcheduna. Ma i dava contrordini: «Via le bandiere rosse, solo le bandiere nazionali». Dopo: «Ben, qualche bandiera rossa». Iera un tira e mola: «Bandiera rossa … bandiera nazionale». Fato sta i xe andai zo co’ quasi tute bandiere nazionali, qualche rossa, rarissima. Me lo ga dito el marì di una cugina de mia molie; lui parlava croato-italiano e lo ga ciolto in caserma a Roian. I xe vignui zo de Scala Santa, i ga ocupà la caserma e i gaveva messo fora la bandiera rossa de la caserma; i ga avudo ordine imediatamente de ritirar la bandiera rossa e de meter la bandiera croata. Alora el comandante slavo là ga dito: «Anche Tito el ne ga imbroià, el ne ga tradì». Quel là iera forsi un rivoluzionario, uno che ghe tigniva a l’internazionalismo. Questa espressione anche in mezo a loro iera, che no’ i soportava le bandiere nazionali.
I repubblicani dopo i ga fato una contromanifestazione, quando che iera i Slavi che i xe andai zo co’ le bandiere nazionali, e ghe ga sparado e ghe ga amazzado quei quattro-cinque in via Imbriani perché i xe andai co’ le bandiere nazionali. Iera una ripresa, una ritorsione perché xe sta el grave erore dei Slavi, de venir zo co’ tute bandiere nazionali e inveze, se i vegniva co’ le bandiere rosse, no’ i ghe dava l’esca a quei altri de ritorsione”.
La manifestazione italiana, iniziata da elementi del CVL, assunse presto dimensioni notevoli: molte persone di passaggio per il centro seguirono la bandiera italiana. Il corteo si stava svolgendo pacificamente, quando alcune pattuglie jugoslave – “forse allarmate dalla consistenza della folla e temendo un tentativo insurrezionale”, scrive Maserati – aprirono il fuoco dall’angolo di via Imbriani. I caduti ufficialmente riconosciuti furono Graziano Burla, Carlo Murra, Graziano Novelli, Mirano Sanzin, Giovanna Dassich.
“I metodi impiegati dal Comando Militare jugoslavo” – scrive Ennio Maserati – “resi ancora più oppressivi ed arbitrari da iniziative di elementi locali del fronte Sloveno, della Difesa Popolare e da organizzazioni di polizia politica insediatesi nel territorio quali l’OZNA (Oddelek Zascite Naroda = Dipartimento per la difesa del popolo) richiamarono l’attenzione dei governi alleati, già insoddisfatti dell’occupazione jugoslava del porto adriatico, e colpirono l’opinione pubblica internazionale” 7).
Nella Casa del Popolo si riuniscono le diverse organizzazioni antifasciste italo-slovene della città per rinnovare le cariche del CEAIS. Presidente del Comitato esecutivo è eletto il medico Umberto Zoratti (democratico indipendente); vicepresidenti Giuseppe Gustincich (comunista) e Franc Stoka (OF = Fronte di Liberazione sloveno); segretari l’italiano ing. Fulvio Storti (democratico indipendente) e lo sloveno Rudi Ursic (OF).
I delegati del CEAIS – circa una sessantina – decidono di assumere la denominazione di Consiglio di Liberazione di Trieste, trasformando così l’istituzione partigiana in un organo amministrativo cui sarebbe toccato il compito di amministrare la città appena finite le operazioni militari e la guerra.
Al CLT sarebbe toccato il compito di organizzare nel più breve tempo possibile le elezioni per formare un’amministrazione permanente della città secondo il modello jugoslavo (un’Assemblea cittadina e un Comitato esecutivo).
I rappresentanti italiani eletti nel Comitato esecutivo divennero subito bersaglio di una dura campagna di stampa da parte delle forze aderenti al CLN, che li accusarono di collaborazionismo e li additarono polemicamente all’opinione pubblica cittadina 8).
L’8 maggio si costituiscono i Sindacati unici degli operai, impiegati e intellettuali: “Alla Casa del popolo” – scrivono Paolo Sema e Claudia Bibalo – “si riuniscono quelli che erano stati i Comitati di fabbrica e di rione di Unità operaia, il Comitato circondariale e i delegati che erano stati eletti nei luoghi di lavoro per questa prima assise e per la formazione del Comitato circondariale che dirigerà la nuova organizzazione. L’assemblea è presieduta da Tomo Brejc del Comitato centrale dei sindacati jugoslavi; è stato segretario regionale del Partito comunista sloveno del Litorale nel 1942 e responsabile delle redazione di Delavska Enotnost per la Slovenia. Egli espone i principi fondamentali in «seno alla riforma sindacale in atto. I nuovi sindacati, egli dice, veri rappresentanti della massa lavoratrice, potranno finalmente tutelare gli interessi dei lavoratori. Il problema più importante oggi è ricostruire e produrre. Prima ricostruiremo prima godremo i frutti del nostro lavoro. Non potranno e non vi dovranno essere disoccupati nella nostra città; e in quanto al lavoro ce ne sarà fin troppo»”.
Le direttive che emergono fin dall’inizio sono chiaramente finalizzate alla costituzione di una rappresentanza aziendale e di sindacato “che non ha nulla a che fare” – sottolineano Sema e Bibalo – “col tipo di sindacato che opera in Italia e difatti mai si parla nelle direttive, nelle assemblee, nelle notizie sui giornali dell’esperienza della CGIL, dei Consigli di gestione, delle Commissioni interne, delle lotte del proletariato italiano. Il modello è quello della società socialista e ci si richiama alla realtà esistente in Jugoslavia. Per queste ragioni, i compiti fondamentali affidati al sindacato sono quelli legati alla produzione, alla ricostruzione, al controllo dei «piani stabiliti dalle competenti autorità»”.
I dirigenti eletti alla fine dei lavori provengono quasi tutti da Unità operaia, di cui erano stati a loro volta dirigenti; degli altri, Stanko Francovich proveniva dal Comitato circondariale dell’OF, Gianna Barut era membro della associazione Donne antifasciste italiane.
Durante un discorso pronunciato il 10 maggio 1945 a Roma, al Teatro Brancaccio, Pietro Nenni affronta quella che presto si sarebbe imposta all’attenzione internazionale come la “questione di Trieste”. Nelle sue parole, come dietro alle posizioni di principio, necessariamente generiche, si nasconde non solo un problema politico-diplomatico di difficile soluzione, ma anche l'esigenza di impostare su nuove basi la politica estera del futuro stato democratico: “Uno dei più gravi problemi che si pongono in questo momento davanti alla nazione è quello di Trieste. Noi rivendichiamo il diritto italiano di Trieste; non accetteremo soluzioni di forza, né soluzioni unilaterali, ma affermiamo che se Trieste ci è contestata, se esiste in Europa un problema di Trieste, la colpa è del fascismo e della monarchia. Neghiamo a coloro che hanno fatto l'apologia della guerra fascista in Spagna, a coloro che hanno fatto l'apologia dell'aggressione italiana contro la Francia nel 1940, a coloro che hanno acclamato Mussolini quando ha portato la guerra in Grecia e in Jugoslavia, neghiamo a costoro il diritto di servirsi del nome di Trieste come di un passaporto per la loro riabilitazione.
Trieste non è stata difesa dai generali regi, che hanno capitolato il 10 settembre: è stata difesa dai pochi reparti dell'esercito che si sono costituiti dopo il settembre per lottare e combattere a fianco degli alleati; è stata difesa dai nostri partigiani, dagli insorti, ognuno dei quali, rialzando in Europa e nel mondo il prestigio dell'Italia, ci permetteva di domandare il rispetto dell'Italia. Trieste oggi non si difende rinnovando il carnevale dannunziano, dal quale sono derivate tutte le sciagure del popolo italiano in questi ultimi venticinque anni: Trieste si difende affermando che noi abbiamo dei torti da riparare verso la Jugoslavia; che noi abbiamo una frontiera da rivedere; che non vogliamo opprimere sloveni e croati; ma che, appunto perché non vogliamo opprimere la altre nazionalità, intendiamo difendere gli italiani di Trieste”.
Alla presenza dei rappresentanti delle missioni militari inglesi, americane e russe il generale Dusan Kveder, a capo del Comando Città di Trieste, trasferisce l’amministrazione civile al CLT. È lo stesso Kveder a dichiarare che “alla città di Trieste, che conta una maggioranza di popolazione di origine italiana, si concede l’autonomia, la più ampia autonomia in seno alla democratica e federativa Jugoslavia”9).
Il Comando della città conserva, però, la competenza sugli affari interni, sul commercio estero e sull’industria.
Durante il periodo dell'occupazione gli jugoslavi cercarono in tutti i modi di organizzare il consenso alla tesi annessionistica e di superare ogni opposizione politica – lo stesso CLN dovette tornare nella clandestinità – che la contrastasse in qualche modo.
In questi “quaranta giorni” la strategia politica jugoslava si venne modificando: in un primo momento puntò all'annessione pura e semplice della città alla Slovenia; in un secondo momento, dopo la netta presa di posizione degli alleati e la consegna del promemoria di Alexander a Tito il 9 maggio, gli jugoslavi abbandonarono l'idea dell'annessione alla Slovenia e ripiegarono sulla soluzione di Trieste quale “Settima repubblica” in seno alla “federazione jugoslava” 10).
Il radicale cambiamento della posizione americana, che fino a quel momento era stata attenta ad evitare ogni motivo di conflitto, è ben testimoniato dal telegramma inviato a Churchill il 12 maggio da Truman, da un mese succeduto a Roosevelt alla carica di presidente degli USA: “Se i suoi metodi daranno buoni risultati nella Venezia Giulia, pare che Tito abbia già pronte rivendicazioni identiche sull'Austria meridionale, Carinzia e Stiria, e potrebbe progettare qualcosa di analogo anche per parte dell'Ungheria e della Grecia […]. Si tratta fondamentalmente di decidere se i nostri due paesi intendono permettere ai nostri alleati di intraprendere un'incontrollata espansione e di perseguire tattiche che ricordano troppo da vicino quelle di Hitler e del Giappone”.
Nel periodo di presenza della IV Armata a Trieste deportazioni, processi e “infoibamenti” sottolinearono tragicamente la durezza dei rapporti politici e umani dopo anni e anni di guerra e di violenze
11).
L’opera di repressione nei confronti degli avversari politici aveva un duplice scopo: da una parte porre fine a ciò che ancora rimaneva della vecchia classe dirigente fascista, dall’altra colpire e neutralizzare gli oppositori al nuovo regime, anche se questi erano antifascisti ed avevano combattuto a fianco dei partigiani jugoslavi, come testimoniano le persecuzioni a numerosi appartenenti al CLN, colpevoli solo di opporsi alla annessione di Trieste alla Jugoslavia.
La situazione in città diventò ancor più tesa per le continue voci sul ripetersi degli “infoibamenti”, che rinnovavano drammaticamente il ricordo del settembre del 1943: questa volta il fenomeno era ancora più allarmante e coinvolgeva anche altri territori, da Trieste alla Venezia Giulia.
“Così, ciò che avvenne nelle prime settimane di maggio” – scrive Raoul Pupo – “sembrò confermare le peggiori aspettative, dal momento che un’ondata di arresti del presumibile ordine di grandezza di parecchie migliaia di unità, unita all’assenza di notizie sulla sorte dei detenuti, venne immediatamente associata al ricordo degli episodi del 1943, lasciando presumere una strage di dimensione inaudite. Il successivo rilascio di parte dei detenuti, avvenuto in sordina e ultimato appena nell’arco di alcuni anni, senza peraltro che fosse stata chiarita la sorte di molti degli scomparsi, non avrebbe più scalfito una convinzione ormai consolidata” 12).
A conclusione delle elezioni per i 1.348 delegati dell’Assemblea costituente della città – per la prima volta le donne parteciparono a Trieste ad una consultazione elettorale – gli eletti si riuniscono nel teatro Rossetti e confermano i 19 membri del CLT, dando ad esso un carattere permanente: per acclamazione vengono eletti i 120 membri che costituiscono la Consulta della città. 13)
Gli organi amministrativi della città sono a questo punto delineati: un Consiglio di Liberazione di 27 membri, di cui 18 italiani e 9 sloveni, con funzioni legislative ed esecutive limitatamente alla città autonoma di Trieste, ed una Consulta cittadina con funzioni legislative delegate per determinati settori, primo quello relativo alla costituzione del nuovo ordinamento giudiziario.
Ai lavori dell’Assemblea costituente parteciparono ufficialmente i rappresentanti militari della Gran Bretagna, degli USA e dell’URSS. La loro presenza – come quella del 3 maggio al palazzo municipale – venne interpretata da più parti come un riconoscimento di fatto dei nuovi organi amministrativi, in conformità agli accordi verbali stretti tra Tito ed Alexander nel mese di febbraio.
In realtà le intenzioni degli alleati occidentali erano ben diverse, come il Segretario di Stato Joseph Grew chiarì il giorno stesso a Washington. Era intenzione del governo americano istituire nella Venezia Giulia un controllo militare alleato: “Gli Stati Uniti sono fermamente convinti che eventuali modifiche territoriali potranno essere accettate solo dopo attenti studi e accurate consultazioni e delibere dei vari governi interessati”.
Sul giornale Il nostro Avvenire compare un articolo nel quale si preannuncia “la futura piena autonomia di Trieste nella nuova Jugoslavia di Tito”.
L’autore principale, se non l’unico, della proposta jugoslava sull’autonomia è Edvard Kardelj, secondo il quale Trieste di per sé non era in grado di sviluppare un’attività portuale autonoma, né poteva essere unita all’Italia senza che ciò comportasse l’annessione di alcuni territori sloveni: poiché avrebbe rappresentato un’isola nel territorio sloveno, la soluzione più giusta sarebbe stata attribuire alla città un’autonomia all’interno della federazione jugoslava.
