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storia_ts:cronologia:1943_1945



La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

LA CITTÀ OCCUPATA: 1943 – 1945

agosto – settembre 1943

I piani di sicurezza tedeschi avevano dedicato attenzione particolare alla Venezia Giulia, e fin da luglio un apposito ufficio a Klagenfurt seguiva la situazione. Nella seconda metà di agosto, il generale Rommel ordina ai primi reparti germanici della 172a divisione turkestana e della 71a divisione provenienti dal Friuli e da Postumia di occupare i nodi ferroviari più importanti della regione e di spingersi fino a pochi chilometri da Trieste, a Opicina.

Il 7 settembre le truppe tedesche si mettono in marcia verso Trieste. Dopo alcuni scontri a fuoco con la divisione “Sforzesca”, che faceva parte del XXIII Corpo d’Armata, il generale Alberto Ferrero si accorda con i tedeschi: le truppe non avrebbero occupato la città – come Ferrero assicura i suoi ufficiali – ma solo i cantieri ed il porto vecchio e nuovo “fruendo di strade eccentriche”. In realtà le truppe tedesche sfilarono proprio per la centralissima via Carducci, occupando in breve tutta la città. La sera del 9 Radio Berlino comunica infatti: “Trieste è stata occupata dopo breve lotta e 90 mila italiani disarmati”. Il comando di Trieste aveva così rinunciato sia a difendere la città, sia ad avvalersi dei volontari – soprattutto comunisti – che si erano presentati.

I tedeschi giungono a Trieste con piani molto chiari, che appartenevano al loro progetto di sistemazione di queste terre. In un telegramma inviato da Klagenfurt al ministro degli Esteri von Ribbentrop in data 9 settembre, il Gauleiter e governatore del Reich in Carinzia, Friedrich Rainer, avanza delle proposte ben precise sulla futura “configurazione” da dare ai territori, sottolineando che in molte zone mistilingui “il ricordo della monarchia austro-ungarica e del millenario legame con il Reich è ancora vivo […]. I confini linguistici tra Sloveni, Friulani, Italiani e Serbocroati non sono espressi distintamente […]. Mi è certo presente la costituzione del Reich di Carniola, Gorizia ed Istria”.

Lucida e partecipe è la narrazione di quei momenti drammatici data dal vescovo Santin: “Dopo l’8 settembre 1943 i tedeschi scesero in città. L’esercito nostro si dissolveva ed era stato uno strazio assistere al lento andare di tanti soldati, che stanchi, affamati, tentavano di ritornare alle loro case. Il Silos era pieno di costoro, la nostra Croce Rossa faceva miracoli per aiutarli. Comandava le truppe di occupazione il colonnello germanico Barnbeck che mise il suo comando in villa Necker. Erano giorni neri. Quando i germanici passavano nessuno li guardava. Vi era nell’aria angoscia e risentimento. La parola d’ordine che spontaneamente si era formata era questa: conservare la propria dignità, non curare lo straniero. Tutte le notti era un gran sparare per le vie. Contro chi? Era un modo di intimorire”.

Il 22 settembre il Comando supremo tedesco dà notizia della situazione che si era venuta a creare nella regione attraverso un bollettino che viene riprodotto sul Piccolo: “Nella zona orientale del Veneto, nell’Istria e nella Slovenia, ribelli sloveni insieme a gruppi di comunisti italiani e bande irregolari delle regioni croate hanno tentato di impadronirsi del potere, sfruttando il tradimento di Badoglio. Truppe germaniche appoggiate da unità nazionali fasciste e da volontari abitanti nei luoghi, hanno occupato le principali località ed i centri di comunicazione ed attaccano i ribelli datisi al furto e al saccheggio”.

“Si voleva un «Vorland»” – scrive Apih – “un avamposto dell’Europa centrale tedesca, e si aveva presente l’importanza della regione quale punto di saldatura tra il fronte italiano e quello balcanico; uno sbarco alleato – che fu a lungo caldeggiato da Churchill – avrebbe aperto una direttrice di penetrazione verso nordest, in grado di contenere l’avanzata sovietica, e pure di tutelare l’influenza britannica nell’ambito adriatico-danubiano”.

8 settembre 1943

Viene reso noto il testo dell’armistizio con gli alleati. Dopo l’8 settembre, anche a Trieste i partiti soppressi dal fascismo si ricostituiscono: il Partito d'Azione, il Partito liberale, il Partito socialista, il Partito comunista e quello democratico-cristiano costituiscono il Comitato di liberazione nazionale, erede diretto del Fronte democratico costituitosi a luglio.

La linea politica di questo CLN – il cosiddetto “1° CLN” – viene così descritta da Apih: “è sostanzialmente prefascista, prevalentemente liberal-democratica – benché con interessanti spunti federalisti e autonomisti sulla questione nazionale e su quella della economia – e difende i confini d’anteguerra e gli interessi dei ceti medi. Il CLN fu distrutto e ricostituito più volte; pure, nonostante la limitatezza della sua iniziativa, gettò i germi di una sia pur parziale ristrutturazione del profilo politico triestino”.

Spicca tra le altre la figura di don Edoardo Marzari, assistente della Gioventù di Azione cattolica, nonché uomo di punta di quei democratico-cristiani che spostarono sensibilmente il cattolicesimo dal tradizionale conservatorismo verso posizioni più democratiche prefigurando la futura Democrazia cristiana.

Assieme a don Marzari operano alcuni cattolici che ebbero un ruolo molto significativo nella città, quali l’onorevole Giovanni Tanasco, ultimo segretario del Partito popolare, monsignor Giovanni Grego, don Giorgio Beari, e più in generale i vertici dell’Azione cattolica, tutti di nomina diretta e di fiducia del vescovo.

Il gruppo più forte è quello comunista, che ha saputo mantenere una struttura organizzativa di rilievo: quasi 1.200 militanti inquadrati in città e provincia, tra i quali più di 300 operai delle fabbriche: questi militanti, già mesi prima dell’armistizio, avevano saputo stringere contatti con la resistenza armata slovena.

L'azione degli antifascisti era però molto debole, sia perché esistevano a Trieste, tra gli estremisti nazionalisti, i fascisti ed i conservatori, forze che puntavano ancora a resuscitare con l’aiuto dei tedeschi il vecchio regime fascista, sia per la difficoltà dei rapporti con la resistenza armata slava.

Queste difficoltà avevano molteplici cause. Innanzitutto va ricordato che la resistenza italiana cominciò tardi rispetto a quella jugoslava e questo fatto – come sottolinea Paolo Spriano – pesò sulla questione nazionale lungo tutta la guerra; inoltre non ebbe in un primo momento un riconoscimento internazionale, come invece accadde per la resistenza jugoslava e per quella greca. Non va dimenticato inoltre – conclude Spriano – che una certa tensione di rapporti tra il PCI e il PC jugoslavo veniva “un po’ più da lontano” e ruotava proprio attorno al problema dell’appartenenza nazionale di ampi territori. Era un problema che sarebbe esploso ben presto in tutta la sua portata, come risulta da una relazione di Giordano Pratolongo del novembre del 1943, nella quale il dirigente comunista evidenziava la strategia annessionistica dei compagni jugoslavi e, di contro, la critica dei comunisti italiani nei confronti di una impostazione di questo genere.

Un quadro rapido e sofferto della città è dato da Giani Stuparich in Trieste nei miei ricordi: “Dalla montagna tornai giù tre o quattro giorni prima dell’8 settembre. Meglio rimanere ancora lassù, mi sarei risparmiato d’assistere al nauseante collasso. La cappa di piombo si stese sulla mia città. Il pugno tedesco non aveva se non atteso il momento di afferrare solidamente questa marca di confine, che avrebbe per sempre immesso la potenza del Terzo Reich nel Mediterraneo. A differenza delle altre regioni d’Italia, i nazisti considerarono subito di loro proprietà la Venezia Giulia, l’Adriatisches Küstenland, e vi mandarono un Gauleiter. Il dominio dell’Austria, antico nella memoria dei triestini, impallidiva nei confronti. Bisogna confessare che ci fu una parte della popolazione, piccola per fortuna, che si sentì contenta di tale sorte; alcuni perché succubi della disciplina e dell’energia germaniche, altri perché interessati ammiravano la potenza della Germania, desideravano la sua vittoria e chiudevano tutti e due gli occhi davanti ai metodi barbari e polizieschi del nazismo (agiva in loro anche un tradizionale rancore antisemita: fossero pure annientati gli ebrei, finalmente sarebbero scomparsi da Trieste i numerosi figli di questa razza, lasciando liberi i posti direttivi del commercio, della banca, delle società assicuratrici). Ma la maggioranza, se pur disossata da un ventennio di scudisciate fasciste, se pur incline come da per tutto a vivere alla meno peggio, subiva il giogo nazista con sbigottimento”.

Nei giorni successivi alla proclamazione dell’armistizio, quando le autorità italiane in Istria si dissolvono, si intrecciano diversi fenomeni drammatici: “Il primo fu l’insurrezione dei contadini croati viventi nell’entroterra, nelle forme di una sanguinaria jacquerie diretta contro i possidenti italiani e i loro familiari, insieme ai rappresentanti di uno stato che era divenuto indistinguibile dal regime fascista. Un regime che nei confronti della popolazione slava aveva avuto la mano particolarmente pesante, dal momento che aveva combinato oppressione politica, persecuzione nazionale e distruzione delle speranze di promozione sociale, il che spiega come anche la rivolta fu al tempo stesso nazionale e sociale. I contenuti di classe furono del pari evidenti in alcune aree industriali e minerarie, ove a essere colpiti furono dirigenti, impiegati e capisquadra, mentre arresti di fascisti avvennero anche nelle cittadine costiere su ordine dei locali Comitati popolari di liberazione, guidati da comunisti italiani. Ben presto, però, nell’Istria interna – dove il movimento di liberazione fondava largamente la sua organizzazione sui narodnjaci, esponenti locali del tradizionalismo croato –, il campo delle violenze si allargò a macchia d’olio, fino a coinvolgere in alcune zone tutte le figure più rappresentative delle comunità italiane (dagli avvocati alle levatrici), vittime di una fiammata di furore nazionalista che però non era fine a se stessa, ma funzionale a un disegno politico di distruzione della classe dirigente italiana, vista come un ostacolo all’affermazione del movimento di liberazione croato, impegnato a stabilire il proprio potere sulle ceneri di quello italiano. La maggior parte degli arrestati venne concentrata a Pisino, cittadina situata nel centro della penisola e considerata la culla della croaticità istriana, dove si susseguirono i processi sommari, seguiti in genere dalla condanna a morte, dalle esecuzioni collettive e dall’occultamento dei cadaveri nelle foibe. Il ritmo delle eliminazioni accelerò bruscamente agli inizi di ottobre, quando, costrette ad abbandonare il campo di fronte a una poderosa offensiva tedesca, le autorità popolari create subito dopo l’8 settembre preferirono non lasciarsi alle spalle troppi testimoni e procedettero senz’altro alla liquidazione in massa dei prigionieri. L’impatto delle foibe fu assai forte sull’opinione pubblica italiana della Venezia Giulia, rendendone più difficile la partecipazione ad una resistenza che si temeva egemonizzata dal movimento partigiano sloveno e croato, e diffondendo il timore di una ripetizione degli eccidi nel caso di una nuova presa del potere da parte jugoslava. Al confine orientale gli italiani ritennero perciò di trovarsi di fronte a un progetto di sterminio etnico, il cui fine sarebbe stato quello di ribaltare gli equilibri fra i gruppi nazionali esistenti in un territorio rivendicato contemporaneamente dall’Italia e dalla Jugoslavia”1).

10 settembre 1943

In una riunione al vertice con i più importanti gerarchi nazisti, Hitler espone il suo piano “per la nomina di un plenipotenziario del Reich della Grande Germania in Italia e per la suddivisione del territorio italiano occupato”.

Il giorno successivo viene apposta una “integrazione” segreta alla ordinanza che prevede la suddivisione delle regioni alpine in due “Zone d’operazioni”, sotto l’autorità dei governatori delle regioni limitrofe, Hofer e Rainer. Il testo della risoluzione, redatto da Hans Heinrich Lammers, ministro del Reich, capo della cancelleria, fu reso noto solo “Alle massime autorità del Reich”:

“In allegato vi rimetto la copia dell’ordinanza del Führer, del 10 settembre 1943, sulla nomina di un plenipotenziario del Reich della Grande Germania in Italia e sulla divisione del territorio italiano occupato, con preghiera di presa di conoscenza. L’ordinanza non sarà resa pubblica. Prego di dare conoscenza dell’argomento e del testo dell’ordinanza agli uffici in sottordine ed estranei solo quando e nella misura in cui ciò sarà indispensabile. Quello che importa è che questa ordinanza non dia l’impressione che si voglia intaccare la sovranità del governo italiano fascista 2). I Supremi Commissari che, in base al punto V dell’ordinanza, vengono aggregati ai comandanti come consiglieri civili nelle zone di operazione, saranno nominati dal Führer. In primo luogo per la zona di operazione «Litorale Adriatico», che comprende le province Friuli, Gorizia, Trieste, Istria, Fiume, Quarnaro e Lubiana, è nominato il Gauleiter del Reich il governatore Dr. Rainer, e per la zona di operazione «Prealpi», che comprende le province di Bolzano, Trento e Belluno, il governatore del Reich, Gauleiter Hofer. La nomina degli altri Supremi Commissari verrà effettuata dopo che si sarà provveduto alla determinazione delle altre zone di operazione.
f.to Dr. Lammers”

A Trieste, il 10 settembre, alla fine di un banchetto organizzato dal comandante delle truppe di occupazione viene fondato – prima federazione in Italia – il Partito fascista repubblicano. Ne è fondatore Idreno Utimperghe, segretario dell’unione fascista dei lavoratori dell’industria. Alla testa vi è un triumvirato con lo stesso Utimperghe, il dottor Giuseppe Giovine, capo di gabinetto del prefetto Tamburini e reggente ad interim della Prefettura ed il ragionier Zoli.

Così ricorda l’avvenimento Bruno Coceani nel libro che, come scrive Schiffrer, “oltre che un’autobiografia è pure una agiografia accurata di tutti quelli che si misero al servizio dei nazisti invasori”: “Il col. Barnbeck, comandante della città di Trieste, con un proclama, datato il 10 settembre, diede comunicazione ufficiale che tutti i poteri erano passati alle forze armate germaniche. […] Nello stesso giorno pervenne la notizia che in Italia si era costituito un Governo nazionale fascista, operante nel nome di Mussolini. Nella notte Idreno Utimperghe, che per alcuni anni aveva retto a Trieste la segreteria dell’unione dei lavoratori dell’industria, d’origine toscana, malgrado nome e cognome esotici, uomo pronto alla ventura, costituì la federazione dei fasci di combattimento in nome di un triumvirato anonimo, intitolandola alla medaglia d’oro Ettore Muti. Programma: salvare l’onore e la dignità dei combattenti di tutte le guerre; unire tutto il lavoro per un’attività disciplinata ai fini bellici ed economici; mantenere ad ogni costo l’italianità indiscutibile di Trieste e delle terre giuliane. L’errore fu che l’Utimperghe assumesse o fosse invitato ad assumere tale compito. Forte della sua audacia e dell’assistenza da parte tedesca, procuratagli da amici già precedentemente legati alla colonia tedesca operante in città, s’impadronì della direzione del Piccolo sbalzando dal suo posto, con violenza, Silvio Benco, nel quale Trieste vedeva, oltre che un maestro di probità intellettuale e morale, l’espressione della sua storia purissima. L’Utimperghe credette di avere in pugno il comando della città. Non ebbe il comando e meno ancora l’anima. L’Utimperghe assunse quale commissario la dirigenza della Federazione dei fasci di combattimento imponendo il dilemma «O con noi o contro di noi». Dalla sede della federazione, occupata militarmente, a nome del risorto fascio triestino, rivolse la sua parola incitatrice alla popolazione. Un non folto gruppo di squadristi assisteva nel ristretto piazzale, che va dal palazzo alle vicine rovine del teatro romano, mentre una folla di curiosi sostava sul marciapiede opposto, a molta distanza, quasi a segnare il distacco della città e la sfiducia nelle persone impadronitesi del fascio” 3).

Il servilismo filonazista dei “repubblichini” di Trieste arrivò al punto di costituire nella Risiera di San Sabba un reparto SS di “Wachmannschaft” costituito interamente da italiani.

Scrive al riguardo Galliano Fogar: “Nello schieramento fascista «repubblichino» i torturatori, rastrellatori, delatori, facenti parte degli «uffici politici investigativi», dei centri di repressione, degli «ispettorati» di polizia, ecc. costituirono purtroppo il nucleo centrale che soverchiò con la sua triste fama le minoranze di giovani illusi o ingannati o arruolati forzatamente che vi fecero parte. I «successi» dell’apparato nazista furono spesso dovuti ai solerti e infamanti servizi fascisti. La tragica sorte di molte vittime della Risiera, delle esecuzioni in blocco, delle deportazioni di massa, dei paesi bruciati e saccheggiati, va addebitata all’operato dei fascisti, alle loro denunce ed arresti e persecuzioni”.

settembre – ottobre 1943

Viene distribuito un dattiloscritto clandestino del Partito comunista dal titolo “La soluzione del problema nazionale secondo gli interessi delle masse popolari”. Lo scrive Zeffirino Pisoni, membro del CLN: “Per le masse popolari essa [la libertà nazionale] si risolveva, nel migliore dei casi, nella libertà di vendere la loro forza-lavoro ad un prezzo fissato dall’ingordigia del capitalista. […]. La borghesia aveva risolto il problema nazionale subordinando i reali interessi della nazione all’interesse di un esiguo numero di grandi proprietari che persuasero di identificarsi con la nazione; […] e così la borghesia ha favorito il prodursi del fenomeno nazionalistico, cui ha affidato il compito di giustificare e di esaltare l’imperialismo e le guerre di sopraffazione, perché il capitale, potenza sociale del particolare, non potrebbe adottare altri mezzi per imporre la sua tirannia alla nazione”.