Dopo l’insuccesso della missione a Belgrado del generale William Morgan, capo di stato maggiore di Alexander,
15) l’atteggiamento di Alexander mutò al punto da inviare alle truppe alleate un messaggio di grande durezza contro Tito e le sue truppe di occupazione:
“La nostra politica pubblicamente proclamata è che le modifiche territoriali dovrebbero essere attuate soltanto dopo studi approfonditi e dopo esaurienti consultazioni e deliberazioni tra i vari governi interessati. Tuttavia la manifesta intenzione del maresciallo Tito è di far valere le sue rivendicazioni con la forza delle armi e con l’occupazione militare. Azioni di questo genere ci ricorderebbero fin troppo bene l’esempio di Hitler, di Mussolini e del Giappone. È stato per impedire queste azioni che noi abbiamo combattuto questa guerra. […] Non possiamo ora distruggere il principio vitale per cui noi tutti abbiamo combattuto. Ed in virtù di questi principi è ora nostro dovere tenere questi territori contestati in amministrazione fiduciaria, finché la Conferenza della Pace non disporrà definitivamente il loro destino”.
La durezza e l’autorevolezza del messaggio di Alexander non lasciano adito a dubbi, anche perché nella stessa direzione si sta muovendo il presidente degli Stati Uniti, Truman, che si dichiara disponibile anche ad usare la forza per “sbattere gli jugoslavi fuori da Trieste”
16).
Dietro queste minacciose parole di Truman – come sottolinea Valdevit – pesava indubbiamente il caso della Polonia, che era in qualche modo diventata “la cartina di tornasole delle intenzioni sovietiche circa la ricostruzione dell’Europa”.
Il comportamento dell’Armata Rossa in Polonia appariva infatti agli americani come l’evidente dimostrazione che l’URSS considerava ormai la dichiarazione di Yalta “pressoché lettera morta”: bisognava evitare assolutamente che Trieste facesse una fine analoga.
Per costringere la diplomazia jugoslava al negoziato fu sufficiente agli angloamericani spostare le truppe di qualche chilometro verso est, quasi a ridosso di quella linea che poi verrà definita dagli accordi di Belgrado, e proporre nel contempo come soluzione di compromesso la spartizione dei territori contesi in due diverse zone di controllo: in sostanza la soluzione che una ventina di giorni dopo sarà firmata a Belgrado.
Non si arrivò allo scontro armato anche perché il governo jugoslavo era ben cosciente della propria debolezza nei confronti degli angloamericani e sapeva che attendersi in quel frangente un concreto appoggio militare dal parte dell’URSS era del tutto chimerico.
A Trieste la mancata “risposta” militare da parte di Londra e di Washington fu accolta con delusione in vari ambienti. Se ne fa testimone Quarantotti Gambini, che così rievoca quelle attese frustrate: “Spettava ora a Churchill e a Truman di rispondere, di prendere una decisione e una posizione; soltanto essi avevano la possibilità, parando istantaneamente il colpo, di annullare la mossa jugoslava e di rimettere Alexander in sella. Parare il colpo? Sì: rispondendo a Tito che la questione non si era minimamente spostata nel campo politico, ch’essa non poteva essere, oggi come ieri, se non di carattere militare, e riguardava quindi Alexander nella normale esplicazione delle sue funzioni, e non già le Cancellerie. In tal caso, senza il minimo pericolo di guerra – perché Tito rischia sinché la posta vale il gioco – tutto si sarebbe risolto in poche ore. Invece Inghilterra e America hanno accettato la tesi di Tito, favorendo in tal modo tutto il gioco di Belgrado e chiudendo irrimediabilmente il cerchio intorno ad Alexander. Tito ha vibrato il primo colpo per disarmare il comandante del Mediterraneo; Churchill e Truman, anziché sostenerlo e ridargli la possibilità d’agire confermando che la questione era di sua stretta dipendenza, hanno disarmato Alexander del tutto e gli hanno serrato essi stessi le manette ai polsi”.
Tito tiene un discorso davanti alle truppe a Lubiana. Nel suo diario Sylvia Sprigge ne riporta alcuni passi “«I nostri fratelli dell’Istria e del Litorale Sloveno [Venezia Giulia] sono liberi, ma quelli della Carinzia ancora attendono la loro liberazione. A nome vostro ed a nome della Jugoslavia dichiaro che non abbiamo dimenticato i nostri fratelli della Carinzia che tremano ancora sotto gli agenti della Gestapo, nascosti dietro altre uniformi». A proposito della Venezia Giulia continuava: «Respingo decisamente l’accusa secondo cui nostra intenzione è la conquista con l’uso della forza: non abbiamo bisogno di prenderci con la forza ciò che è nostro diritto, perché confidiamo che gli Alleati manterranno le promesse del Patto Atlantico, per cui i popoli oppressi hanno il diritto di decidere da soli il proprio destino»”.
Ma nelle parole di Tito non mancò anche un accenno polemico, neanche tanto larvato, ad un altro interlocutore, che doveva accogliere il suo messaggio da Mosca: “Noi non vogliamo pagare il conto degli altri, non vogliamo essere moneta di scambio, non vogliamo essere immischiati in non so quale sfera di interessi politici […] non vogliamo dipendere da nessuno, nonostante tutto quello che è stato scritto ed è stato detto”.
La reazione di Stalin non lasciò spazio ad equivoci e mutò profondamente i termini della contesa: “Egli minacciò Tito di rendere pubblico il dissidio che li divideva” – scrive Joze Pirjevec – “abbandonando la Jugoslavia alla sua sorte”.
Tale minaccia ebbe naturalmente sul maresciallo e sui suoi collaboratori il debito effetto.
Da quel momento il loro pensiero principale fu quello di ritirarsi in buon ordine da Trieste e prepararsi alla lotta diplomatica, tesa, se non alla riconquista della città, che sapevano irrimediabilmente perduta, almeno ad una frontiera più favorevole della linea Morgan.
L’ottimismo con cui Tito il 12 maggio, in occasione della fondazione del Partito comunista serbo, aveva proclamato che “l’amore dell’Unione Sovietica nei nostri confronti è sconfinato”, è ormai solo un ricordo, come rivelò anni dopo con grande amarezza: “Oggi posso dire […] che mentre stavamo combattendo con noi stessi a proposito della terribile decisione se abbandonare o meno Trieste, non ricevemmo nessun aiuto morale, nessun segno, da parte dell’Unione Sovietica. Notte dopo notte rimasi seduto presso il telefono aspettando almeno una parola, un consiglio. Ma non sentimmo nulla, poiché i loro interessi non erano direttamente toccati”.
Nel corso dell’estate 1945 la politica estera del governo italiano comincia a mostrare una minor intransigenza nella difesa della linea fino ad allora sostenuta e cioè il riconoscimento del Trattato di Rapallo come unica base di contrattazione nella discussione sulla frontiera orientale del paese: era il segno di una disponibilità ad accettare una soluzione “diversa e apparentemente meno rispondente ai fini della completa tutela degli interessi italiani nella Venezia Giulia”.
Ma era anche il segno del maggior “realismo” con cui Roma guardava ai rapporti di forza in campo internazionale e al ruolo centrale che in questo scenario svolgeva il governo di Washington: “Secondo gli elementi finora a nostra conoscenza” – scrive Raoul Pupo – “la decisione di puntare sulla linea Wilson venne esplicitamente assunta dal governo italiano dopo che una serie di contatti con il Dipartimento di Stato aveva confermato la disponibilità americana a sostenere la nuova ipotesi di frontiera. […] Il puntare […] nel 1945 sull’accettazione della linea Wilson significava presupporre, perlomeno a livello di intenti, la conservazione all’Italia di una funzione certo non velleitariamente egemone, ma nemmeno esclusivamente di secondo piano, nell’area mediterranea e balcanica. Ma erano proprio quelli i presupposti che, dopo l’esperienza dell’aggressione fascista, gli ex-nemici dell’Italia, e in particolare la Jugoslavia, intendevano mettere radicalmente in discussione”.
In realtà fino a quel momento la diplomazia italiana si era illusa che la firma dell’armistizio da parte degli inglesi e degli americani comportasse per Londra e Washington una sorta di obbligo di assumersi la responsabilità di tutto il territorio nazionale e quindi anche della Venezia Giulia nei confini prebellici: in quest’ottica – osserva acutamente Pupo – chi minacciava gli interessi dell’Italia sarebbe dovuto diventare automaticamente un nemico delle potenze alleate cui l’Italia aveva offerto la propria resa!
Il rifiuto dei comandi alleati di impegnarsi nella “corsa per Trieste” e la successiva occupazione jugoslava della città avevano finalmente aperto gli occhi alle autorità italiane, troppo a lungo offuscati da una “radicale incapacità ad intendere la natura politica del conflitto in corso”: i governi occidentali non avevano alcuna intenzione di rompere con gli alleati jugoslavi a fianco dei quali avevano fino ad allora combattuto i nazisti e i fascisti, loro alleati, e non intendevano nell’immediato futuro lasciarsi invischiare, per curare gli interessi altrui, in una crisi balcanica da cui sarebbero stato arduo uscire.
Sylvia Sprigge riferisce che tutti i giornali di Trieste hanno dato ampio spazio alle dichiarazioni fatte dal vescovo Santin: “Sono lieto di poter affermare che sono sempre stato trattato con gentilezza e con correttezza dalle autorità locali, jugoslave e comunali: secondo, che non sono mai stato deportato né segregato in casa sotto la sorveglianza della polizia, e non ho mai avuto motivo di temerli [le autorità locali]; terzo, che l’attività religiosa a Trieste è potuta proseguire indisturbata e quarto che la processione del Corpus Domini è stata svolta in tono minore ed in una chiesa diversa solo a causa di impedimenti materiali, mentre le autorità non solo non ci facevano ostruzionismo, ma anzi ci davano ogni assistenza per assicurare lo svolgimento regolare e solenne della cerimonia. Firmato Antonio Santin”18).
Va tenuto presente, a proposito di quell’accenno a “tutti i giornali di Trieste”, che durante i “quaranta giorni” l’unico quotidiano di lingua italiana ad uscire indisturbato fu Il nostro avvenire, che appoggiava le tendenze annessionistiche dei gruppi dell’OF.
I rapporti tra gli alleati e l'URSS non sono ancora improntati ad una rigida contrapposizione: di fronte alla pressione americana, Stalin, che aveva interessi ben più rilevanti da tutelare, decide di non sostenere ulteriormente le rivendicazioni jugoslave.
In questo nuovo contesto, il 9 giugno gli jugoslavi firmano a Belgrado un accordo per la definizione di una linea di demarcazione provvisoria che passava a pochi chilometri ad oriente della città: viene così accettata la “linea Morgan” e pochi giorni dopo la IV Armata abbandona Trieste.
In base all'accordo di Belgrado la parte orientale della Venezia Giulia, la cosiddetta Zona B, rimaneva sotto l'occupazione jugoslava, ma doveva essere amministrata come unità territoriale separata. La parte rimanente dei territori contesi veniva a costituire la Zona A – compresa anche l'enclave di Pola – e passava sotto amministrazione alleata.
Va tenuto presente che l’articolo 3 dell’accordo non attribuiva un indiscusso e definitivo potere di governo all’amministrazione militare alleata: in tal modo erano gettate le premesse di quel binomio controverso tra il controllo effettivo del territorio e la vertenza diplomatica che avrebbe condizionato fino al 1954 la “questione di Trieste”.
Le autorità alleate subentrano agli jugoslavi nel controllo della città.19)
In breve tempo il Governo Militare Alleato liquidò gli organi di governo lasciati dagli jugoslavi e ripristinò sostanzialmente il vecchio apparato amministrativo italiano. Per di più il GMA si assunse gran parte del compito di procurare le risorse necessarie alle più urgenti opere di ricostruzione e al riavvio delle attività produttive.
In realtà per gli alleati la ricostruzione si presentava soprattutto come un problema di ordine pubblico: assicurare lavoro alla popolazione significava garantire la riappacificazione sociale e l’ordine, condizioni minime per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti da Londra e da Washington. Venne così applicato anche a Trieste quel programma di “prevention of disease and unrest” seguito in tutte le zone controllate dagli alleati: bisognava in primo luogo “prevenire malattie che potrebbero diffondersi alle truppe e agitazioni che potrebbero richiedere il loro intervento”.
La speranza era che la città, superati i momenti più tragici dell’immediato dopoguerra, cominciasse prima possibile a camminare sulle proprie gambe: una speranza destinata ben presto a svanire, sia per la radicalizzazione dei rapporti politici in città e nello scenario internazionale, sia per l’estrema debolezza dell’economia triestina.
La vita economica della città era infatti drammaticamente ferma. Gran parte delle industrie e delle raffinerie di petrolio era gravemente danneggiata in seguito ai bombardamenti e il porto era bloccato dai relitti di molte navi mercantili e da guerra di diverse bandiere: basti pensare che i primi rifornimenti giunti a Trieste via mare furono scaricati con i mezzi da sbarco alleati sulla spiaggia di uno stabilimento balneare vicino al Campo Marzio.
La situazione in cui Trieste venne a trovarsi all'indomani degli accordi presi a Belgrado viene sintetizzata con grande lucidità da Apih: “Con le distruzioni e le vittime (un migliaio) provocate dai bombardamenti, con le ripetute occupazioni, Trieste aveva toccato il fondo amaro della sua natura contraddittoria: l'odio della campagna, la condizione di isola del suo retroterra, il carattere artificioso e classista del suo sviluppo, l'assenza di universalità nella sua idea di nazione. Non solo a Klagenfurt e a Lubiana, ma anche a Basovizza si era deciso di essa”.
L'uscita dal secondo conflitto mondiale collocava infatti la città in una situazione del tutto nuova: il suo naturale retroterra (che prima del primo conflitto mondiale si estendeva fino al centro-Europa e che nell'intervallo tra le due guerre si era ridotto di fatto all'area dell'ex Venezia Giulia), ora risulta quasi scomparso, dando luogo ad una città-provincia dove il Comune capoluogo copre il 40% dell'area provinciale, ma comprende l'89% della popolazione dell'area stessa e dove i nove decimi del confine provinciale sarebbero diventati confine di stato.