Dopo le enunciazioni di principio Pisoni passa ad analizzare la situazione concreta in cui si situa la “questione nazionale” a Trieste e nei territori circostanti: “Gli uni vogliono la “grande Jugoslavia” con l’inclusione delle popolazioni italiane della Venezia Giulia per poi snazionalizzarle, gli altri la “grande Italia” con l’inclusione, alle medesime condizioni, delle popolazioni serbo-croate”.

Esistono cioè due imperialismi – quello italiano e quello slavo – che hanno interessi materiali opposti e che si ergono a paladini del principio di nazionalità solo per difendere meglio i loro interessi particolari.

L’unica soluzione da perseguire è la ricerca dell’indipendenza: “I tre gruppi nazionali che abitano la nostra regione abbiano, dunque, per libera elezione di popolo, la loro indipendenza. Solo così potranno poi trovare il loro sbocco naturale nella generale sistemazione dei popoli d’Europa ed iniziare, finalmente, un periodo di convivenza fraterna”.

Commentando questa proposta finale, che lascia adito a diverse interpretazioni, Carlo Ventura ritiene che il progetto di “indipendenza”, in quel preciso contesto cronologico e geografico, avesse un significato fondamentalmente propagandistico: “Un accantonamento temporaneo del problema di fondo, determinato dall’urgenza dell’azione armata e dalla necessità di non disperdere in alcuna maniera le forze della resistenza, né togliere loro l’appoggio che esse potevano ricevere da parte delle più agguerrite formazioni comuniste jugoslave della regione. E solo in tal senso il documento, diretto soprattutto alle classi operaie per la determinazione dell’orientamento e della posizione esplicita che dovrebbero assumere, rivela lo scopo precipuo per il quale fu redatto”.

15 ottobre 1943

Dopo cinque settimane di amministrazione militare tedesca viene ufficialmente annunciata l’istituzione di un Supremo Commissariato per il Litorale Adriatico, che comprende le province di Udine, Gorizia, Trieste, dell’Istria, del Carnaro e i territori incorporati di Sussak, Castua, Buccari, Ciabar e Veglia.

Il richiamo stesso al termine austriaco “Litorale Adriatico” indica la volontà di separare la città dal resto dell'Italia e di proiettarla nel quadro della futura “grande Germania”: ne assume il ruolo di Supremo Commissario il Gauleiter della Carinzia Friedrich Rainer. I tedeschi dichiarano esplicitamente i loro scopi, come traspare dalle pagine del manuale ad uso della polizia e delle SS redatto dal “SS Kriegsberichter” Hanns Schneider-Bosgard e pubblicato a Trieste probabilmente tra la fine del 1944 gli inizi del 1945: “Essa [Trieste] non potrà essere potenziata dall'Italia […]. Appartiene piuttosto al territorio di transito dell'Europa centrale e sud-orientale ed è strettamente congiunta col destino di questa […]. L'Istria e Trieste sono per lo stato italiano soltanto una piccola appendice, per l'Europa centrale, invece, sono la finestra sull'Adriatico”.

E l'Europa centrale – come commenta al riguardo lo storico Galliano Fogar – “significa, in quel momento ancora, territori annessi o «protetti» dalla «Grande Germania»”.

Non mancò chi, sulla base di interessi ben precisi o per scelta ideologica, collaborò ben presto con i tedeschi. Su proposta degli industriali il governo della “cittadella” venne affidato da Rainer a Cesare Pagnini, consigliere dell'Asse e uomo di fiducia della famiglia Cosulich: dei due vice-podestà uno era Guido Cosulich. Anche il prefetto Coceani – la nomina ancora una volta era stata fatta da Rainer – riconobbe pubblicamente alle truppe tedesche “il merito di combattere ed eliminare il pericolo bolscevico e di garantire l'ordine in tutto il Litorale Adriatico”.

Analogo entusiasmo fu manifestato dal fascio triestino, che sulle pagine del Piccolo dichiarò di essere “rinato puro dalle sue ceneri” e di voler marciare nuovamente “con voi Alleati tedeschi, come sempre”. Non a caso, dunque, Coceani scrisse che Il Piccolo “malgrado le sterzate di qualche redattore fu, tra i giornali italiani, quello che meno smarrì il senso della realtà e della devozione alla Patria” 4)!

Questa linea seguita dagli ambienti industriali e finanziari, dove spesso è difficile distinguere tra la non resistenza e la collaborazione convinta, è “forse unico esempio di partecipazione diretta e ufficiale di un'alta borghesia cittadina all'amministrazione nazista in Italia […]. Non vi è stato nella Venezia Giulia quel progressivo distacco e divorzio tra potere economico e fascismo com'è avvenuto nell'Italia del Nord […]. Si tratta di gruppi e personaggi che hanno occupato contemporaneamente posizioni di vertice sia nella grande industria privata, che pubblica, e nei quadri nazionali del regime e dello Stato”. (Fogar)

A parte gli antifascisti di formazione cattolica, socialista e comunista, varie altre personalità rifiutarono ogni forma di collaborazionismo: tra queste, in particolare, il vescovo Santin, che non condivise nemmeno la scelta di accettare dai tedeschi le nomine nelle cariche civili di podestà e di prefetto.

L'atteggiamento del vescovo Santin nei confronti della resistenza antifascista fu molto significativo: al riguardo basti pensare che le riunioni del Comitato di liberazione della Venezia Giulia, ritornato nella clandestinità dopo l'occupazione tedesca, si svolsero nelle sedi dell'Azione cattolica e negli uffici parrocchiali di Sant'Antonio Taumaturgo.

Alla fine del mese, lo stabilimento per la pilatura del riso sito nel rione di San Sabba è trasformato dalle SS di Globocnik in prigione, campo di smistamento per le deportazioni in Germania e deposito dei beni razziati agli ebrei e alle popolazioni dei villaggi durante le azioni di rappresaglia in Istria e sul Carso. “Dopo qualche mese” – scrive Albin Bubnic – “vennero costruite le celle e l’essiccatoio fu trasformato in forno crematorio sotto la guida dell’«esperto» in materia Erwin Lambert, che aveva costruito i forni crematori nei campi di concentramento nazisti. Non occorreva costruire il camino: c’era già la ciminiera dello stabilimento, alta 40 metri. Il collaudo del forno crematorio venne fatto il 4 aprile 1944 con i 70 cadaveri degli ostaggi fucilati il giorno prima al poligono di Opicina. In breve tempo quindi, e con poca spesa, i tedeschi organizzarono a Trieste un campo di sterminio, un grande deposito-magazzino e la caserma per la truppa. La Risiera era proprio adatta per i loro piani criminosi. Le finestre vennero murate: tutto il complesso era già recintato, per il controllo bastava il corpo di guardia al cancello, unica entrata. […] Gli ebrei e i prigionieri destinati ai campi di concentramento in Germania erano ammassati negli stanzoni dell’edificio a tre piani. Al pianterreno c’erano le cucine. Nel lungo tratto ora demolito – oltre l’attuale muro di cinta – c’erano i depositi dei beni razziati agli ebrei e le stalle per il bestiame predato durante le azioni di rappresaglia nei villaggi dell’Istria e del Carso. Nel cortile interno, proprio di fronte alle celle, in una costruzione più piccola – i segni della sagoma sono ancora oggi visibili sul fabbricato centrale – c’era il forno crematorio. Un canale sotterraneo univa il forno alla ciminiera […]. Il forno crematorio e la ciminiera vennero distrutti dai nazisti nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini”.

Inizia la deportazione di ebrei, che partono periodicamente con destinazione Auschwitz. I nazisti portarono al massacro all'incirca 1.000 persone, di cui 300 ebrei battezzati: furono deportati persino ammalati tolti dagli ospedali ed i ricoverati nella Casa di riposo di via Cologna, dove furono prelevati 54 vecchi invalidi. A guerra finita ne sarebbero ritornati 12. Su 43 convogli di deportati ebrei che lasciarono l'Italia per Auschwitz, Ravensbrück, Bergen-Belsen e Flossenburg, ben 20 partirono da Trieste. Nell'aprile del 1944 comincerà ad operare il forno crematorio.