Nello stesso periodo, non diversamente da quanto era accaduto nella Zona A controllata dagli alleati, l'introduzione dell'amministrazione civile jugoslava nella Zona B determinò una situazione di fatto favorevole alla Jugoslavia.
In realtà queste scelte “amministrative” prefigurarono le future scelte definitive, condizionando tutto il dibattito politico nel decennio 1945 – 1954, anche se formalmente gli accordi di Belgrado dovevano essere considerati soltanto provvisori, in vigore fino alla firma di un Trattato di pace vero e proprio.
Sotto il Governo Militare Alleato viene assicurata una maggiore libertà per l’attività dei partiti. Mentre il CLN comincia perdere compattezza e incisività politica – formalmente sarebbe rimasto in piedi fino alla firma del Trattato di pace – i vari partiti che lo costituiscono vanno prendendo strade autonome. Liberali e cattolici si definiscono secondo le linee politiche caratteristiche dei partiti che agivano sulla scena italiana; gli uomini del Partito d’azione, fondendosi con i repubblicani, daranno vita al Partito repubblicano d’azione.
Il partito socialista (PSIUP) si trova invece in una situazione particolare: mentre in Italia socialisti e comunisti sono vicini e collaborano assieme al governo, a Trieste i socialisti assumono una linea autonoma sulla questione nazionale, rifiutando di seguire la scelta comunista di allineamento alla politica jugoslava e rifiutando ogni discussione sulla scelta a favore dell’Italia. Ai loro occhi i veri “nazionalisti”, infatti, sono solo gli jugoslavi.
L’Ora Socialista, settimanale del PSIUP, dichiara che “l’imposizione del nazionalismo slavo violento ed intollerante ha provocato la rottura dell’unione proletaria”. Quello jugoslavo, pertanto, non è il vero socialismo, anzi “non vi è chi non veda come i popoli jugoslavi siano stati galvanizzati dall’aver i loro capi ad essi additato la «terra promessa», la Venezia Giulia. Accarezzati nel loro sentimento più vivo i popoli della Jugoslavia hanno aderito all’ideologia perché essa si identificava con la loro passione nazionale”.
Sul fronte comunista la questione nazionale venne vissuta in modo del tutto diverso, come testimonia la fondazione, il 13 agosto, del Partito comunista della regione giulia, cui aderirono i comunisti italiani, sloveni e croati. A settembre il neonato partito si pronunciò formalmente a favore della federazione della città alla Repubblica democratica federativa jugoslava, – la parola d’ordine era “Trieste-VII Repubblica” – provocando la disapprovazione del Partito comunista italiano, che non pubblicò sull’Unità l’intervento del rappresentante dei comunisti triestini al V Congresso.20)
“Ci fu qualche dissidenza e qualche uscita dal partito, specie a Muggia, ma l’insieme del fronte della democrazia popolare” – scrive Apih – “rimase compatto. Più che dell’organizzazione, ciò era ancor sempre effetto del senso di classe e dell’aspirazione alla palingenesi sociale, a una società politica pienamente democratica, che questa gente recepiva sull’onda emotiva e morale del prezzo pagato durante la guerra e la precedente dittatura. Non era il «tradimento» di cui venivano accusati, ma una scelta di campo, che però portava all’estremo – anche perché accompagnata da insensibilità per il dramma dell’italianità istriana – la spaccatura sociale”.
Nel frattempo la questione nazionale ha effetti dirompenti anche all’interno del mondo sindacale: in contrapposizione ai Sindacati unici, di stretta osservanza politica comunista, viene fondata un’organizzazione sindacale alternativa, i Sindacati giuliani, con un programma ispirato a criteri interclassisti che incontra in breve tempo ampi consensi tra i seguaci del «partito italiano».
Agli inizi il nuovo sindacato trova i suoi iscritti soprattutto tra i ceti medi impiegatizi, nel pubblico impiego e nei servizi, che vedono in esso una più agguerrita difesa nei confronti delle proprie amministrazioni che hanno sede in Italia. Già alla fine dell’anno, però, – a novembre viene assunta la denominazione di «Camera del Lavoro» – si costituiscono all’interno delle fabbriche le prime Commissioni interne della Camera confederale del lavoro (CCdL), in alternativa ai Comitati dei Sindacati unici. I rapporti tra i due sindacati si fanno subito molto tesi.21)
In agosto gli ufficiali alleati del 13° Corpo (“Civil Affairs”) pongono le basi per l’attuazione del GMA, che viene progettato secondo il modello del “Governo diretto” (“Direct Rule”), lo stesso che viene applicato alla Germania e all’Austria: il GMA diventa così l’unica autorità di governo della Zona A.
Come scrive Valdevit, “A tale decisione si arriva perché il fronte antifascista a Trieste è già da tempo spaccato e ciò non consente la formazione di governi locali di larga unità antifascista. In particolare il Partito Comunista si contrappone alle autorità di occupazione alleate, con le quali ingaggia un confronto che domina lo scenario politico triestino per tutto il 1946 e il 1947. Tali controversie vengono interpretate dalle autorità militari di occupazione come segno di una profonda intossicazione della società triestina ad opera di agenti patogeni ostili ai principi della democrazia liberale, tant’è che la ricostruzione della democrazia (ma anche dell’economia) a Trieste – al pari di altre realtà che si considerano pure intossicate (dal nazismo) quali l’Austria e la Germania – è un processo guidato e diretto dalle autorità di occupazione. Il direct rule fa del GMA l’unica autorità di governo della Zona A. Sotto il profilo del potere i partiti e gli stessi organi amministrativi locali sono relegati a funzioni marginali”.
Per di più, a differenza di quanto stava accadendo nel vicino Friuli e nel resto d’Italia, dove i partiti cercavano una loro legittimazione sui grandi temi quali la ricostruzione del tessuto politico ed economico, a Trieste il dibattito sembra risolversi a tutti i livelli alla questione nazionale e al problema dei confini: “Ne consegue che la ricerca del consenso diventa problema ossessivo e si orienta attorno alla questione del confine, per cui entrambi gli schieramenti contrapposti – il fronte italiano e quello filojugoslavo, come si diceva allora, – si legittimano assumendo la veste di portatori dell’interesse nazionale, tant’è che chi sta sul versante opposto viene definito semplicemente «antinazionale». «Slavo-comunista» è, ad esempio un epiteto largamente usato dal fronte filoitaliano all’indirizzo dell’avversario, il quale è tale appunto perché difende gli interessi di uno stato, la Jugoslavia, nonché quelli di un sistema sovranazionale, il comunismo. Da tutto ciò deriva una sorta di marchio d’origine sulla dialettica politica triestina e giuliana, un marchio che perdurerà a lungo, in pratica fino ai tempi odierni, sia pur con intensità decrescente”.
In questo contesto è ben comprensibile che il dramma delle foibe trovi un’eco immediata nella stampa locale. L’8 settembre la Vita Nuova pubblica un articolo dai toni molto duri nel quale nazismo e comunismo vengono identificati: “Proclamiamo che questi mezzi di sistematica distruzione, non dissimili in sostanza ai malfamati forni crematori ed alle camere a gas dei campi di concentramento di Buchenwald e di Auschwitz, sono feroci ed iniqui e che UMANITÀ e RELIGIONE esigono che tali brutalità abbiano termine e che non rimangano impunite”.
Toni simili si trovano ripetutamente tra settembre e novembre nel periodico della diocesi e diventano potente veicolo di polemica contro il comunismo: “Il comunismo è distruttore implacabile e violento di tutti i valori spirituali, sociali e nazionali, che formano il nostro patrimonio ideale di cattolici, di europei, di italiani. La dottrina comunista […] tende, senza inutili circonlocuzioni, a cancellare totalmente nell’uomo il sentimento religioso, il sentimento patrio, il sentimento familiare”.
In questo clima, fatto di disorientamento e di tensioni crescenti, tornano a far capolino anche tra le forze che avevano dato vita al CLN i vecchi ed abusati temi del nazionalismo triestino. Ad ottobre sulle pagine de La Voce libera, portavoce ufficioso del CLN, 22) si può leggere: “Soltanto l'inurbarsi delle masse rustiche, conseguenza della trasformazione economico-sociale dell'ultimo secolo, portò alla slavizzazione più o meno completa delle varie città della Jugoslavia. È naturale perciò che la psicologia della Nazione campagnola, pur proclamando di voler rispettare l'italianità, si attenda qualche cosa di simile per le città italiane della Venezia Giulia […]. Tali aspettative non tengono conto di alcuni fatti fondamentali […]. Nulla di simile è concepibile nella Venezia Giulia. Qui italiani si è o non si è. L'italianità è un elemento congenito delle famiglie e degli individui – chi scrive è tutt'altro che razzista – ma vorrebbe dire quasi qualcosa di biologico”.
Ricompare così a pochi mesi dalla fine della guerra il vecchio ritornello sulla differenza di civiltà tra la città e il “contado”, accompagnata dal presupposto che la coscienza nazionale e il diritto di appartenere ad una o all'altra possono venire affermati solo a condizione che venga rispettato il maggior diritto storico del popolo che vanta una cultura superiore. “Il concetto di Kulturnation ritorna” – scrive Apih – “inglobato con quello di «civiltà occidentale»”.
L’acutizzarsi dello scontro politico sfocia ben presto in un’ondata di violenze, al centro delle quali compaiono spesso squadristi provenienti anche da varie città dell’Italia settentrionale. Così agli inizi di novembre, tra i partecipanti ad una manifestazione indetta dal CLN di Trieste vengono notati studenti armati di manganello provenienti da Padova, Venezia, Bologna. Tra gli aggressori fascisti responsabili dei disordini vengono riconosciuti alcuni elementi noti tra cui Luigi Viezzoli, dell’Ispettorato di via Bellosguardo.
A Roiano una trentina di giovani fascisti molestano numerosi cittadini. La polizia ne arresta una ventina e vengono trovati manganelli con anima di piombo e pugni di ferro.
Nei pressi della sede della Democrazia cristiana cinque operai vengono feriti dagli squadristi a colpi di pistola.
Nel centro cittadino compaiono scritte firmate “ZAP” (“Zivio Ante Pavelic”). 23)
Uno dei problemi più delicati in cui si imbatterono le autorità del GMA fu quello delle scuole. “Un’adeguata opera di ricostruzione” – scrive Alfredo Vernier – “era urgente qui come altrove per riparare i danni che il fascismo e la guerra avevano prodotto nella scuola; ma qui, dove il guasto, soprattutto quello morale, era stato maggiore che altrove, occorreva ancora qualcos’altro. Occorreva, in primo luogo, provvedere a ripristinare le scuole con insegnamento nella lingua materna, che il fascismo aveva soppresso; occorreva, poi sopire anche per mezzo di una nuova educazione, l’acuto antagonismo fra i due gruppi etnici, che la lunga sopraffazione fascista e la recente violenta reazione slava avevano rinfocolato; occorreva, infine, evitare per quanto possibile, che la scuola fosse direttamente coinvolta nella frenetica attività politica e negli aspri conflitti che agitavano la città”.
Per aiutare le autorità del GMA in questo compito delicato la Commissione Alleata di Controllo per l’Italia inviò a Trieste il noto pedagogista americano Carleton Washburne, capo della sottocommissione per l’educazione. Su suo consiglio venne inviato a Trieste John Simoni, un ufficiale americano che aveva già fatto una lunga e proficua esperienza nella riorganizzazione delle scuole in varie parti d’Italia.
Nella Divisione per l’Educazione Simoni si servì della collaborazione del preside Antonio Andri e del professor Srecko Baraga, che si occupò delle istituzioni scolastiche e educative della minoranza slovena. 24)
Molti problemi immediati furono risolti, ma rimase insoluto il problema di fondo e cioè la creazione di un sistema scolastico finalizzato al superamento dei contrasti tra la comunità italiana e quella slovena. La proposta caldeggiata da Washburne di inserire scuole slovene nel tessuto urbano e scuole italiane nelle località a maggioranza slovena cadde nel nulla; anche l’impiego di docenti sloveni anticomunisti fu duramente osteggiato.
Un primo bilancio dei lavori svolti e una messa a punto delle proposte per il futuro furono tentati nel Congresso degli Insegnanti della Venezia Giulia, che si svolse nel febbraio 1946, alla presenza dello stesso Washburne: “Il Congresso” – scrive Alfredo Vernier – “mosse certamente le acque della scuola triestina, piuttosto stagnanti sotto certi aspetti, agitando problemi, stimolando l’interesse degli insegnanti, favorendo lo scambio di esperienze e di idee, sollecitando la discussione e la riflessione. Ma non raggiunse tutti gli scopi che si prefiggeva. La scuola triestina non era né pronta né disposta a rinnovarsi. Come la città era allora in un atteggiamento di scontrosa diffidenza, persuasa che in quelle circostanze il suo compito principale, se non esclusivo, fosse quello di conservare le sue peculiari caratteristiche, per trasmetterle intatte agli eredi, e che ogni apertura nascondesse oscure insidie. Il dialogo, appena iniziato, fu così interrotto. Anche l’incontro tra insegnanti italiani e sloveni mancò completamente; i tempi non erano maturi, nonché per l’intesa, nemmeno per la tolleranza. L’anno successivo un tentativo del GMA di organizzare un nuovo congresso cadde nel vuoto per la solidale opposizione delle autorità e degli insegnanti italiani e sloveni”.
Sul dramma degli internati nei campi di concentramento interviene sulla Vita Nuova il vescovo Santin con un articolo dal titolo molto significativo: “Per intenderci”.
Sono evidenti nelle sue righe sia la volontà di inserirsi con autorevolezza nella polemica contro il comunismo “antireligioso” e ai suoi “sistemi”, sia la preoccupazione per l’ampio seguito che la propaganda comunista aveva incontrato tra gli operai e “i fratelli di lingua slovena”.
Dopo aver precisato di voler scrivere solo “per tutti coloro che forse ci giudicano male, ma che sono in buona fede”, dichiara con forza: “Noi non siamo antislavi. Non saremmo cattolici. Noi amiamo e stimiamo i nostri fratelli di lingua slovena. La nostra denuncia degli orrori dei campi di concentramento [alla fine di giugno aveva scritto una lettera al Comando Militare Alleato per denunciare le condizioni in cui si trovavano i prigionieri raccolti nei campi di Borovnica, S. Vito, di Lubiana e dintorni] non era un’accusa fatta al popolo slavo, ma ai sistemi adoperati. Essa colpiva quindi i responsabili di quelle infamie. Sappiamo che anche migliaia di slavi sono tra le vittime. Non il popolo dunque, ma i sicari, che non hanno Patria perché privi di umanità, abbiamo colpito. Noi non siamo contro gli operai. Siamo per la elevazione morale, sociale ed economica degli operai. Abbiamo già scritto che non temiamo le vie ed i progetti più audaci, purché siano salvi i diritti di Dio e non sia violata la legge morale. Siamo con tutta l’anima con gli operai, per gli operai. Plaudiamo alle loro conquiste, soffriamo quando vengono ingannati e sfruttati, appoggiamo ogni loro giusta ed umana aspirazione. Ma che c’entra tutto questo con i campi della fame e della morte? Vi è a Trieste un solo operaio che possa ritenere false le voci sopra gli orrori dei campi della Slovenia e della Croazia, quando ognuno può apprendere dalla viva voce delle vittime la tremenda realtà? Vi è un solo operaio che possa approvare simili iniquità? Chi può arrogarsi il diritto di ritenere lanciata contro i nostri buoni ed onesti operai l’accusa che noi rivolgemmo contro un gruppo di uomini che si sono rivelati delle iene? E un secondo punto ci importa chiarire. Noi abbiamo affermato che la dottrina comunista è antireligiosa: perciò la combattiamo. Dimostrateci che non lo è, che ufficialmente sono stati rinnegati i principi antireligiosi che stanno alla base del comunismo, e noi rispetteremo imparzialmente un sistema sociale che si batte per una nuova organizzazione del lavoro. Ma fino a che si manterrà fede a quei principi che portano all’ateismo, noi non potremo tacere; mancheremmo alla nostra missione. Ma tutto questo significa forse essere reazionari, essere contro il popolo, contro l’operaio?”. 25)
Le fratture nel fronte antifascista diventano sempre più nette e di fronte ai pericoli di un’involuzione nazionalista e antidemocratica Bruno Pincherle si rivolge a Parri, allora Presidente del Consiglio dei ministri: “Bisognerebbe ricostituire nelle zone occupate dagli angloamericani le premesse per una vita democratica che non sia né quella “democratico-progressista” slavo-comunista né quella di una democrazia a visione ristretta, e per reazione alla precedente, antioperaia dell’attuale CLN giuliano. […] Urge quindi giungere ad un accordo con il partito comunista per la creazione di una nuova amministrazione che raccolga tutte le forze antifasciste rappresentate dai cinque partiti e anche gli slavi (i “titiani” [sic] non meno che gli altri). Noi avremmo così il vantaggio di portare i comunisti su un terreno democratico e i comunisti per contro quello di impedire la formazione di un fronte anticomunista”.
“Analoghi concetti” – scrive Miriam Coen – “egli aveva espresso pochi giorni prima a Milano in una riunione dell’Esecutivo Alta Italia del Partito d’Azione. In quell’occasione aveva anche sottolineato l’inadeguatezza ad affrontare la nuova delicata situazione, da parte del locale Partito d’Azione, “composto sostanzialmente da uomini che non vanno più in là di un irredentismo e di un repubblicanesimo d’altri tempi””.
Pochi mesi dopo Bruno Pincherle e Fabio Cusin rassegneranno le dimissioni dal Partito d’Azione, ai loro occhi ormai compromesso definitivamente in una politica nazionalista e marcatamente moderata.
Il colonnello americano Alfred Connor Bowman, nella sua carica di “Senior Civil Affairs Officer” (“Ufficiale superiore per gli Affari civili”) emana l’“Ordine generale numero 11”, con il quale viene sancita ufficialmente la nascita del governo civile nella Regione Giulia.
Vengono dichiarati decaduti tutti i poteri “popolari” istituiti durante il periodo di occupazione jugoslava e viene ristabilita, nelle grandi linee, la legislazione italiana entrata in vigore dopo l’8 settembre: il GMA riconosceva così il principio, accettato dal diritto internazionale, che la Venezia Giulia, fino alla firma del Trattato di pace, dovesse essere considerata come facente parte dello stato italiano e quindi soggetta alla legislazione in vigore al momento dell’armistizio.
L’Ordine generale istituisce due Consigli di Zona, uno per Trieste e uno per Gorizia (valido anche per il Comune di Pola), composti rispettivamente di 17 e di 14 membri che vengono nominati direttamente dal GMA; il GMA nomina anche i presidenti di Zona ai quali sono riconosciuti “i poteri e gli obblighi di un Prefetto e degli Enti provinciali legislativi, amministrativi ed esecutivi”.
Al GMA spetta anche il diritto di nominare, e di rimuovere, i Consigli comunali e i rispettivi presidenti. A Trieste, dopo il rifiuto dei comunisti di accettare l’Ordinanza, viene designato presidente dal CLN, appena uscito dalla clandestinità, l’avvocato Michele Miani, esponente, come il fratello Ercole, del Partito d’Azione.
È prevista inoltre la nomina di un vicepresidente, che ha il compito di assistere il presidente.
Il consiglio, che funge da organo consultivo del presidente, deve riunirsi almeno una volta per settimana.
Le forze che si riconoscevano nella resistenza jugoslava e nei suoi programmi, in gran parte forze di ispirazione comunista, sia italiane che slovene e croate, considerano l’Ordinanza come una violazione aperta degli accordi presi a Belgrado il 9 giugno e passano all’opposizione: un’opposizione dura, frontale che avrebbe caratterizzato lo scenario della città per lungo tempo. 26)
A conclusione dello sciopero generale unitario contro i licenziamenti, i dirigenti del Partito comunista ribadiscono con forza che “l’azione di lotta di questi giorni diventerà più efficace quando tutti i lavoratori comprenderanno la necessità dell’unione di Trieste al suo retroterra che oggi è la Jugoslavia del maresciallo Tito”.
L’utilizzazione delle lotte sindacali ai fini della lotta politica e nazionale contribuisce non poco ad approfondire la frattura tra le due anime del sindacalismo triestino: poco tempo dopo la frattura risulterà ormai irreversibile. Un segno inequivocabile di ciò si avrà il 14 dicembre, quando uno sciopero di protesta contro la sospensione del quotidiano in lingua slovena Primorski Dnevnik da parte del GMA troverà tra i lavoratori scarso seguito.
Il problema dei confini orientali viene affrontato dal governo italiano, che mostra di essere disponibile ad accettare qualche lieve arretramento rispetto alla linea ufficialmente sostenuta: il 18 ottobre, De Gasperi, riferendo al Consiglio dei ministri sulla situazione della Venezia Giulia, dichiara che “certe interferenze economiche sono tali per cui non può non tenersi conto. Si presenta perciò il dilemma di spostare la linea più a nord o a sud e a est o a ovest creando delle fluide zone franche che permettano di avere una zona intorno alla città e completino la soluzione etnica”.
Il 12 novembre Ferruccio Parri, durante una conversazione con il generale Harding, afferma di condividere personalmente l’opinione già espressa da De Gasperi ed auspica che il confine venga definito lungo la linea Wilson. Nel caso in cui però questa soluzione si fosse mostrata irrealizzabile, qualche ritocco a vantaggio della Jugoslavia sarebbe stato possibile: in nessun caso, comunque, un governo italiano avrebbe accettato di discutere sull’appartenenza di Trieste al territorio italiano.
Qualche tempo prima Parri si era fatto promotore di una serie di interventi tra diversi rappresentanti antifascisti italiani e sloveni della Venezia Giulia per sondare la possibilità di arrivare ad un accordo sui confini accettabile per entrambe le parti, ma questi incontri non avevano sortito alcun affetto. Egli stesso avrebbe confessato a Harding che “nessuno dei tentativi di riconciliazione fatti dal suo governo aveva ottenuto risposta dalla Jugoslavia”.
I verbali del CLN della Venezia Giulia testimoniano che quasi tutta l'attività politica cittadina è concentrata sul tema della difesa nazionale, sul dilemma “Italia o Jugoslavia”, in un'atmosfera di grande tensione nella quale non mancano le vittime e gli scontri tra squadre organizzate.
La situazione appare ancora più lacerata a causa del drammatico esodo dall’Istria di una parte via via crescente della popolazione di lingua italiana: “Le partenze di massa si avviarono […] fin dal 1946, per poi coinvolgere” – scrive Raoul Pupo – “l’intera popolazione dopo che il trattato di pace ebbe sancito il passaggio della città alla Jugoslavia. […] Nel suo complesso, l’esodo durò a lungo, più di dieci anni, perché fu il frutto di spinte tra loro assai simili ma impresse con ritmi diversi, in relazione al momento in cui le comunità italiane maturarono la certezza della loro irrimediabile inclusione nella Jugoslavia. Si ebbero così diversi esodi che si innestarono uno sull’altro”.
Ben poco spazio sembra esserci dunque per la mediazione e per la discussione equilibrata dei problemi, anche perché lo schieramento filojugoslavo veniva assumendo posizioni sempre più rigide, forte di un'organizzazione e di una presenza politica notevoli e di una grande influenza nel mondo operaio e sindacale. L’utilizzazione degli scioperi a fini di lotta politica e di rivendicazione nazionale era diventata ormai una prassi usuale, in quanto i dirigenti comunisti, sia nel partito che nel sindacato, erano convinti che solo attraverso questo riacutizzarsi dello scontro ideologico si potesse far fronte alla ripresa degli ambienti moderati ed ai rigurgiti fascisti, sempre più presenti in città.
La radicalizzazione degli scontri politici finisce così col dividere sempre più i lavoratori, condizionando pesantemente i rapporti tra i SU e la CCdL: mentre la Camera del Lavoro, forte del riconoscimento da parte della CGIL unitaria, costituisce le proprie Commissioni interne e si rafforza anche negli ambienti operai, i SU rispondono legando sempre più i loro Comitati di fabbrica, eredi degli organismi clandestini di “Unità operaia”, alle strategie politiche.
Le divisioni politiche sulla questione nazionale passano anche attraverso il clero e la comunità cattolica: numerosi sacerdoti sloveni accusano il vescovo Santin di voler imprimere a questa regione un carattere prettamente italiano e di far pesare in questa direzione tutto il suo prestigio e il suo potere.
Invero la stampa cattolica locale, da Vita Nuova, organo della diocesi, a La Prora, settimanale della DC, è piena di appelli all'unificazione con l'Italia, identificando spesso la causa italiana con la “civiltà cristiana”: “Non si tratta soltanto di identificare la nostra passione per l'Italia e di voler tornare in grembo alla madre. Si tratta di cosa ben più grave e importante: di affermare e difendere Cristo e, con Lui, le nostre anime, la nostra vocazione storica, la nostra stessa civiltà. Se noi guardiamo all'Oriente che incalza (Oriente a noi tanto vicino) non possiamo che trepidare per questi eterni valori e per questi supremi interessi dello spirito […]. Qui oggi non sono in gioco soltanto dei territori; non soltanto le sorti politiche della Venezia Giulia; non soltanto i diritti sovrani dell'Italia. No! Qui è ancora e soprattutto in gioco la civiltà cristiana”. (Vita Nuova, 30. 3. 1946)
Tutti questi fatti esasperano ancor più quel tradizionale “localismo ipertrofico” che già tante volte aveva caratterizzato le reazioni di difesa della città. La classe dirigente locale si illude ancora di poter porre la “questione di Trieste” al centro dei problemi mondiali e interpreta ogni avvenimento in quest'ottica miope e provinciale, e ancora una volta viene duramente smentita dai fatti, in quanto le scelte definitive vengono prese ormai in ben altre sedi.
“Emblematica, in tal senso” – sottolinea lo storico Raoul Pupo – “fu la sostanziale irrilevanza, ai fini della decisione assunta, della ricognizione compiuta nella Venezia Giulia nei primi mesi del 1946 dalla commissione di esperti nominata dai governi alleati, come pure dell'enorme mole di materiale documentario prodotto da italiani e jugoslavi a sostegno delle rispettive tesi: e altrettanto significativa è la circostanza che l'ipotesi di un plebiscito, tenacemente perseguita da larga parte degli ambienti giuliani di orientamento filo-italiano, non trovò mai lo spazio politico reale per poter venir presa in seria considerazione”.
La sorte di Trieste non è infatti l'unico problema neanche per la politica estera italiana e comunque i responsabili della politica estera di Washington e di Londra sanno bene che se il governo italiano di Roma avesse voluto battere strade alternative rispetto alla strategia alleata gli spazi di manovra a sua disposizione sarebbero stati praticamente inesistenti.
Lungo tutto il 1946, mentre tra Washington, Londra, Mosca e Parigi – che è la sede della conferenza di pace – gli alleati stanno tessendo le fila del trattato, si delineano sempre più chiaramente alcuni punti fondamentali:
il gioco diplomatico è sempre saldamente in mano alle potenze vincitrici, i cui rapporti non sono ancora improntati alla “guerra fredda” e alla strategia globale del “containment” che sarebbe emersa solo l'anno successivo;
il peso reale del governo italiano e del governo jugoslavo è ben poca cosa: le scelte definitive sarebbero state fatte altrove, a tutt'altro livello;
i segnali provenienti dagli ambienti angloamericani della Venezia Giulia – che influiscono in maniera significativa sull'atteggiamento degli alleati – sono assai precisi e coerenti con il principio fondamentale che fin dall’estate del 1945 aveva ispirato il GMA: assicurare prioritariamente il mantenimento dell'assoluto controllo della Zona A da parte delle autorità alleate come unica garanzia contro il suo assorbimento da parte jugoslava.
Al V Congresso del PCI partecipa una delegazione comunista giuliana diretta da Marino Solieri, che sostiene apertamente la tesi dell’annessione di Trieste alla Federazione jugoslava. Togliatti risponde affermando “di comprendere ma non giustificare l’atteggiamento dei compagni triestini”.