Centrale in questa tragica operazione è la figura di Odilo Globocnik, che ricopre la carica di “Gruppenführer” delle SS: quale capo supremo delle SS e della Polizia, ha nelle sue mani tutti i poteri repressivi della Zona d’operazioni. Era giunto a Trieste dopo aver fatto esperienza a Lublino, dove aveva diretto i massacri degli ebrei polacchi. Al suo fianco vengono alcuni “esperti” nello sterminio degli ebrei, quali Georg Michalczyk, che aveva operato nei campi di Varsavia, Belzec, Treblinka, Sobibor, Majdanek e Rolf Günther, uno dei responsabili dell’Ufficio IV B4 “Ricerca e repressione dei nemici”, facente capo all’Ufficio Centrale di sicurezza del Reich (RSHA), cui era affidato lo specifico compito di attuare la “soluzione finale” nei confronti degli ebrei. Ai suoi diretti ordini il famigerato “Einsatzkommando Reinhard”, che aveva gestito i 4 lager di sterminio in Polonia. Si metteranno tragicamente in luce nell’organizzazione e nella gestione della Risiera: Christian Wirth, – “der Wild Christian”, “Christian il feroce” o “il selvaggio”, come lo avevano soprannominato i suoi stessi “colleghi” – comandante a Hartheim, Belsen, Sobibor, Majdanek, Treblinka, già direttore degli “Istituti” dell’“Aktion T 4”5), Franz Stangl, il “boia di Treblinka”, Georg Michalsen, Joseph Oberhauser, e August Edward Dietrich Allers, che aveva alle spalle anni e anni di pratica come dirigente negli istituti dell’“Eutanasia”.

novembre 1943

Il 12 novembre il vescovo Santin invia una lettera a Pio XII per denunciare la drammatica repressione portata avanti dalle autorità naziste contro la comunità ebraica: “A Trieste da qualche settimana le autorità germaniche hanno incominciato a requisire le proprietà degli ebrei (battezzati e non battezzati), poi a incarcerare le persone stesse. Lo spavento si è diffuso fra questa povera gente, già tanto colpita, e tutta la cittadinanza partecipa alle loro pene. Finora non sono stati fermati in massa, ma singole persone e famiglie (circa 70 individui), non si sa con quale criterio, mentre gli altri finora non sono stati toccati. Fu imprigionato anche qualche coniuge cattolico unito con gli ebrei. Mi si riferisce di un caso in cui fu proposto alla parte cattolica il divorzio in cambio della liberazione non accettata. Ogni giorno si sente di qualche nuovo caso. Trieste forma il centro di una zona (Udine, Gorizia, Pola, Fiume, Lubiana) che fu chiamata Litorale Adriatico, dove le leggi del governo Mussolini non vengono applicate e dove i capi di provincia e i podestà vengono nominati dal Supremo Commissario dottor Rainer. Questa zona non è annessa alla Germania né vi trova applicazione la legislatura germanica; leggi, ordinanze, provvedimenti e nomine dipendono dal Supremo Commissario. Per ora la Germania vuole qui creare una situazione pacifica, della quale la popolazione sia contenta. Tutto questo ho detto perché umilmente supplico Vostra santità di voler far intervenire la santa sede presso l'Ambasciata di Germania a favore di questi infelici. Io lo chiedo per tutti gli ebrei, ma almeno i battezzati e i coniugati con battezzati siano lasciati in pace. Ridotti tanto di numero e di influenza, vincolati in mille modi dalle leggi razziali italiane, essi non costituiscono nessun pericolo. Si creano solo delle vittime, ciò che non giova a nessuno. Ho già scritto al Regierungspräsident del Litorale ed ho pubblicamente a San Giusto davanti alle autorità provinciali chiesto un trattamento umano per questi infelici”.

La nuova situazione che si è venuta a creare con la costituzione del Litorale Adriatico incide non poco nei rapporti tra antifascisti italiani e sloveni. Le rivendicazioni jugoslave parlano in questo periodo di confini al Torre e al Fella, in piena provincia di Udine. Il 29 novembre 1943 il Consiglio nazionale antifascista di liberazione della Jugoslavia, supremo organo della resistenza jugoslava, decreta l'annessione alla Slovenia di tutto il Litorale, pur senza far nomi di località.

Su questo punto di fondamentale importanza le linee strategiche dei comunisti italiani e dei comunisti jugoslavi cominciano a divergere; si decide comunque di non affrontare immediatamente questi problemi per non incrinare l'unità della lotta: alla conclusione della guerra la soluzione definitiva doveva avvenire “in base ai principi democratici, nell'accordo tra le due Nazioni”. Parecchi documenti jugoslavi di questo periodo parlano di auspicabili trattative sulle “zone miste”, ma con “un'Italia del popolo”.

Scrive al riguardo Apih: “Le rivendicazioni jugoslave parlavano di confini al Torre e al Fella, in piena provincia di Udine e, benché per i loro contenuti progressisti e democratico-popolari fossero sostanzialmente diverse dal tradizionale nazionalismo sloveno e croato, non erano assolutamente accettabili dall’antifascismo italiano”.

La contestazione dei comunisti italiani è decisa: il 6 ottobre 1943 la direzione per l’Alta Italia comunicava ai dirigenti sloveni che “dobbiamo manifestare il nostro disaccordo. […] Siamo dell’opinione che per il momento almeno, la nostra posizione di principio, dell’autodecisione fino alla separazione sia assolutamente sufficiente”.

Agli inizi del 1944, in un rapporto alla Direzione, Giordano Pratolongo testimoniava senza mezzi termini il disagio e l’opposizione dei comunisti davanti all’operato dei compagni sloveni e croati: “Non possiamo essere proprio noi comunisti a negare quel principio e il diritto delle minoranze all’autodecisione, non possiamo e non dobbiamo essere proprio noi ad imporre soluzioni che contrastano con ogni elementare diritto dei popoli, da noi sempre difeso. È possibile violentare con un atto di forza, solo perché si dispone della forza armata (più volte i compagni sloveni alle nostre argomentazioni risposero: «La soluzione è già stata risolta con la armi», «noi siamo armati», ecc.), tradizioni, diritti di minoranze notevoli come quella italiana della Venezia Giulia?. […] Altro elemento portato per giustificare la loro presa di posizione è che il PCI non ha fatto nulla, non ha mai lavorato e non lavora oggi. Che loro controllano le masse, che hanno un’organizzazione, che sono attivi. […] Non possiamo accettare la loro volontà di esentarci da ogni attività come PCI con l’affermazione che il partito non ha fatto nulla, non fa nulla, che nella realtà è menzognera. […] Dopo l’incontro tra il vostro inviato (P. I.) e i compagni sloveni, a Trieste il comitato sloveno di città ci comunicò di avere ricevuto direttive di comunicarci l’accordo intervenuto tra i due partiti, sulla base delle rivendicazioni avanzate dal PCS e di conseguenza di accordarsi con noi per il passaggio delle competenze, riconoscendo agli italiani di costituirsi in comitato di lavoro alle dipendenze del PCS. Noi non accettammo, non avendo nessuna direttiva in proposito, poi sapemmo a mezzo dell’ispettore che le cose non stavano realmente così per quanto il compagno P. I. non avesse saputo contrapporre alle argomentazioni del compagno sloveno le nostre argomentazioni, che la cosa era in sospeso, ma vaga e contraddittoria”.

Se la questione nazionale divide i comunisti, a maggior ragione divide le popolazioni e di ciò approfitta ampiamente l’occupante tedesco, la cui politica si ispira al tradizionale “divide et impera”: una strategia che nell’Alto Adige (“Voralpenland”) faceva leva sul gruppo etnico sudtirolese, che vedeva nella occupazione della Wehrmacht la realizzazione delle sue aspirazioni irredentistiche, e nella Venezia Giulia – come sottolinea Enzo Collotti – cercava di atteggiarsi ad arbitro dei contrasti nazionali tra italiani e slavi: “Rainer mirò consapevolmente e intenzionalmente alla rivalutazione degli Sloveni, e non soltanto in funzione polemica contro la passata gestione italiana. Una rivalutazione che il Gauleiter aveva voluto significare ed accentuare anche con un gesto politico che acquistava inevitabilmente un contenuto trasparentemente polemico sin dall’inizio della sua opera di governo, dedicando le prime cure, le prime fatiche dell’amministrazione dell’Adriatisches Küstenland proprio alla sistemazione della ex provincia di Lubiana. […] Rainer e con lui gli altri protagonisti della politica tedesca, scontato l’atteggiamento antiitaliano della popolazione slovena, si adoperarono per legare al carro del Terzo Reich determinati strati e ceti sociali, nella speranza e nella illusione di riconquistare il controllo della situazione che era stato messo in crisi dalla penetrazione e dalla diffusione del movimento partigiano”.

Significativo al riguardo è il testo del telegramma che Rainer aveva inviato a Ribbentrop già agli inizi di settembre. Il Gauleiter della Carinzia vi sosteneva la tesi che il Friuli e la Venezia Giulia erano storicamente e etnicamente estranei alla nazione italiana. Dopo aver analizzato il “territorio non italiano tra la Carinzia e l’Adriatico”, precisa “per amor di completezza […] che anche il Friuli non è terra italiana ma che, con una popolazione complessiva di circa 700.000 abitanti, 200.000 sono Sloveni, 100.000 Italiani e il resto, circa 400.000, è composto di Friulani. Costoro differiscono dagli Italiani per razza e lingua e appartengono al ceppo alpino reto-romanzo che in Svizzera risiede nel cantone dei grigioni, in Tirolo costituisce il gruppo dei Ladini e nel Friuli i Friulani”.

Dalla constatazione che in tutte queste terre non esistono precisi confini linguistici tra Sloveni, Italiani, Friulani e Serbo – Croati, Rainer conclude ottimisticamente che “una dominazione tedesca s’imbatterebbe ovunque nella tradizione austriaca. Ci sono funzionari, maestri e ufficiali ex austriaci di tutt’e quattro le nazionalità, che potrebbero essere chiamati a collaborare nel quadro dell’amministrazione civile tedesca”6).