Lo scontro sul destino nazionale di Trieste passa oramai anche all’interno dei comunisti italiani: agli inizi di luglio, per tranquillizzare il partito ed evitare fratture con la base partigiana, molto sensibile all’orgoglio nazionale, Togliatti farà diffondere questa comunicazione: “La Direzione del PCI non ha mai autorizzato la costituzione o appoggiato l’azione del “PCI-VG” il quale è sorto alla sua insaputa e agisce all’infuori di qualsiasi contatto con essa; […] è stato dato ai lavoratori iscritti a questo partito il consiglio di non creare una simile organizzazione, perché ciò poteva servire soltanto a scindere le forze del proletariato giuliano e a favorire manovre di provocazione; […] la Direzione del nostro partito in data 23 aprile ha costituito un Ufficio di Informazioni affidandogli il compito di rappresentare il PCI a Trieste”.
Il periodico della DC triestina La Prora pubblica la testimonianza di un sopravvissuto all’infoibamento. Il fatto drammatico era avvenuto nel maggio del 1945. Il testo venne poi frequentemente utilizzato dalla pubblicistica del dopoguerra: “Dopo otto giorni di prigionia, durante i quali fummo selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell’alba, sentii uno dei nostri aguzzini dire agli altri: «Facciamo presto, perché si parte subito». Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico filo di ferro, oltre a quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo i soli pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze.
Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un sasso di almeno venti chilogrammi. Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, ci impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra, cosicché, quando mi gettai nella foiba, il sasso era rotolato lontano da me.
La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 15 fino alla superficie dell’acqua che stagnava sul fondo. Cadendo non toccai il fondo, e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole: «Un’altra volta li butteremo di qua, è più comodo», pronunciate da uno degli assassini.
Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi con la pressione dell’aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutive, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese, per tema di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo”.
Entra in vigore la nuova costituzione della repubblica federale popolare di Jugoslavia. Nel testo costituzionale si omette accuratamente ogni riferimento preciso a termini quali “socialista” e “comunista”, ma la proprietà privata dei mezzi di produzione viene fortemente limitata e si proclama che la neonata repubblica è fondamento dell’economia nazionale.
“Prima ancora che la costituzione fosse proclamata” – scrive Pirjevec – “Tito ottenne un significativo successo col riconoscimento, il 22 dicembre 1945, della repubblica da parte della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Le due grandi potenze lo fecero per realismo politico, seppure con qualche riserva, espressa in modo particolarmente chiaro nella nota di Washington. In questa si sottolineava che il riconoscimento non implicava consenso al regime e ai suoi metodi di governo. La nuova Jugoslavia aveva comunque ottenuto la benedizione degli alleati angloamericani, che facevano in tal modo capire di ritenere superata la pretesa di Churchill di un’influenza occidentale nel paese”.
In un rapporto della polizia viene evidenziato un clima di angoscia diffusa nella popolazione triestina per il timore di un colpo di mano jugoslavo: “Nella Zona A, si acuisce sempre più il malessere, si paventa ancor più l’insidia slava, si comincia da qualche gruppo a mettere al sicuro in territorio nazionale non contestato capitali e valori, non perché si dubiti del ritorno di Trieste all’Italia, ma per il temuto assalto, sia pure di breve durata, delle orde slave interne ed esterne a scopo di rapina e di sterminio. Continuano ad affluire notizie sugli apprestamenti militari jugoslavi lungo la linea Morgan, nell’immediato retroterra carsico, sulla costa istriana e con maggior solidità ed arte (si parla di gettate di cemento) alla frontiera italo-jugoslava”.
Nel mese successivo si intensificano le voci allarmanti di un colpo di mano che gli jugoslavi avrebbero messo in atto il 1° maggio. “La Voce Libera, pur evitando di incrementare l’allarmismo a proposito di queste voci recepisce questo clima. Si intensificano” – scrive Liliana Ferrari – “le notizie sugli «infiltrati», sui provocatori giunti da «fuori», sulla misteriosa attività che si svolgerebbe in alcuni uffici affittati da jugoslavi, sugli «indesiderabili» ospiti di Trieste. Da un lato richiama la cittadinanza alla calma, ad evitare di scendere in piazza durante il soggiorno della commissione per evitare incidenti, dall’altro però contribuisce a creare un clima in cui tale suggerimento non potrà essere accolto. […] Il tema dell’esodo si inserisce in questo quadro come un corollario inevitabile, il punto di arrivo del «piano» congegnato per espellere gli istriani di nazionalità italiana. […] L’esule assume un ruolo di spicco tra le figure emblematiche di quella «passione adriatica» che avrebbe visto il popolo giuliano vittima innocente, senza soluzione di continuità, di oppressori dal nome diverso ma dalla comune volontà sopraffattrice. L’esule diventa un simbolo. L’esodo è «naturale» perché «innaturale» è la situazione in cui gli italiani dell’Istria si sono trovati a vivere. Cominciano ad apparire le prime cifre, esorbitanti, prodotte come risultati di un plebiscito. Lo sfollamento di Zara, anche nella sua fase iniziale determinata dai bombardamenti, diventa un esodo. Con le decisioni definitive della conferenza di Parigi, la partenza dei polesi consacra, con un esempio clamoroso, il significato di protesta civile dell’esodo”.
Una commissione alleata composta da quattro delegazioni – inglese, statunitense, francese, sovietica – visita la Venezia Giulia al fine di elaborare un documento comune da presentare al tavolo dei lavori per il Trattato di pace.
“La zona visitata dagli esperti” – scrive Jean Duroselle – “fu delimitata verso est da quella linea che sembrava segnare la fine della presenza di gruppi italiani – molto approssimativamente dalla linea Wilson. I quattro esperti, Philip Moseley (USA), Jean Wolfron (Francia), C. H. Waldock (Regno Unito), M. Garaschenko (URSS), il 29 aprile 1946 consegnarono un rapporto comune ai viceministri degli Affari Esteri. C’è da notare che questa fu l’ultima Commissione delle quattro potenze che, a prezzo di lunghe discussioni, riuscì ad elaborare un rapporto comune”.
Il documento risultò comune, ma le conclusioni risultarono irrimediabilmente diverse: mentre gli esperti russi avevano proposto un confine quasi identico a quello rivendicato dagli jugoslavi, gli esperti inglesi ed americani proposero un confine più favorevole all'Italia prevedendo anche l'annessione della costa occidentale dell'Istria. Secondo la linea francese tutti i grandi centri del “Litorale sloveno”, nonché i piccoli porti e le cittadine del nord-ovest (Capodistria, Umago, Pirano, Buie) dovevano essere assegnati all’Italia: veniva così negata la possibilità di un porto sloveno.
“Queste tre linee” – sottolinea Duroselle – “passavano considerevolmente, per tutta la loro lunghezza, ad ovest della linea Wilson, e, a nord, sensibilmente ad ovest della linea Morgan, linea di demarcazione militare”. La linea Wilson, va ricordato, era la linea richiesta dal governo italiano.
Pochi giorni dopo la consegna della relazione comune nelle mani dei viceministri degli Esteri, Kardelj e De Gasperi criticarono duramente i risultati della Commissione. Il vicepresidente jugoslavo Kardelj dichiarò che la soluzione proposta dagli occidentali avrebbe attribuito all’Italia sia Gorizia che Trieste, distruggendo così l’unità economica della Venezia Giulia, le cui zone rurali sarebbero state separate dai centri economici ed amministrativi. L’attribuzione di Trieste all’Italia avrebbe per di più ignorato un vasto territorio occupato da sloveni: “Trieste e le zone limitrofe, così come una parte dell’Istria, sono state internazionalizzate ed hanno costituito il Territorio Libero di Trieste (TLT), sotto la tutela dell’ONU; sono state cioè strappate alla Jugoslavia cui appartenevano”.
Per questi motivi, aveva precisato Kardelj, la Jugoslavia avrebbe mantenuto la richiesta già avanzata alla Conferenza di Londra.
De Gasperi, che oltre ad essere capo del governo era anche ministro degli Esteri, ribadì con forza che nessuna tra le proposte fino ad allora emerse aveva fatto propria la linea Wilson: il confine proposto dagli americani si avvicinava più degli altri ai desideri italiani, ma aggiunse con rammarico che nessuna aveva tenuto conto che l’Italia perdeva Fiume, Zara e le isole di Cherso e di Lussino.
Sebbene ufficialmente l’Italia si attenesse ancora alla linea Wilson, De Gasperi dichiarò che l’Italia avrebbe accettato tutt’al più di discutere un compromesso tra la linea americana e la linea Wilson.
Il problema era, per il momento, del tutto insolubile e l’atmosfera in quei giorni in città era gravida di tensione.
Così il dirigente comunista Claudio Tonel ricorda l’atmosfera in cui si inserirono i lavori della Commissione: “La Commissione si sistema all’Hotel de la Ville prospiciente le rive. Per affermare le rispettive posizioni i due blocchi (noi da una parte e tutti i rimanenti dall’altra) organizzano grandi e violente manifestazioni di popolo per influenzare i membri della Commissione. Davanti all’albergo, poi, c’erano ancora i ruderi di un bunker tedesco, la cui “conquista” era ormai diventata un problema di principio per ognuno. Da qui gli attacchi reciproci per scalzare chi occupava quella posizione privilegiata (definita “collina del pianto”) quando era “occupata” dagli uni o dagli altri: una massa di gente accalcata in pochi di metri quadri. Quindi gli scontri erano all’ultimo sangue. Noi al grido di “najuris” (all’attacco) e gli altri al grido di “ne la patria de Rossetti non se parla che italian”. In quelle settimane si poté accertare la presenza di centinaia di fascisti provenienti dal resto del paese, a dar man forte ai fautori di Trieste italiana”.
Di tutt’altro tenore la descrizione di quegli avvenimenti fatta da Alfio Morelli, che avrebbe aderito al MSI fin dalla sua fondazione e ne sarebbe divenuto a Trieste uno dei leader più importanti: “La città colse questi esperti con il civismo che le è proprio. La popolazione si mantenne serena, anche se non mancarono minacce e provocazioni da parte degli slavo-comunisti. Questi, infatti, fecero affluire migliaia di stranieri provenienti dai paesi del Carso, dalla Slovenia e dalla Croazia, nel tentativo di alterare le caratteristiche della città. La Commissione aveva soprattutto il compito di rilevare la composizione etnica della regione. Per questo i comunisti, con ogni forma di coazione, cercarono di comprimere anche psicologicamente la città, in una sorta di assedio, per ridurne la capacità di resistenza e limitarne i “confini” al solo centro storico. Essi spadroneggiavano in via Molino a Vento, a San Giacomo, San Sabba, ed oltre; in via Giulia, nei pressi della birreria Dreher, fino a San Giovanni; nella parte alta di via Fabio Severo, vicino alla nuova Università, nei paesi del ciglione carsico. Altrettanto intimiditi erano i rioni di San Luigi e di Roiano alta. Erano queste le strozzature entro le quali i comunisti si proponevano di “interrompere” il centro urbano di Trieste. Nella periferia, per la presenza di numerosi circoli, organizzazioni politiche e paramilitari lasciate dai titini, dominava ancora il prepotente attivismo slavo-comunista, che riusciva a mantenere in stato di soggezione la popolazione residente. In quei giorni, i comunisti imposero agli abitanti l’esposizione della bandiera della federazione jugoslava e di quella italiana con la stella rossa; obbligarono gli esercenti ad apporre sulle tabelle dei loro negozi scritte bilingui. In alcuni rioni, come a San Giacomo e Servola, sembrava di trovarsi in una repubblica dei Soviet. Si verificarono ovunque episodi di violenza. […] Le aggressioni, le bastonature, le minacce erano all’ordine del giorno ed assumevano sempre più l’intensità ed i caratteri del periodo titino. Trieste, dunque, era città assediata”.
Il “localismo ipertrofico”, come la psicosi della “città assediata” e la identificazione tra slavo e comunista dominano incontrastati le sue pagine.
Verso la metà di maggio comincia ad essere evidente ai membri del Consiglio dei ministri degli Esteri a Parigi che la linea proposta dalla Francia era destinata a raccogliere i maggiori favori.
Dopo il 4 giugno, alla ripresa dei lavori, si tengono le sedute decisive. Il ministro degli Esteri inglese, Ernest Bevin, dopo aver nettamente rifiutato le proposte di Molotov – l’URSS era disposta alla restituzione delle colonie all’Italia e alla riduzione dei debiti del governo di Roma alla Grecia pur di veder approvate le richieste di Belgrado – abbracciò le tesi del ministro francese Bidault, che per primo aveva apertamente proposto la internazionalizzazione di tutta la città e non solo del suo porto.
In qualche modo interlocutoria fu la proposta americana, avanzata forse per sondare le posizioni degli altri più che per convinzione, di assegnare ad un plebiscito il destino nazionale delle popolazioni insediate nei territori compresi tra la linea francese e quella di Washington. Tutti si opposero, con diverse motivazioni: il governo italiano, che temeva un pericoloso precedente qualora la scelta del plebiscito fosse stata allargata anche all’Alto Adige, mostrò chiaramente di preferire un prolungamento a tempo indeterminato dell’occupazione alleata.
Scartata la tesi del plebiscito, il 1° luglio il ministro degli Esteri sovietico Molotov accolse la proposta francese e si dichiarò favorevole a trattative dirette tra Italia e Jugoslavia per una soluzione definitiva della questione nazionale: fino a quel momento il ministro degli Esteri sovietico aveva sostenuto con forza la soluzione degli jugoslavi.
Venne così concordata la internazionalizzazione della città attraverso la creazione del Territorio libero di Trieste. 27)
È previsto per questa data l’arrivo a Trieste di una tappa del Giro d’Italia: secondo gli accordi, i ciclisti sarebbero entrati in città scortati dalla polizia civile. Tra i corridori vi è anche il gruppo di atleti rossoalabardati sponsorizzato dalla Wilier-Triestina, guidato da Cottur.
Ben presto questo avvenimento sportivo era stato caricato di un acceso significato nazionale da parte di certi ambienti triestini, che avevano invitato la popolazione ad accogliere con entusiasmo i ciclisti “coperti dalla polvere della Madre Patria”!
A Pieris, però, i comunisti locali si oppongono alla continuazione della corsa con un fitto lancio di pietre e lo spargimento di chiodi sull’asfalto, “perché ciò avrebbe rappresentato un avallo che Trieste è Italia”. L’intervento della polizia e una decisa caccia all’uomo pongono fine alla giornata sportiva: il grosso della carovana, fermo alle porte di Monfalcone, devia verso Udine.
La notizia si sparge in città e molti tra i manifestanti che si preparavano ad accogliere i ciclisti si abbandonano a violenti disordini, che coinvolgono gli stessi soldati inglesi ed americani. Vengono presi d’assalto sedi del Partito comunista e del Movimento indipendentista: come scrissero i rapporti alleati “bande di giovani attaccarono sistematicamente e in molti casi devastarono tutti i più importanti uffici di organizzazioni filoslave”.
La reazione dei comunisti è particolarmente violenta nel rione di San Giacomo, dove la polizia apre il fuoco: un operaio viene ucciso e due rimangono feriti. L’UAIS-SIAU dichiara immediatamente uno sciopero generale contro l’atteggiamento della polizia e contro gli attacchi indiscriminati delle “bande fasciste”.
Nel frattempo qualche atleta aveva continuato la corsa: tra questi il triestino Cottur, che all’ippodromo giunse primo e si lanciò in un simbolico giro d’onore applaudito dal pubblico presente.
Viene fatto conoscere il comunicato delle quattro grandi potenze che annuncia l’avvenuto accordo per la creazione del Territorio libero di Trieste.
A Trieste la situazione è estremamente tesa, anche in seguito al grande sciopero generale che i Sindacati unici portano avanti con estrema decisione. 28) Anche questo sciopero, come avveniva ormai da quasi un anno, aveva in realtà un fine prevalentemente politico – a Parigi era in discussione il Trattato di pace con l’Italia – e cioè l’annessione della città alla Jugoslavia. Non è da escludere che fosse anche un segnale nei confronti del governo sovietico, per indurlo a mostrare un qualche più diretto coinvolgimento nella questione della Venezia Giulia.
L’internazionalizzazione della città di Trieste, decisa con la costituzione del Territorio libero, allontanava infatti sempre più quel legame con il retroterra slavo che nei programmi dei SU rimaneva la scelta di fondo, e che rifletteva, in ultima analisi, le vecchie rivendicazioni del movimento di liberazione sloveno e croato.
Anche sull’altro versante l’istituzione del TLT suscita in città reazioni molto dure.
Se ne fa portavoce la stampa cattolica, che reagisce con forza alle decisioni prese dalle quattro potenze. Il 13 luglio la Vita Nuova pubblica un duro articolo contro il ministro cattolico francese Bidault, che viene così dipinto: “Democristiano rinnegato, che, non contento di aver strappato per sé all’Italia circa 700 Kmq. di territorio, ha avanzato la nefanda proposta di gettare alla belva slavocomunista 200 mila italiani cattolici”.
Su posizioni rigidamente anticomuniste si schiera anche il settimanale della DC, La Prora, diretto da Gianni Bartoli, che fin dalla sua fondazione (settembre 1945) aveva strettamente legato al destino di Trieste quello dell’Istria, sulla scia di una continuità dell’assetto territoriale dello stato che trovava la sua prima legittimazione nelle vecchie battaglie irredentiste. Nelle pagine di questo giornale sempre più spesso gli esuli diventano un monumento vivente della malvagità del comunismo, nonché strumento propagandistico di una lotta politica contro tutti coloro che sembrano tiepidi nel contrastare certi settori del CLN e la “presenza passiva” del GMA.
“Alla linea di contrapposizione frontale fornisce un valido supporto” – scrive Valdevit – “la tematica relativa alle drammatiche vicende che avevano caratterizzato soprattutto l’ultima parte della lotta di liberazione. La propaganda della DC – ma, è ovvio, non solo della DC – tende a far assumere agli infoibamenti, alle deportazioni, ai campi di concentramento, all’attività dell’OZNA, la dimensione di un vero e proprio genocidio, alimentando così anche in coloro che quelle vicende non avevano vissuto direttamente, reazioni emotive ed atteggiamenti irrazionali di viscerale antislavismo”.
A Parigi, i lavori della Conferenza della pace continuano a ritmi sempre più intensi. Si profilano per l’Italia decisioni che appaiono ad ampi settori dell’opinione e del mondo politico troppo punitive.
Alcide De Gasperi dichiara polemicamente: “E per correre l’alea di un espediente così poco durevole (quale quello della costituzione del TLT) voi avete dovuto assegnare l’81 per cento del territorio della Venezia Giulia agli jugoslavi […]. Voi siete stati indotti, così, ad arrecare un torto all’Italia, voi avete, rinnegando la linea etnica, assegnato alla Jugoslavia la regione di Parenzo-Pola, dimenticando che la Carta atlantica riconosceva alle popolazioni il diritto di essere consultate in materia di cambiamenti territoriali.29) E di più aggravate la situazione degli italiani della Venezia Giulia passata sotto la sovranità slava, stabilendo che coloro i quali avranno optato per conservare la loro nazionalità di origine potranno essere espulsi nello spazio di un anno e dovranno trasferirsi in Italia, abbandonando le loro case e i loro beni”.
In quel periodo, infatti, i primi cittadini italiani stavano abbandonando la città di Pola. Non appena fu chiaro che la linea di demarcazione proposta dai francesi aveva ottenuto l’approvazione delle quattro potenze la propaganda italiana cominciò anzi ad esortare tutti gli italiani a lasciare in massa la città per mostrare all’opinione internazionale che Pola era italiana e doveva passare all’Italia, altrimenti tutta la popolazione avrebbe lasciato la città. 30)
Durante la terza ed ultima sessione dei lavori, che ebbe inizio a New York il 4 novembre, venne avanzata da parte italiana, con una nota redatta dal nuovo ministro degli Esteri Pietro Nenni, la proposta di un plebiscito nelle aree giuliane contestate, nonché, nell’eventualità della costituzione del “Territorio libero di Trieste”, il suo allargamento fino a Pola. Tra novembre e dicembre si tennero numerose riunioni tra i rappresentanti dei governi di Roma e di Belgrado, ma i negoziati non portarono ad alcun risultato positivo: le posizioni delle delegazioni italiana e jugoslava erano molto distanti e tali sarebbero rimaste a lungo.
Nel frattempo la situazione di Pola si fa sempre più drammatica: di fronte al panico crescente nella città, il CLN declina ogni responsabilità nel caso di un’ulteriore permanenza e due giorni prima di Natale dichiara aperto l’esodo.
L’inizio delle partenze di massa viene stabilito per il 27 gennaio e nei mesi successivi l’esodo si svolse con ritmi crescenti: il 15 settembre 1947, infatti, la città sarebbe formalmente passata sotto la sovranità jugoslava.
A quella data, secondo i dati offerti da Liliana Ferrari, la città era stata abbandonata da quasi 30.000 dei suoi abitanti. 31)
Preoccupato che la questione di Trieste possa danneggiare il partito ed esporlo a critiche da ogni parte, Togliatti decide di tentare un’iniziativa diplomatica e si reca a Belgrado per trattare con Tito. Dopo il suo rientro a Roma fa pubblicare sull’Unità un articolo “esplosivo”: “Il maresciallo Tito mi ha dichiarato di essere disposto a consentire che Trieste appartenga all’Italia, cioè sia sotto la sovranità della Repubblica italiana qualora l’Italia consenta a lasciare alla Jugoslavia Gorizia, città che, anche secondo i dati del nostro ministro degli Esteri, è in prevalenza slava […]. Io penso che la risposta del maresciallo Tito può servire felicemente di base fra i due Paesi e soprattutto per soffocare per sempre ogni possibile focolaio di discordia fra di loro […]. Spetta ora al Governo prendere le necessarie iniziative per realizzare un’intesa concreta”.
L’iniziativa di Togliatti scatena reazioni molto violente. Nenni, ministro degli Esteri, nega categoricamente di aver mai parlato di una maggioranza slovena a Gorizia e i comunisti, isolati, ritorcono l’accusa ai democristiani: il viaggio di Togliatti – foriero di “lunghe prospettive a favore dell’indipendenza italiana” – viene contrapposto al viaggio che De Gasperi si prepara a fare negli USA, per “vendere l’indipendenza per un piatto di lenticchie”.
In realtà queste polemiche risentono ampiamente del nuovo clima politico che si sta delineando in Italia. De Gasperi, e con lui le forze moderate, ritiene che la collaborazione con i partiti di sinistra, in particolare con i comunisti, crei non pochi problemi, interni e internazionali: le elezioni amministrative di novembre hanno avuto un esito disastroso per la DC – a Roma la DC diventa il terzo partito, dietro il Blocco del Popolo e i “qualunquisti”, ma perdite sensibili si hanno in tutto il Meridione – e si intensificano anche le pressioni del Vaticano sul capo del governo perché ponga fine alla collaborazione con i “partiti anticlericali”. Per di più socialisti e comunisti aumentano sensibilmente i loro voti!
I rapporti tra la DC e il Partito comunista sono ancora più tesi a Trieste, dove anche in campo sindacale lo scontro politico si fa sentire in modo dirompente. La neonata Commissione centrale di intesa sindacale (CCIS), una commissione paritetica formata da rappresentanti delle due organizzazioni sindacali istituita su pressione della CGIL e della Federazione sindacale mondiale per porre le basi di una futura unità sindacale, viene ostacolata in tutti i modi e per un anno intero, fino all’ottobre del 1947, deve subire i continui condizionamenti dei rispettivi partiti di riferimento, poco sensibili alle spinte unitarie che salivano dai quadri di fabbrica: da una parte i dirigenti comunisti vedono nel processo unitario il pericolo di un indebolimento del fronte filojugoslavo, dall’altra la DC, soprattutto nelle sue frange più conservatrici, teme “l’abbraccio strangolatore” dei SU al punto di bloccare l’esperimento anche all’interno della stessa CCdL. 32)
La campagna di stampa dell’organo della DC contro la Jugoslavia di Tito e la sua politica in Istria comincia ad intrecciarsi strettamente con la polemica contro le forze politiche della sinistra, comunisti in particolare, che ancora partecipavano al governo italiano.
In questo contesto la questione degli esuli – sottolinea Valdevit – diventa per la DC il “monumento vivente della disumanità del comunismo, della totale impossibilità di creare con esso altri rapporti se non quelli dello scontro frontale: “Troppe persone in Italia – scrive La Prora – attualmente al Governo o comunque ricoprenti cariche preminenti, grazie alla loro appartenenza ai cosiddetti partiti di sinistra, in nome di un malinteso nazionalismo e nell’intento di spegnere, non importa come, i ‘focolai di nazionalismo’, accesi sugli spalti orientali, troppe persone che si arrogano il diritto di difendere gli interessi del popolo istriano, ne tradiscono con colpevole inerzia la parte più nobile e minacciata, sabotando l’opera amorosa di chi, senza nulla chiedere, si appresta ad accogliere cristianamente i fratelli doloranti””.
Nel giugno del 1947, quando in città si comincerà a parlare di elezioni, la DC proporrà il conferimento della cittadinanza agli esuli istriani.
Dopo la conclusione a New York dei lavori per la definizione dei Trattati di pace tra le potenze che avevano partecipato al conflitto, viene firmato a Parigi il Trattato con l'Italia.
Nonostante la dura opposizione dei governi di Roma e di Belgrado, si decide che il Trattato entri in vigore dopo la ratifica da parte delle quattro grandi potenze sia che la Jugoslavia e l'Italia lo sottoscrivano o meno: quel breve lasso di tempo doveva servire a Tito e a De Gasperi per addivenire a più miti consigli.
In realtà la diplomazia italiana e quella jugoslava avevano tutto l’interesse a non cedere, per poter affermare che il Trattato di pace era stato imposto dalle quattro grandi potenze con la forza e quindi delegittimarlo agli occhi delle opinioni pubbliche interne!
Il Trattato di pace, che sanciva la conclusione del regime armistiziale e restituiva così all'Italia una condizione di piena sovranità, prevedeva, tra gli altri punti, l'istituzione del “Territorio libero di Trieste”, che sarebbe stato retto da un governatore nominato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e avrebbe compreso la città e il suo immediato retroterra.
Gradualmente l'amministrazione del GMA avrebbe lasciato spazio all'amministrazione civile. Si prevedeva che tutto dovesse svolgersi in brevissimo tempo, come recitava l'art. 1 dello “Statuto provvisorio”: “Il governatore assumerà le sue funzioni […] al più presto possibile dopo l'entrata in vigore del presente Trattato”.
In realtà la nomina del governatore, che avrebbe sancito formalmente l'internazionalizzazione della città, non fu mai decisa dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, per l'opposizione delle grandi potenze: le amministrazioni militari degli alleati e della Jugoslavia continuarono pertanto a governare rispettivamente la Zona A e la Zona B, come previsto dallo “Statuto provvisorio”. 33)
Le divisioni tra gli ex alleati erano in effetti destinate a diventare sempre più insanabili e la “questione di Trieste” a diventare una delle tante “Cold War Issue”, uno dei tanti problemi causati dalla guerra fredda: certamente non il più importante e il più urgente per Londra e per Washington e ancora meno per Mosca.
Il Trattato di pace, che sul problema di Trieste si presentava chiaramente come un compromesso, suscitò nella popolazione polemiche e rancori, aumentando il disorientamento di ampi strati della popolazione e radicalizzando ancor più gli attriti tra l’Italia e la Jugoslavia.
L'istituzione del TLT risulta infatti invisa in gran parte degli ambienti politici, sia italiani che sloveni, e certamente non incontra i favori del gruppo dirigente dell'economia triestina, che si muoveva in una situazione oltremodo difficile, stretta tra la pressione della Jugoslavia socialista ed i bisogni particolaristici delle industrie locali.