La consapevolezza della forza e delle capacità politiche raggiunte delle “bande” slave preoccupò fin dall’inizio le autorità naziste, come testimonia il Diario di guerra della OKW (“Oberkommando der Wehrmacht”), che alla fine del 1943 tracciò un bilancio allarmato della situazione: “La convocazione di un parlamento jugoslavo si era dimostrata espressione del fatto che il movimento di Tito, come era stata sin dall’inizio sua aspirazione, era dilagato ben oltre i territori della Bosnia nei quali era sorto e aveva avuto particolarmente successo proprio con le sue parole d’ordine panjugoslave. […] Oltre a conservare i punti più importanti per la difesa complessiva dell’area sudorientale, ci si doveva limitare a continuare a portare colpi contro il nucleo centrale delle forze di Tito, per indebolirlo militarmente e impedirgli di realizzare i suoi propositi. Parallelamente bisognava cercare di creare un contrappeso all’influenza di Tito […] per mezzo di misure politiche”.

Anche il primo rapporto inviato alle autorità superiori dal dottor Lambert, dirigente dell’Ufficio della propaganda del Reich per la Carinzia e per il Litorale, considera questa scelta strategica di primaria importanza e contestualmente sostiene la necessità di convincere le popolazioni locali con tutti i mezzi offerti dalla propaganda delle gravissime responsabilità del regime fascista nel crollo seguito al 25 luglio: “La situazione politica in questo territorio – ma il discorso veniva poi ampliato a tutta l’Italia – a volerla definire a grandi linee, è caratterizzata dal fatto che il fascismo ha realizzato una gestione rovinosa al cento per cento. Dappertutto, si tratti delle città o delle campagne, si può affermare che il fascismo non ha saputo rivolgersi, e guadagnarsene l’adesione, neppure ad una sola categoria della popolazione. Chi soggiorni un po’ a lungo in questo territorio, si rafforza sempre più nella convinzione che il 25 luglio doveva venire, poiché nei circoli del Partito fascista fioriva in misura straordinaria il malgoverno, e soprattutto la corruzione, che era evidentemente tollerata dall’alto. […] Le lotte nazionali tra Sloveni e Italiani ecc. che prima così violentemente divampavano nel Litorale Adriatico sono per il momento assopite, dato che gli Italiani si trovano in uno stato di spiccato letargo”.

29 – 30 novembre 1943

A Jajce si riunisce la seconda sessione dell’AVNOJ. Con cautela, per non provocare le reazioni di Stalin, sempre timoroso di ogni iniziativa che possa incrinare i rapporti dei sovietici con gli alleati occidentali, vengono prese alcune decisioni di grande importanza: la costituzione di un organo esecutivo con tutte le caratteristiche di un vero e proprio governo provvisorio, la dichiarazione dell’unità dei popoli jugoslavi strutturati in sei repubbliche federate, ed infine il divieto al re di rientrare in patria finché il popolo non si fosse pronunciato.

Durante la sua III seduta, nell’agosto del 1945, a Belgrado, l’AVNOJ sarebbe stato proclamato “Parlamento popolare” provvisorio della Federazione democratica jugoslava.

A Jajce si decide inoltre di accogliere formalmente le decisioni prese due mesi prima dal Fronte di liberazione sloveno e dal Comitato Interregionale del Fronte di Liberazione Nazionale per la Croazia relativamente alle annessioni dei territori che avrebbero fatto parte della futura Jugoslavia: da un lato l’annessione del Litorale sloveno – che includeva le province di Trieste e di Gorizia, e che prevedeva garanzie di autonomia per la minoranza italiana –, dall’altro l’unione alla Croazia dell’Istria e delle isole dell’Adriatico.

Edvard Kardelj, leader dei comunisti sloveni, che assieme a Tito aveva diretto i lavori preparatori della sessione all’interno del Politburo, sottolineò nelle sue memorie che in questa sede erano state gettate le basi dell’indipendenza della nuova Jugoslavia.

Una decisione che derivava dalla consapevolezza della propria forza e che permise ai combattenti jugoslavi di sfidare in qualche modo i condizionamenti di Stalin e di Churchill: “Basta pensare alla sua [di Stalin] dura reazione alla seconda sessione dell’AVNOJ a Jajce che avevamo preparato senza avvertire Mosca, convinti come eravamo che Stalin sarebbe stato di avviso contrario al nostro”. Pochi giorni dopo, infatti, Molotov inviò un telegramma in cui senza mezzi termini accusava i compagni jugoslavi di aver pugnalato alle spalle l’Unione Sovietica: “Ci aspettavamo una dura critica di Stalin ma non certo di questo tenore”.

dicembre 1943

Tra il 16 e il 19 dicembre i capi del CLN di Trieste vengono arrestati dalle truppe tedesche: dopo gli interrogatori e un periodo di isolamento al Coroneo, la notte del 28 febbraio 1944 vennero deportati a Dachau: “Il 26 fummo chiamati all’appello per partire” – ricorda Giovanni Tanasco. – “Messi in un’unica cella, insieme a Zulian e Fon, fummo fatti alzare all’una del 28 e, verso le tre, inquadrati con molti altri sconosciuti fra numerosi SS con mitra spianati e riflettori accecanti e, a passo quasi di corsa, avviati alla stazione. Ricordo che Gandusio, ricoverato da qualche giorno all’infermeria, fu fatto scendere e dovette vestirsi alla buona in corridoio e che Puecher inciampò e fu caricato in un furgone che veniva per ultimo. Il compagno Fon portava in un sacco il pane per tre giorni per sé e per noi cinque. Fummo fatti salire, circa in 70, in un carro bestiame che fu poi sigillato e partì verso le 11; passammo la prima notte su un binario morto a Villaco (non sapevamo dove si andava); la seconda notte a Salisburgo ed il pomeriggio del 3 arrivammo a Dachau”.

Gabriele Foschiatti e Zeffirino Pisoni morirono a Dachau.

“La cattura del primo Comitato apre un periodo di crisi organizzativa della resistenza triestina. Il colpo è stato grave” – scrive Fogar – “una vera e propria «decapitazione» che ha privato il movimento democratico di elementi qualificati, che già durante il periodo dei 40 giorni del regime di Badoglio avevano avviato una politica antifascista unitaria. In un clima di repressione e di tensione non è facile sostituire gli uomini perduti tanto più che gli esponenti del primo CLN, provenienti dai vecchi partiti prefascisti o dall’antifascismo clandestino, avevano già un’esperienza di lotta politica e delle particolari questioni locali. Mentre i singoli gruppi politici continuano l’attività, specie sul piano propagandistico e di proselitismo (il movimento cattolico sta organizzandosi su basi nuove ed entrerà fra breve nel vivo della lotta), mentre continua l’opera del Comitato militare diretto dal Frausin e dal Miani, un CLN vero e proprio con rappresentanze paritetiche dei vari partiti si costituirà in forma organica ed efficiente appena nel maggio del ‘44”.

15 gennaio 1944

Il Piccolo pubblica il bando di costituzione di una “Guardia Civica” firmato dal podestà Cesare Pagnini: “Per garantire l’ordine e l’intangibilità della nostra Trieste da qualsiasi minaccia ho deciso di istituire alla mia diretta ed esclusiva dipendenza, la Guardia Civica che dovrà essere composta dai giovani migliori i quali, pur nel disordine generale hanno conservata immutata la fede nella Patria e nella salvezza della gente di questa nostra Regione”.

Un’iniziativa di questo genere era già stata presa – “in ottemperanza alle disposizioni del Comando germanico” recitava il bando! – due mesi prima a Capodistria. Erano iniziative che si inquadravano nei progetti tedeschi di una “Difesa territoriale” e venivano incontro a quanto Globocnik da tempo sosteneva: “È vergognoso che un popolo come il vostro si lasci terrorizzare da una mucchio di malfattori”. E con l’espressione “malfattori” intendeva i “banditi”, cioè i partigiani.

Nonostante le reiterate affermazioni di indipendenza e di autonomia politica sbandierate da Pagnini e Coceani, sempre riportate con enfasi dal Piccolo, gli uomini della Guardia civica si trovarono oggettivamente a sottostare alle disposizioni superiori dei tedeschi e non a caso Globocnik li definì pubblicamente “Landschutzmänner” (“Uomini della Difesa Territoriale”) 7).

I corsi di istruzione dei giovani volontari vennero svolti dalla polizia tedesca e lo stesso podestà mise in rilievo “la sua profonda riconoscenza alle autorità germaniche […] vicine e preziose coadiutrici”. Uno dei primi incarichi attribuiti ai volontari durante questi corsi fu di compiere il servizio di guardia ai 51 impiccati di via Ghega e di partecipare ad operazioni di rastrellamento dei renitenti alla leva! Furono i tedeschi, inoltre, ad ordinare le modalità di dislocazione della Guardia civica nel territorio nei diversi presidi di Monfalcone, Aurisina, Muggia, Opicina, tutte località nelle quali la presenza partigiana era più forte.

La decisione dei tedeschi di controllare in modo sempre più capillare le attività della Guardia civica, legandola saldamente ai loro disegni politici e militari determinò – scrive Fogar – “una salutare reazione morale”: sempre più numerosi furono quelli che parteciparono ad una attività clandestina, o comunque si opposero e cercarono di sabotare le superiori autorità tedesche. Tra questi vanno ricordati Messerotti, Rea e Duse, che pagarono con la deportazione in Germania e con la vita la loro attività partigiana all’interno del Corpo. Morì il giorno dell’insurrezione – aggiunge Claudia Cernigoi – Sergio Fonda Savio, componente della Guardia civica legato al CLN che fu ucciso dai tedeschi in piazza Goldoni la mattina del 1o maggio.

31 gennaio 1944

Aerei angloamericani bombardano per la prima volta la città, provocando danni alla raffineria di Aquilinia e un morto a San Dorligo della Valle. Durante tutto il 1944 si sarebbero succeduti numerosi altri bombardamenti. Particolarmente drammatico per la popolazione civile fu quello del giugno 1944, che colpì impianti portuali e industriali e insediamenti civili nei rioni di San Giacomo, dei Campi Elisi e di Montebello causando circa 400 morti e 800 feriti; 4.000 furono i cittadini rimasti senza tetto.

Tra settembre e dicembre i morti a causa dei bombardamenti furono 144.

4 marzo 1944

Compare sulla Vita Nuova un articolo di fondo dal titolo “La Foiba” a firma del direttore Giordano Beari, ma probabilmente ispirato dal vescovo Santin. Vi è espressa apertamente una tesi che sarà poi, per molti anni, caratteristica della stampa cattolica cittadina: il comunismo e il nazismo, in teoria così opposti tra loro, poi, nella pratica, escludono qualsiasi valutazione “umana”, e tanto meno “cristiana”, nei loro comportamenti concreti: “Non si pensi che la «foiba» sia l’unica trovata del banditismo contemporaneo, anche se rimane pur sempre una delle più truculente espressioni della barbarie umana. I campi di concentramento, dove i corpi e gli spiriti languiscono in attesa della morte liberatrice; i plotoni di esecuzione, con i fucili spianati contro petti onorati e schiene che mai conobbero la viltà e il tradimento; le deportazioni in massa, i «prelevamenti» (ipocrisia degli eufemismi!) di persone; la spogliazione dei beni; i vari generi di esecuzioni sommarie; gli imprigionamenti ingiustificati: tutte, insomma, le più sfacciate ed arbitrarie violenze contro uomini e cose sono altrettanto tristissime realtà di cui è oggi intessuta la vita di popoli interi. Tutto ciò dimostra che i seguaci di ideologie diverse – anche se in netta e spesso sanguinosa antitesi tra di loro nei principi, nelle finalità e negli interessi – s’incontrano invece in maniera sorprendente e quasi si accordano in concezioni e in sistemi di vita che sembrano escludere a priori qualsiasi valutazione «umana» (non dico cristiana) dell’uomo. […] Ridate agli uomini la libertà dei figli di Dio. È il grido dei popoli. Il grido di Dio”.

L’articolo si inserisce in una lunga serie di interventi che la stampa cattolica dedicava dalla fine del 1943 ai drammatici avvenimenti che sconvolgevano l’Istria. Lungo tutti questi mesi il settimanale si era scagliato contro la “barbarie” slava, riproponendo più volte il confronto con le fosse di Katyn, dove erano stati gettati i corpi di undicimila ufficiali polacchi fucilati dall’occupante sovietico.

29 marzo 1944

“Ieri sera la polizia germanica ha prelevato dall’ospedale Regina Elena, da quello psichiatrico e dalla sezione dei cronici, tutti gli ammalati e vecchi ebrei” – scrive il vescovo Santin al prefetto Coceani – “Le scene che si sono svolte non sembrano neppure possibili. In quei luoghi di pietà e di dolore è entrata una ventata disumana e violenta, che ha lasciato in tutti i sofferenti l’impressione più penosa e più rilevante. La città tutta ne è nauseata. Sono state prese anche persone che non sono affatto ebree o che la legge non considera tali. Tutti si chiedono dove finiranno questi dolenti. […] Se sapessi che un mio intervento potesse avere anche la più lontana possibilità di ottenere qualche risultato non mi darei pace. Ma so a che cosa approdano le mie raccomandazioni. Io vi prego perciò, Eccellenza, di far sentire d’urgenza alle autorità del Commissariato ed a quelle della polizia, il senso di rivolta della cittadinanza tutta senza distinzione. Anche i barbari si fermano davanti al malato dolente. Con questi sistemi si scavano abissi, non si creano le condizioni necessarie alla comprensione tra i popoli”.

Marco Coslovich ha quantificato il numero dei deportati dall’Adriatisches Küstenland in 8.200 unità, cifra che corrisponde a circa un quinto dell’intera deportazione nazionale. Su 123 trasporti a livello nazionale 74 partirono dal Litorale, su 43 convogli di ebrei, ben 22 partirono da Trieste.

Coceani ricorda al riguardo di aver espresso al consulente germanico “il biasimo unanime per queste operazioni di polizia” e aggiunge: “Di fronte alle misure della polizia le autorità civili tedesche avevano già dato dimostrazione della loro impotenza. Ma nella questione riguardante gli ebrei avevano ancora minore forza”.

In memoria di tutte le vittime di questa tragica pagina della storia della città, ricorderemo la testimonianza di una donna ebrea di origine corfiota, appartenente cioè alla comunità più povera e più indifesa, spesso discriminata anche all’interno della comunità ebraica triestina.

Intervistata da Silva Bon, Giulia Belleli Schreiber dapprima ricorda alcuni fatti antecedenti l’arresto: “Ma nel tempo che mia mama iera al Coroneo, che mi iero nascosta intanto, i me vestiva con paruche, con rossetti, perché mi cercavano […] e mi andavo là a portarghe de magnar […] e i me domandava se mi conoscevo la Signora Belleli, che iero mi […] a chi ghe portavo [i viveri] «iera amici» disevo, inveze iera mia mama, mio papà, no so se iera mia sorela, no me ricordo, e rischiavo la vita anche là”.

Subito dopo il ricordo passa al momento dell’arresto: “Adesso me xe vignù [intende uno spasimo di dolore nel rivivere il ricordo] […] e sempre, no se pol dimenticar ‘ste robe, mai […]. Mi go ciolto gli orechini, li go butà de soto le scale, perché vedevo che i tedeschi i zucava drio (dietro alle orecchie), alora li go butadi; che, difati, quando che son rivada, dopo del campo de concentramento, che grazie a Dio son rimasta viva, no so come, la portinaia la gaveva salvado i orechini e un orologio che gnanche non ’ndava”. Già durante il tragitto da casa alla Questura cominciano le violenze: “Iero tuta […] no savevo cossa iero in quei momenti, perché legnade de qua, legnade de là, […] piccola che iero e abituada ala famiglia; non savevo dove che iera lori [intende i familiari] […]. I me ga portado prima in Questura e dalla Questura in Piaza Oberdan, me par, che là iera el grupo dei nazisti. Iera uno che gaveva la man de legno e che el bastonava, ma che el bastonava, e che mi iero cussì [intende spaventata] […]. De là i me ga portado in Risiera…”.

Più avanti un ricordo pieno “di rabbia e di dolorosa amarezza”, come ci dice Silva Bon: “Questo iera, no? xe robe […] inumane, a venir a cior gente de casa, inocente. Perché in principio i deseva: «’I ciol solo i signoroni», e noi no gavevimo dove scampar. Chi gaveva soldi?! Se no ne bastava neanche quel de lavorar per magnar”.

aprile 1944

“Un giorno della fine d’aprile del 1944” – ricorda Giani Stuparich – “eravamo ancora a tavola nella casa di via Trento: quale tristezza dentro e su di noi (mia sorella Bianca, morta, i miei tre figlioli «»di là della barriera»: da lungo tempo non sapevamo nulla di loro, ma per quanto impensieriti, eravamo più tranquilli che fossero stati con noi a Trieste; eravamo rimasti in tre: mia madre, mia moglie ed io), quando una fortissima detonazione, una scossa come di terremoto, ci fece alzare i visi: ci guardammo, e quello sguardo angoscioso scambiato fra di noi, in quella stanza che aveva visto tanta storia famigliare in mezzo a tante grandi vicende (e che qualche mese dopo doveva essere sconvolta dalla prima incursione inglese sulla città), credo ripetesse, rispecchiandolo, lo stato d’animo di mille e mille famiglie avvilite, mutilate, sbattute dalle bufere dell’epoca nostra. Poche ore dopo scendevo in strada. La gente era visibilmente spaventata, eppure la curiosità la spingeva verso la vicina via Ghega. Qualcuno a cui chiesi mi disse frettolosamente che c’era stato un attentato dinamitardo alla mensa degli ufficiali tedeschi; c’erano i cordoni della polizia intorno al palazzo Rittmeyer, spaccato sul davanti dall’esplosione; oltre le finestre, svuotate dei telai, si vedevano già in tutti i piani penzolare i corpi degli impiccati per rappresaglia. La folla restava là davanti inchiodata dall’orrore: I cinquanta impiccati di via Ghega! Con quale animo ci si poteva aggirare per le strade? Io mi ci aggiravo con la disperazione nel cuore. Entravo qualche volta nella libreria d’Eugenio Borsatti, dove i primi tempi mi trovavo con Foschiatti; più tardi, l’amico libraio, con cui mi ritiravo nella retrobottega, mi dava qualche notizia sui fatti avvenuti in città o mi infilava nella borsa qualche volume clandestino. (Curiosi ricordi! prima dell’altra guerra, al tempo dell’Austria, lo stesso Borsatti, ch’era stato mio compagno di ginnasio e s’era ancor giovanissimo impiegato in una delle più importanti librerie triestine, mi tirava fuori di sotto il banco i numeri proibiti della Voce fiorentina)”.