Proprio a febbraio si ricostituisce l’Unione degli industriali giuliani e dalmati, “che s’impegnò” – scrive Sapelli – “con chiaro significato politico-nazionale, nell’organizzazione non soltanto degli industriali giuliani e goriziani, ma anche di quelli già facenti capo all’Unione di Fiume, Pola e Zara. L’azione per ottenere l’indennizzo delle perdite subite negli eventi bellici (che culminò nell’accordo del 18 dicembre tra Italia e Jugoslavia) e la pressione sugli organismi governativi per ottenere – in base agli accordi della Commissione quadripartita del febbraio dello scorso anno – non soltanto moneta italiana e valuta estera, ma anche l’assegnazione di materie prime e la possibilità di utilizzare, da parte degli importatori e degli esportatori, gli accordi di clearing tra l’Italia e gli altri paesi, fu uno dei suoi principali compiti”.
Anche il vescovo Santin polemizza contro il “trattato ingiusto” ed aggiunge che già grandi personalità quali Luigi Sturzo, Vittorio Emanuele Orlando e Benedetto Croce si erano espresse in questo senso: “Io non oso pronunciare un giudizio. Temo che mi faccia velo l’amore per le mie terre ingiustamente strappate. D’altra parte l’Italia non meritava una tale punizione. Non solo si sapeva che non era stato il popolo a volere la guerra, ma dopo l’armistizio la collaborazione bellica con gli alleati fu cospicua e sincera. E d’altra parte troppo si era proclamato che la guerra doveva ristabilire la giustizia e distruggere i fascismi per farne poi una guerra d’ingiuste conquiste, favorendo il totalitarismo comunista. Perché tale fu il regime imposto allora nell’Istria occupata dalla Jugoslavia. Il Trattato adunque prevedeva un Territorio Libero, che non si fece. Fu un trattato che non tenne conto della volontà delle popolazioni, né dell’annessione delle terre italiane alla Jugoslavia. Il mondo vive di quei principi proclamati e violati da chi li proclama. È per questa ragione che non ha pace”. 34)
La costituzione del TLT incontra invece favori e consensi in quel movimento che prese il nome di “indipendentismo”: si trattava di una corrente autonomista, né antislava, né antimarxista, erede in qualche modo di quell'ideale che un secolo prima aveva animato i sostenitori della “nazione triestina”. Gli “indipendentisti” erano convinti che l'unione con l'Italia era stata la causa principale del declino della città ed erano fautori di una gestione diretta dell'attività portuale e commerciale e in una prospettiva antiirredentista ed antinazionalista. Il movimento si sarebbe sviluppato rapidamente fino a raggiungere nel 1952 il 15% dei voti della popolazione. 35)
La mattina del giorno in cui a Parigi doveva essere firmato il Trattato di pace, a Pola la maestra Maria Pasquinelli uccide a colpi di pistola il comandante inglese della piazza Robin de Winton, reo ai suoi occhi di essere un rappresentante dei Quattro Grandi, che avevano “strappato una volta ancora dal grembo materno le terre più care dell’Italia”.
Il processo suscitò un interesse eccezionale anche sulla stampa internazionale e la Pasquinelli divenne per molti il simbolo dell’eroismo e dell’amor patrio: la vicenda della “fragile maestrina” balzò in prima pagina su tanti giornali e un suo diario a puntate venne pubblicato su alcuni giornali della sera italiani.
La Pasquinelli, che aveva per anni aderito alla scuola di Mistica Fascista e che era stata infermiera volontaria alla guerra d’Africa, aveva collaborato a Pola con il “Comitato per gli esuli”. Nella lettera che aveva preparato per spiegare il suo gesto sostenne di aver ucciso chi aveva “la sventura” di rappresentare coloro che avevano condannato quelle terre “o agli esperimenti di una novella Danzica o – con la più fredda consapevolezza che è correità – al giogo jugoslavo, oggi sinonimo per le nostre genti, indomabilmente italiane, di morte in foiba, di deportazione, di esilio”.
La difesa fu assunta dall’avvocato Luigi Giannini, che fin dall’inizio impostò il processo in chiave politica, appellandosi al fatto che l’imputata aveva agito in stato di necessità, spinta dall’“imperativo del suo pensiero nazionale”, con la speranza di allontanare dagli italiani il pericolo che gravava su di loro a causa del “sistematico programma di soppressione razziale nel territorio conteso” messo in atto dagli slavi.
Tra le deposizioni a favore della Pasquinelli fu accolta con grande compiacimento dalle forze “patriottiche” e dai nostalgici del fascismo quella di Guido Slataper – fratello di Scipio e pur egli medaglia d’oro al valor militare nella prima guerra mondiale – che era stato vicino al gerarca fascista Cobolli Gigli e poi Commissario prefettizio al Comune di Trieste durante il periodo Badoglio: “Ella [la Pasquinelli] recava nello spirito il turbamento per i massacri di Spalato e gli infoibamenti dell’Istria; e invocava la costituzione di un unico blocco di italiani, al fine di prepararsi alla difesa non appena i tedeschi, in seguito all’inevitabile sconfitta, avessero sgomberato la Venezia Giulia. […] Parlava esclusivamente da italiana, al disopra di partiti e di nazioni”. 36)
Il processo durò fino ad aprile e alla fine Maria Pasquinelli fu condannata a morte quale colpevole di violazione delle leggi di guerra previste dal proclama N. 1 del GMA. La condanna fu poi commutata in ergastolo dal Comandante Supremo delle Forze Armate Alleate nel Mediterraneo: la Pasquinelli venne consegnata al governo italiano affinché scontasse la pena in Italia, a condizione che non le fosse concessa una liberazione anticipata.
Il governo italiano non mantenne l’accordo e la Pasquinelli uscì dal carcere alla fine del 1964.
Il processo funse da catalizzatore di quelle forze nazionaliste e moderate che avrebbero ben presto proposto la creazione in città di un blocco di forze “sane” contro il pericolo slavo e che da tempo si battevano per il superamento dell’antifascismo. Il Giornale di Trieste e il Messaggero Veneto, che furono tra i più vicini alla Pasquinelli, sarebbero stati in prima fila in questa operazione politica al fianco di numerose associazioni quali la Compagnia Volontari Giuliani e Dalmati, retta da Guido Slataper, e la Lega Nazionale, dal 1947 sempre più terreno di conquista del MSI.
Esce il numero unico della rivista Ponterosso, un “opuscolo d’arte e di cultura” diretto da Giuseppe Menassé. Come scrive Miriam Coen, alla rivista, che “si propone come punto di incontro tra la cultura italiana, quella slava e quella mitteleuropea, collaborano – tra gli altri – proprio alcuni tra i più assidui frequentatori del Centro (Il “Centro di cultura politica” era stato fondato da Fabio Cusin e da Bruno Pincherle poco tempo prima sotto il comune denominatore dell’antifascismo laico e della democrazia): Carolus L. Cergolj e Maria Lupieri, oltre a Fabio Cusin e a Pincherle, che vi pubblica un breve saggio sui rapporti intercorsi tra Stendhal e Domenico Rossetti”.
La situazione che si era delineata in città all’indomani della firma del Trattato di pace è al centro del rapporto mensile del GMA che veniva inviato ai rispettivi governi (“Monthly Report”): “Da un punto di vista psicologico l’italiano medio di Trieste è vissuto per quasi due anni in un vuoto ed è oggi una persona del tutto scoraggiata e delusa senza molte speranze soggettive in un futuro migliore. Di conseguenza le sue reazioni sono molto spesso immotivatamente violente e la sua percezione degli avvenimenti su scala internazionale pressoché nulla. Egli aspira a cominciare a crearsi una vita per se stesso ma le circostanze limitano i suoi piani, che sono fatti mese per mese, alla giornata. Egli avverte la carenza di un’effettiva organizzazione dei suoi connazionali di fronte a quella degli slavi, e, piuttosto che accettare una propria responsabilità per ciò, è incline a rimproverare gli inglesi e gli americani, che nel 1945 ha accolto come liberatori e dai quali in qualche modo si aspettava, nonostante il passato atteggiamento dell’Italia nei loro confronti, la difesa e la rivendicazione dei propri interessi fino all’ultimo sangue. Egli ritiene che prima o poi si verrà ad un confronto aperto con gli slavo-comunisti e non è disposto a lasciare il controllo della città senza combattere”.
Dopo mesi di incontri inconcludenti, il tentativo delle autorità del GMA di coinvolgere gli esponenti politici locali considerati più “ragionevoli” e più “moderati” nella soluzione dei diversi problemi legati alla esecuzione del Trattato di pace si arena e i rapporti tra le parti diventano sempre più tesi, pieni di sospetti e incomprensioni. 37)
L’abolizione del TLT e il ritorno di Trieste all’Italia è una delle richieste che gli imprenditori e gli industriali triestini avanzano con maggior forza. In varie sedi se ne fanno autorevoli interpreti Antonio ed Augusto Cosulich. Augusto, presidente della locale associazione industriale, descrive con chiarezza il quadro in cui le attività economiche si trovano ad operare:
“L’artificiosa creazione di tre confini ha determinato un sovvertimento tale nell’economia locale da rendere a tutt’oggi impossibile qualsiasi fondata previsione sulla attività delle nostre industrie nel futuro, anzi addirittura sulla possibilità di vita delle stesse. Alla Jugoslavia sono stati assegnati dei territori nei quali sono situate industrie che svolgevano attività complementari delle industrie che rimangono al di qua del nuovo confine. Infatti un confine ci separerà dalle centrali elettriche che forniscono la forza motrice, dalle importantissime nostre industrie cementiere e attività minerarie ed in special modo quelle dell’estrazione del carbone, della bauxite e della silice verranno tolte alle industrie per le quali lavoravano e alle quali fornivano materie prime necessarie all’attività produttiva […]. Ad aggravare tale situazione sono venute le spoliazioni effettuate negli stabilimenti siti in località che dovrebbero far parte del Territorio libero e che sono stati ridotti in condizioni tali da mettere in forse una qualsiasi possibilità di ripresa […]. Auspichiamo pertanto un futuro per quanto più possibile vicino in cui in un’atmosfera di vera pace mondiale le cortine determinate dal sospetto politico siano abbattute ed allora Trieste non sarà la prigioniera di un budello tutto confini e barriere, ma un punto d’incontro di vie commerciali e di traffico aperto”.
Da questo punto di vista, commenta Sapelli, il diritto acquisito da Trieste nell’ottobre del 1948 di valersi degli aiuti del Piano Marshall sarebbe stato per l’economia della città “un evento di grande significato”.
Si tengono nei maggiori luoghi di lavoro le elezioni per gli organismi unitari: in questa occasione lo scontro tra le organizzazioni sindacali si acuisce e si verificano gravi tensioni nei seggi delle aziende. “I primi risultati delle elezioni” – scrive Tristano Matta – “contrastano con le previsioni che volevano il monopolio dei SU tra gli operai, mentre confermano quello della CCdL nelle categorie impiegatizie. Secondo una stima ufficiosa del Lavoratore, l’andamento dei risultati dopo circa un mese di elezioni assegna 281 delegati per l’assemblea di categorie ai SU e 233 alla CCdL. In particolare, la rappresentatività della CCdL tra gli operai appare più consistente del previsto nelle piccole aziende, anche del settore navalmeccanico”.
Tra la fine di maggio e gli inizi di giugno l’organo comunista Il Lavoratore pubblica alcuni dati ufficiosi relativi ai risultati di alcune aziende:
SU | CCdL | |
---|---|---|
Cantiere San Marco | 6 seggi | 3 seggi |
Raffineria Aquila | 3 seggi | 2 seggi |
Magazzini Generali | 4 seggi | 3 seggi |
Beltrame | 1 seggio | 4 seggi |
Significativi i dati dell’industria tessile Beltrame, dove la maggioranza della mano d’opera è femminile.
In linea generale emerge una netta prevalenza dei SU solo nel settore cantieristico, dove la mano d’opera è tradizionalmente più politicizzata e più alto è il grado medio di specializzazione.
Quindici giorni prima dell’entrata in vigore del Trattato di pace viene costituito il Partito comunista del Territorio Libero di Trieste.
Durante i lavori del Comitato esecutivo del PCRG, apertisi alla fine di agosto, vengono drammaticamente al pettine le tensioni e le diverse strategie delle due anime del Partito. Ne è una fedele testimonianza la lettera che Vittorio Vidali scrisse agli iscritti il 10 settembre. In questa lettera Vidali attacca senza mezze misure Rudi Ursic e Branko Babic, responsabili di aver soffocato ogni forma di democrazia interna: “Esiste l’impressione – ed è così – che tutte le decisioni più importanti sono prese da Babic e da Ursic, ed il CE è convocato per approvarle o per discutere dei problemi che sono stati già decisi altrove”.
Si impone pertanto la necessità di “fare della educazione nello spirito dell’internazionalismo proletario dei membri del Partito e delle masse un compito costante per combattere contro ogni genere di sciovinismo […]: perché non è detto che questo compito si risolve soltanto lottando contro lo sciovinismo italiano, i suoi molteplici aspetti, le sue sfumature. […] È un problema che ci interessa tutti i giorni, specialmente noi comunisti che viviamo in una zona in diretto contatto con movimenti nazionalisti”.
A Babic, deciso sostenitore di un “destino jugoslavo” per Trieste 38) Vidali rimprovera di mantenere sempre “il suo punto di vista che tutti coloro che non erano con noi erano fascisti ed agenti dell’imperialismo”: il suo settarismo lo ha “veramente sorpreso, e addirittura indignato”, dal momento che ha finito col coinvolgere anche altri partiti comunisti.
Con questi metodi – continua Vidali – “si corre il pericolo molto facilmente di essere espulsi dal partito come nemici della Jugoslavia e sciovinisti italiani ogni settimana ed ogni volta che si apre bocca per dire ciò che non fa piacere a qualcuno. […] Veramente è difficile per un compagno di origine italiana lottare con compagni come Babic ed Ursic. Attaccato dalla reazione come “traditore” e “rinnegato” ed allo stesso tempo sentire continuamente il pungolo della loro sfiducia e qualche volta anche del loro disprezzo, il compagno finisce nella demoralizzazione, nella passività e talvolta si apparta totalmente”. 39)
La maggioranza del nuovo partito rimane però saldamente in mano a Babic e a Ursic ed alla fine dei lavori dichiara con forza che la Jugoslavia aveva firmato il Trattato di pace solo in nome della pace internazionale e che non aveva assolutamente raggiunto quella legittima soluzione per la quale avevano combattuto le masse democratiche: viene riconosciuta l’esistenza di fatto del TLT, ma si sottolinea al contempo la necessità di iniziare una nuova lotta in rapporto alla mutata situazione.
Le autorità jugoslave, in applicazione del Trattato di pace, entrano nelle parti della Zona A assegnate alla Jugoslavia. 40)
Vengono inoltre annesse alla repubblica croata l'Istria, Fiume, Zara e le isole dell'Adriatico. Contemporaneamente le truppe italiane entrano a Gorizia e nel territorio assegnato all'Italia dal Trattato di pace. Aveva così fine la lunga lotta per quelle zone della Venezia Giulia che erano passate sotto la sovranità italiana o sotto quella jugoslava: la contesa si polarizzava ora sul controllo del nuovo Territorio libero di Trieste.
Nel frattempo cambia radicalmente l’ottica con cui gli angloamericani guardano alla città. Già da tempo gli americani e gli inglesi avevano mostrato di non fidarsi troppo delle reali intenzioni del governo di Belgrado e di considerare ogni mossa jugoslava come un tentativo di scardinare, in pieno accordo con l’URSS, le strutture previste dal Trattato di pace e di annettersi il TLT, o, per usare il linguaggio del tempo, di “balcanizzare” la città di Trieste.
“In base alle concezioni strategiche americane” – scrive Valdevit – “tale eventualità avrebbe comportato una serie di reazioni a catena che avrebbero coinvolto l’intera area europea occidentale. Da questa fase Trieste diventò un ganglio fondamentale nella politica di contenimento, quella politica che caratterizzò gli anni dell’amministrazione Truman e che fu diretta ad arrestare l’espansionismo che essa considerava il movente principale della politica estera sovietica”.
In questo contesto, la presenza del GMA viene definita infatti come “l’ultima barriera contro l’infiltrazione da est nell’Italia settentrionale” e la città diventa uno dei “dòmini” della presenza americana in Europa: controllare politicamente e militarmente la città significava mostrare a tutti che Washington non avrebbe permesso in alcun modo la caduta di altre, e più importanti pedine dello scacchiere europeo e mediterraneo.
L’ambasciatore americano a Belgrado, Cavendish Cannon, sintetizzò bene questo mutamento di prospettiva: “Il TLT ha un’importanza simbolica come pure intrinseca e Trieste rappresenta oggi la continuità dei nostri interessi verso l’Est europeo”.
Le condizioni socio-economiche della città sono decisamente allarmanti. I disoccupati sono più di 22.000 su una forza lavoro di circa 100.000 unità; 1.500 degli operai in produzione non svolgono un effettivo lavoro.
In questi anni le Assicurazioni Generali e la Riunione Adriatica di Sicurtà portano la loro sede legale rispettivamente a Roma e a Milano.
Quello triestino, dice un funzionario del Governo Militare Alleato, è un “tenore di vita assistito”: il Trattato di pace, infatti, impone all'Italia di fornire valuta circolante ed il governo italiano è impegnato inoltre ad appianare il deficit, dal momento che la città e il suo porto non possono più riprendere l'antico ruolo di centro di traffici internazionali.
Ad aggravare ancor più la situazione si aggiungono ora anche le dure polemiche tra i partiti locali sulle condizioni del Trattato di pace. “La contrapposizione tra il Partito comunista, fautore ora dell’attuazione piena del Territorio Libero di Trieste, ed i partiti del blocco italiano” – scrive Matta – “che protestano per la cessione dell’Istria alla Jugoslavia e spingono per l’immediato congiungimento della città e della Zona B all’Italia, si fa acuta e coinvolge in continue manifestazioni di segno opposto anche le organizzazioni sindacali. Il già difficilissimo progetto unitario della CCIS – reso del resto meno plausibile dal contemporaneo incrinarsi del modello da cui traeva ispirazione, per effetto delle lacerazioni che si aprono in questi mesi nella CGIL unitaria e che preludono alla rottura dell’unità sindacale anche in Italia – naufraga e viene così a sancire la storia del movimento sindacale triestino fino agli anni Settanta”.
Nel frattempo la situazione internazionale diventa sempre più tesa per l'acuirsi dei contrasti tra gli alleati occidentali e l'Unione Sovietica; su questo sfondo aumentano i timori degli americani sulla possibilità di tenuta del Territorio Libero di Trieste di fronte alla spinta espansionistica dei comunisti jugoslavi.
Per questi motivi le potenze occidentali mostrano sempre minor interesse a dare una pratica attuazione all'internazionalizzazione della città, imposta solo qualche mese prima, e decidono di cambiare strategia: la nomina del governatore presupponeva infatti l'esistenza di rapporti distesi tra le grandi potenze che controllavano il Consiglio di sicurezza dell'ONU, e non la logica della “guerra fredda” che si stava ormai delineando.
Se nel 1946, quando aveva cominciato a prefigurarsi la creazione del TLT, gli occidentali credevano ancora di poter concludere in breve il Trattato con l'Austria – per cui, mentre gli alleati avrebbero ritirato le loro truppe da Trieste e dall'Austria, i russi le avrebbero ritirate dall'Austria e dagli stati satelliti – ora, tra la fine del 1947 e gli inizi del 1948 la possibilità di questi reciproci accordi sembrava del tutto svanita.
Se si aggiungono inoltre il colpo di stato comunista in Cecoslovacchia e il perdurare della guerra civile in Grecia, si possono ben comprendere i motivi che indussero gli alleati, gli americani primi tra tutti, a mutare le scelte politiche fatte poco tempo prima.
Una puntuale riprova di questa volontà di “contenimento” anche in sede locale si trova nell’ordine del giorno, elaborato a novembre, in previsione di una discussione fra i vertici del GMA ed una missione economica angloamericana. Il documento comprendeva i seguenti punti:
l’esclusione delle organizzazioni sindacali dalla politica e l’obbligo di attenersi al loro proprio terreno, e cioè alle vertenze salariali, alle definizioni delle condizioni di lavoro, alla sicurezza dell’ambiente di lavoro, ecc.;
ostacolare in ogni modo la politica degli slavo-comunisti volta ad usare, di conseguenza, le organizzazioni sindacali per il conseguimento dei loro obiettivi;
lo sviluppo di una positiva e progressista politica del lavoro che ispiri nei lavoratori la fiducia che l’approccio comunista non è l’unico né il migliore nelle relazioni fra lavoratori e datori di lavoro.
Il 17 dicembre la Polizia civile interviene duramente per disperdere un corteo organizzato dall’Unione giovanile antifascista; pochi giorni dopo l’intervento si ripete ai danni di un corteo organizzato dall’Associazione partigiani giuliani.
L’atmosfera si fa sempre più tesa in città, anche a causa del ripetersi degli interventi delle squadre d’azione italiane. Il comandante alleato, generale Terence Airey, emana delle direttive che limitano pesantemente alcune fondamentali libertà civili e politiche, contravvenendo, scrive Valdevit, “alla stessa concezione di “democrazia controllata”, di “democrazia a piccole dosi”, alla quale si era ispirata la condotta di governo del GMA.”
Risale a questa data un “Memorandum” redatto dal tenente colonnello Dennis S. Bickersteth, capo della divisione economica del GMA, che ci dà un quadro molto interessante della realtà socio-economica della città e della politica che le autorità angloamericane avevano seguito fino ad allora.
Riprendendo un’analisi che già da tempo andava approfondendo, Bickersteth, in procinto di abbandonare la città, traccia un bilancio degli ultimi due anni: “Garantire il cibo rappresentava il primo obiettivo […] per prevenire disordini” e pertanto tutto era stato fatto per assicurare gli approvvigionamenti alimentari e per tutelare l’occupazione. Ora bisognava andare avanti perché “altrimenti questo posto correrà verso un punto morto molto più velocemente di quanto non ci si possa aspettare”.
Per gli americani – già dal mese di luglio gli inglesi avevano limitato sensibilmente gli aiuti finanziari – si trattava ora di coinvolgere il governo italiano in una serie di interventi di più ampio respiro che andassero al di là della “day bay day policy”.
Né mancavano da parte alleata pesanti critiche agli ambienti economici triestini, abituati sempre a chiedere, privi di coraggio e di spirito imprenditoriale: “Molte città hanno conosciuto analoghe fasi di decadenza e Trieste non rappresenta certo il centro dell’universo”. 41)
In effetti stava accadendo in quegli anni qualcosa di simile a quanto era già accaduto una sessantina d’anni prima: “Non diversamente la gestione politica della classe dirigente nazional-liberale tra l’800 e il ‘900” – scrive al riguardo Luigi Ganapini – “aveva utilizzato i capitali dell’Impero, ma si era soprattutto preoccupata di contenere e dominare le conseguenze dell’industrializzazione che ne derivava. È certo che, se qualcosa viene da lontano, questo è proprio l’odio nazionalistico, la chiusura ad ogni collaborazione col mondo slavo, il tentativo di usare a vantaggio proprio le risorse che vengono dall’esterno: alle radici di queste scelte la necessità di difendere il proprio potere, la volontà di dividere, indebolire, piegare l’opposizione di classe”.
Fino alla firma del Trattato di pace con l’Italia gli sloveni della Zona A avevano trovato una loro rappresentanza unitaria nell’Unione antifascista italo-slovena (UAIS), controllata dai comunisti.
Già nel 1946, però, erano emerse profonde divisioni tra i quadri dirigenti e gruppi di emigrati politici dalla Jugoslavia, nonché tra la maggioranza e i numerosi intellettuali liberali e cattolici che da lungo tempo rappresentavano una parte non trascurabile della comunità slovena.
Agli inizi del 1947 queste forze avevano dato vita ad un partito autonomo nella città di Gorizia ed avevano fondato un settimanale, la Demokracija. Ora, a dicembre, anche a Trieste viene costituita una federazione della Unione democratica slovena (SDZ, Slovenska demokratska zveza), con un’organizzazione interna che vede alleati i liberali e i cattolici: un patto organico aveva infatti legato fin dall’inizio il nuovo partito con gli appartenenti alla Unione dei cristiano-sociali sloveni e croati (Udrezenje slovenskih in hrvatskih krscanskih socijacelcev), fondata pochi mesi prima dal sacerdote Peter Sorli.
Il programma della SDZ, che voleva essere la continuazione dell’antico partito Edinost, al quale alcuni dirigenti avevano di fatto partecipato attivamente, trova una delle sue più lucide esposizioni nel primo numero della Demokracija. “Il filo conduttore dell’editoriale” – scrive Nadja Maganja – “è dettato da un sentimento anticomunista molto pronunciato, un rifiuto del monopolismo politico, presente tra gli sloveni, del terrore psicologico ed anche fisico che si era instaurato dopo la guerra e che colpiva tutti coloro che per diversi motivi si opponevano alla politica dei vari organi politici comunisti. Altri principi evidenziati dall’articolista sono la scelta per il modello politico occidentale, per il pluralismo ideale e partitico, la difesa dell’etica e dei valori cristiani”.
La SDZ si contrappone nettamente alle altre associazioni slovene controllate dai comunisti anche su altri due temi di fondamentale importanza: il “boicottaggio” e la “fratellanza”, per usare la terminologia della lotta politica di quegli anni.
Al “Signor Babic” e ai suoi seguaci si rimprovera di aver rifiutato fin dall’inizio, anzi “boicottato”, ogni proposta di collaborazione avanzata dalle autorità del GMA, abbandonando in mano agli italiani il controllo dei tribunali, della ricostruzione, della pubblica sicurezza e soprattutto della scuola e ricacciando così in una sorta di ghetto la comunità slovena. Per di più, in nome dell’internazionalismo proletario, le diverse associazioni slovene dirette dai comunisti hanno collaborato con i “compagni” e “fratelli” italiani, dando vita ad una linea politica che ha snaturato la specificità degli interessi degli sloveni ed impedito la formazione di un gruppo dirigente sloveno veramente autonomo.
Tra i dirigenti della SDZ vanno ricordati Franc Vesel, Josip Abram, Josip Agneletto, Boris Sancin, Ivan Rudolf. Molti tra i quadri svolgevano “professioni liberali”, quali l’avvocatura. Numerosi avevano partecipato alla lotta partigiana, rifiutando però le posizioni e le finalità degli aderenti al Fronte di Liberazione (Osvobodilna fronta) egemonizzato dai comunisti.
Abram e Agneletto erano stati dirigenti dell’Edinost e, all’epoca dell’incendio del Narodni Dom, erano stati presi come ostaggio dalle autorità per prevenire incidenti.
L’Unione democratica slovena (SDZ) e la Unione dei cristiano-sociali sloveni e croati si dichiararono fin dall’inizio favorevoli alla istituzione del TLT, in quanto vi vedevano il riconoscimento dei diritti nazionali degli sloveni della Zona A. “Questi chiedevano” – scrive Nadja Maganja – “che anche durante il governo militare, reputato provvisorio, venissero attuate nell’amministrazione della Zona A tutte le norme dello statuto permanente, in quanto fossero praticabili e non fossero sostituite con norme dello statuto provvisorio”. Con particolare favore erano state accolte le norme che garantivano piena libertà di culto, di lingua, di espressione di stampa e di insegnamento, di riunione e di associazione, nonché l’articolo 7, per il quale “Le lingue ufficiali del Territorio Libero saranno l’italiano e lo sloveno”.
In tutti gli anni successivi, fino al 1954, la Unione democratica slovena (SDZ) e la Unione cristiano sociale slovena 42)
si sarebbero battute, a fianco dei movimenti “indipendentisti” italiani, per l’applicazione rigorosa ed integrale del TLT.