L’impiccagione dei cinquantun ostaggi – le SS prepararono un elenco di detenuti delle carceri di via Coroneo, scegliendo anche quattro donne – fu una rappresaglia per lo scoppio di una bomba al Deutsches Soldatenheim, sito in via Ghega nel palazzo Rittmeyer, che aveva ucciso cinque soldati tedeschi.

“A gruppi di cinque, la mattina dopo, i condannati vengono trascinati sullo scalone del palazzo e quindi lanciati nel vuoto, con il nodo scorsoio al collo. Risultate insufficienti le scale” – scrive Botteri – “alcuni vengono impiccati alle finestre, nelle stanze, nei corridoi. Per cinque giorni le vittime rimangono esposte. Il coprifuoco viene anticipato alle venti. Il foro Ulpiano, prospiciente il palazzo di Giustizia, dove ha sede il Supremo Commissariato tedesco, viene chiuso con transenne”.

Agli inizi di aprile un altro attentato era stato compiuto ad un cinema di Opicina requisito dai soldati tedeschi e in quella occasione erano stati condannati a morte 71 ostaggi. La Deutsche Adria-Zeitung, il quotidiano in lingua tedesca stampato a cura dell’Alto Commissario per il Litorale Adriatico, aveva smesso i toni suadenti spesso usati e dichiarato senza mezzi termini che “Ogni atto terroristico verrà spezzato”: “Finora le autorità di occupazione si erano limitate a condannare le persone fisiche responsabili di attentati contro vie e proprietà germaniche, ma sembra che questa moderazione sia stata interpretata come una nostra debolezza. [Ora] sono stati impiccati per rappresaglia settanta banditi già condannati a morte, i quali, pur tuttavia, sarebbero stati, per grazia, deportati in Germania. Alla popolazione del Litorale può soltanto venir ripetuto l’urgente consiglio di fare il possibile affinché tali misure vengano evitate nel futuro. […] I cittadini del territorio saranno liberi dalla minaccia dei banditi quando le associazioni della difesa territoriale saranno abbastanza forti […]; perciò la collaborazione e l’arruolamento nella difesa territoriale è un dovere e anche la migliore possibilità di portare alla zona, al più presto, calma e sicurezza e quindi lavoro indisturbato e vita pacifica”.

Altri attentati ci sarebbero stati nei mesi successivi, ad un’autorimessa di via Massimo d’Azeglio e alla stazione ferroviaria di Campo Marzio: vennero fucilate dai soldati tedeschi 30 persone.

Le durissime rappresaglie condotte a Trieste, come nelle altre località del Litorale, dovevano stroncare sul nascere ogni forma di resistenza e seminare il terrore nella popolazione; in realtà le cose andarono diversamente e il movimento di opposizione divenne sempre più forte, sia sul piano politico che su quello militare.

2 – 4 aprile 1944

In territorio sloveno una delegazione di comunisti italiani, formata da Francesco Leone (Sandrelli) e Umberto Massola (Quinto), si incontra con alcuni membri del Partito comunista sloveno per stringere un accordo sulla base della “necessità primordiale” della lotta comune dei due popoli contro i fascisti, i nazisti e “la guardia bianco-blu slovena”.

Questo incontro avviene pochi giorni dopo l’invio di una lettera riservata di Dimitrov ai due partiti al fine di sanare le fratture che si erano evidenziate sulla “questione nazionale”. Dimitrov aveva sostenuto che i disaccordi territoriali riguardanti Trieste e la zona tra Cividale e Gemona dovevano essere risolti “solo dopo l’annientamento del nemico” e che nel frattempo doveva essere perseguita ogni forma di collaborazione militare e logistica tra i due partiti: “In quanto concerne l’armamento la parte maggiore spetta a chi ha più esperienza militare a chi ha più capace composizione del comando a chi combatte meglio contro il nemico”.

Uno dei punti fondamentali di questo accordo fu la creazione sul territorio del litorale sloveno della brigata d’assalto Garibaldi “Trieste” come parte integrante dei distaccamenti e delle brigate d’assalto Garibaldi operanti in Italia; “Per le zone di confine e miste dove operano unità slovene e italiane si creerà uno stato maggiore misto di coordinamento, non appena se ne dimostrerà la necessità, per coordinare le azioni di queste unità e per rafforzare in tal modo la loro efficienza”.

Dal punto di vista politico si sottolineò “l’impossibilità e la inopportunità di porre ora in discussione questioni di delimitazioni dei confini; perché è chiaro che la soluzione definitiva dei problemi nazionali e territoriali dipenderà soprattutto dalla situazione generale in questa parte d’Europa e anzitutto in Jugoslavia e in Italia”.

Nel contempo si affermò solennemente che la guerra di liberazione condotta contro i fascisti e i nazisti doveva garantire agli italiani e ai popoli jugoslavi, “nel consesso di domani delle nazioni libere”, il diritto di regolare pacificamente su un piede di parità le aspirazioni nazionali legittime: fin da allora andava comunque riconosciuto il principio dell’unità e dell’indipendenza nazionale della Slovenia.

giugno 1944

Si costituisce nella redazione del settimanale cattolico Vita Nuova il “Secondo CLN”. Luigi Frausin, rappresentante del Partito comunista, mostrò subito una aperta disponibilità alla collaborazione con le altre forze politiche dello schieramento antifascista, nonché un ruolo in qualche modo “demiurgico”: “Il Frausin mi propose” – scrive don Edoardo Marzari – “quale Presidente e rappresentante della DC. Io accettai la carica di Presidente, ma solo in qualità di sacerdote, nella prospettiva di poter evitare conflitti sanguinosi e domandai che un’altra persona candidasse per la DC. Frausin accettò e mi sussurrò all’orecchio il nome del dottor Cividin, muggesano, suo conoscente; gli altri membri del CLN furono: per il Partito d’Azione Felluga, per i socialisti Frausin propose Robba di Muggia, per i liberali un giovane che più tardi fu sostituito dall’ing. Selem”.

L’atteggiamento di Frausin era un segnale dei nuovi rapporti di collaborazione tra cattolici e comunisti, che nel resto dell'Italia si erano già consolidati.

In questo periodo la figura di Luigi Frausin assume nel quadro della lotta politica a Trieste un rilievo del tutto particolare; già qualche mese prima era giunto ad un accordo con gli sloveni, che in qualche modo rinviava a dopo la guerra la questione delle “zone nazionalmente miste”, senza che alcuno rinnegasse le sue posizioni.

La sua strategia mediatrice e moderatrice si rivelò però sempre più difficile, soprattutto perché il CLN triestino non aveva i mezzi per contrastare la preponderanza jugoslava nella lotta contro i nazifascisti e quindi per contrastare le rivendicazioni nazionali slovene e croate: nella brigata Garibaldi-Trieste – dove, è da notare, su 190 combattenti solo 15 erano triestini e 30 monfalconesi – “alcuni quadri partigiani […] sin dalla tarda estate del '44 finiscono” – ricorda Fogar – “coll'aderire alla tesi jugoslava […]. I rapporti con le formazioni italiane del Carso e dell'Istria saranno troncati e resi inefficaci”.

La situazione all’interno del Partito comunista a Trieste viene così descritta da Rudi Ursic, le cui posizioni erano tipiche di un diffuso nazionalismo sloveno: “La dirigenza locale delle organizzazioni comuniste “italiane” era letteralmente “spaccata” in tre: da un lato Luigi Frausin e Vincenzo Gigante, i quali sostenevano a spada tratta che se doveva esserci sul posto un solo Partito, questo non poteva essere che quello italiano ma comunque, visto lo stato di fatto, prendevano atto dell’esistenza dei due Partiti, quello italiano e quello sloveno, escludendo, però, assolutamente ogni possibilità di fusione tra i due; dall’altro, Ermanno Solieri, il quale sosteneva, con altrettanto vigore, la necessità della fusione dei due Partiti, se necessario con l’etichetta di “Partito comunista triestino” e ciò, anzitutto, a causa del fatto che, volenti o nolenti, si scontravano continuamente fra di loro, a tutto danno della lotta contro l’occupatore; in mezzo c’erano i fratelli Balbi, Maria Bernetic, Jaksetich, Destradi, Semilli, Valdemarin ed altri numerosi “pendolari”, i quali, con varia intensità, oscillavano fra due posizioni”.

10 giugno 1944

“La provincia di Trieste entrò in allarme” – scrive il rapporto dell’UNPA al prefetto – “alle ore 9 antimeridiane del 10 giugno 1944.

Dopo un quarto d’ora dal segnale d’allarme, un centinaio di bombardieri angloamericani scortati da caccia provenienti dall’Adriatico raggiunsero la città. Gli sganci avvennero da un’altezza di circa quattromila metri: in quattro riprese vennero lanciate alcune centinaia di bombe dirompenti ed incendiarie di piccolo e medio calibro. Bombardamento a tappeto. Tutta la città fu colpita: Barcola, molti magazzini della zona portuale; la testata del molo Audace; una nave della Croce Rossa attraccata alla Stazione Marittima: i depositi della stazione di S. Andrea; il quartiere dei Campi Elisi; la Spremitura d’Olii Gaslini; il Pastificio Triestino (che andò totalmente distrutto); il popolare rione di S. Giacomo; il quartiere di Montebello; via Domenico Rossetti, ove fu colpita e distrutta la bella e suggestiva chiesa di S. Maria delle Grazie. In totale 112 case distrutte, 300 gravemente o leggermente danneggiate; 378 morti; 800 feriti ricoverati negli ospedali; circa un migliaio che dopo la medicazione poterono rincasare. Oltre 4.000 persone rimaste senza tetto”
8).

giugno – settembre 1944

L'apertura di un secondo fronte in Normandia – “Operazione Overlord”, come venne chiamata – e lo sbarco nella Francia meridionale vanificano la speranza di Churchill di “un'avanzata a Nord-Est in direzione della penisola istriana, che è dominata da Trieste, dove si sarebbero presentate attraenti possibilità di avanzare in Austria e in Ungheria attraverso la sella di Lubiana e di puntare al cuore della Germania da un'altra direzione”.

Il disegno strategico di Churchill era strettamente legato al tentativo di liberare Vienna e quindi il cuore dei Balcani prima dell'arrivo delle truppe sovietiche, in conformità agli interessi inglesi sia nel settore del Mediterraneo che in quello dei Balcani 9).

L'apertura del nuovo fronte e il ristagno delle operazioni militari sul fronte italiano – a settembre ormai è chiaro che la spinta degli alleati verso nord, nella direttrice Veneto orientale – Sella di Lubiana 10) – Vienna è esaurita – modificano profondamente lo scenario militare e politico: si profila così la possibilità per le forze della resistenza jugoslava di prevenire una occupazione angloamericana con tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate; di qui la decisione di accantonare gli accordi presi a giugno e a luglio con i rappresentanti della resistenza italiana e di passare ad una strategia annessionista.

L'esercito di liberazione jugoslavo, inoltre, vedeva rafforzata la propria posizione dalla rapida offensiva che le armate sovietiche, spalleggiate dall'esercito rumeno e da quello bulgaro, stavano scatenando nel cuore della Jugoslavia.

Ricorda Coceani: “Ai primi di ottobre del ’44 si sparse la voce a Trieste che nel colloquio tra Churchill e Tito era stato deciso che le armate jugoslave avrebbero dovuto occupare la Venezia Giulia, prima ancora di uno sbarco inglese, che l’amministrazione di Trieste sarebbe stata affidata per tre quarti agli italiani e per un quarto agli slavi e che la questione di Trieste sarebbe stata definita alla conferenza della pace. La sorte della Venezia Giulia sarebbe stata compromessa, fuori dubbio, da un tale accordo”.

agosto – ottobre 1944

Il 24 agosto – sembra questa la data più sicura – vengono arrestati in seguito ad una delazione i comunisti Luigi Frausin, Natale Kolaric, Vincenzo Gigante, i più influenti rappresentanti di quella corrente che si era opposta alla tesi annessionistiche jugoslave. Ci fu chi avanzò l’ipotesi che il delatore fosse un membro dell’OF, per liberarsi una volta per tutte degli internazionalisti italiani, ma ciò, secondo Apih, è da ritenersi falso.

Questa è la narrazione dei fatti fatta da Rudi Ursic: “L’operazione della Polizia aveva avuto inizio nel rione di San Giovanni, estendendosi poi a tutta la città – colpendo in particolare San Giacomo – nonché a Muggia ed a Monfalcone. A partire dall’arresto di Giorgio Frausin, il 22 [sic] agosto 1944, gli arresti procedono a valanga. Dopo pochi giorni viene decapitato l’organo centrale del Partito del Litorale, con l’arresto di Luigi Frausin. Segue una breve pausa. La Polizia vuol vedere chi sostituirà Luigi Frausin nella carica di segretario, prima di continuare negli arresti. Ed infatti, non appena Vincenzo Gigante subentra a Luigi Frausin, pochi giorni dopo viene arrestato. Altra breve pausa. Ermanno Solieri subentra a Gigante: poco dopo viene arrestato. Così pure vengono arrestati tutti i componente della Sezione stampa e propaganda assieme al responsabile della stessa, Luigi Facchini. L’ultimo dei dirigenti della Federazione ad essere arrestato, senza neppur riuscire ad assumere formalmente la carica di segretario, era stato Alfredo Valdemarin, ritornato al lavoro clandestino, dopo alcuni mesi di «brigata», su sua richiesta, dopo l’ecatombe di tutti i quadri del PCI della zona. La Polizia, dopo aver fatto «piazza pulita» nelle file della «resistenza» italiana a Trieste e provincia, diede il via alle operazioni contro quella slovena”.

Agli inizi di settembre Frausin, Kolaric e Gigante vennero uccisi.

Poco tempo dopo la federazione comunista triestina mutò linea politica e si dichiarò favorevole alle tesi annessionistiche dell’OF sloveno.

Anche a livello internazionale si assiste ad avvenimenti destinati ad incidere sulla storia della città. Tito si incontra in Italia con Churchill e riesce ad ottenere un notevole successo diplomatico rassicurando il premier inglese sul futuro della Jugoslavia – “Tito mi assicurò che, come aveva affermato pubblicamente, egli non aveva alcun desiderio d’introdurre il sistema comunista in Jugoslavia” – e sulle capacità di lotta dell’esercito di liberazione. In una trasmissione da Londra lo stesso re jugoslavo Pietro, costantemente soggetto a pressioni da parte degli inglesi, invita tutti i serbi, croati e sloveni a combattere a fianco delle truppe al comando del maresciallo Tito 11).

“Nel settembre del 1944 Tito e i suoi partigiani” – scrive Novak – “avevano ottenuto una importante vittoria diplomatica e politica. In cambio di vaghe promesse, Tito era stato riconosciuto come l’unico comandante di tutte le unità militari, diventando di fatto il capo della Jugoslavia. Egli aveva ottenuto ciò che voleva. […] Dopo tale vittoria in campo internazionale, Tito ottenne il suo primo grande successo in patria grazie all’avanzata dell’Armata Rossa. Nel settembre del 1944, la Romania e la Bulgaria avevano accettato le condizioni dell’armistizio e le truppe russe si avvicinavano al confine jugoslavo”.

Gli accordi tra Churchill e Tito si inseriscono nel contesto della grande offensiva militare che il maresciallo Alexander aveva scatenato alla fine di agosto. Gli scopi di questa offensiva erano stati chiariti da Churchill in una lettera inviata al generale Smuts: “Con tali forze spero di aggirare e spezzare la linea gotica, di irrompere nella valle del Po e finalmente di avanzare attraverso Trieste e la sella di Lubiana su Vienna. Anche se la guerra finisse tra breve, ho ordinato ad Alexander di essere pronto ad una rapidissima puntata di autoblindo”.

Alla fine di settembre il piano di Churchill sembra ormai inattuabile, sia per l’abilità di Kesselring, sia per la scarsità di mezzi impegnati dagli alleati e ciò spinge il premier inglese ad incontrarsi a Mosca con Stalin per tentare un prima sistemazione ai problemi dei Balcani e dei paesi dell’Europa orientale.

Questi accordi sancirono la perdita d’importanza del settore strategico italiano ed in particolare del Nord-Italia. Come sottolinea Teodoro Sala: “Il trasformarsi della campagna italiana in una guerra di logoramento con il fronte fermo sulla linea gotica, permise alla Germania di avvalersi, fin quasi la fine del conflitto, del potenziale economico dell’Italia a nord del Po, malgrado gli attacchi aerei alleati sui centri di produzione e le vie di comunicazione, la mancata collaborazione contadina e operaia e malgrado soprattutto il nuovo fronte creato dalla guerra partigiana”.

25 agosto 1944

La polizia arresta Gisella Stuparich, quasi novantenne, di religione ebraica, assieme al figlio Giani e alla nuora. Furono rinchiusi nella Risiera per una settimana, finché l’intervento del vescovo Santin riuscì a risolvere felicemente la drammatica situazione intervenendo presso il capo della polizia, gen. Günther.

In Trieste nei miei ricordi lo scrittore dedica poche righe a questo avvenimento. Lo ricorda quasi con pudore: “Per Trieste ero dunque già all’indice, quando ancora nelle altre città d’Italia potevo continuare a pubblicare i miei articoli. Ma se non fosse venuto il luglio del 1943 col crollo del fascismo, i miei nemici l’avrebbero avuta presto vinta su di me. Con l’8 settembre e la calata dei tedeschi, venne anche peggio ed io fui, insieme a mia madre e con mia moglie, sulla soglia del campo d’annientamento. (Ma questo del nostro arresto e della settimana passata nella risiera di san Sabba, è un capitolo che sta fuori del quadro di queste mie memorie, e che forse un giorno scriverò a sé. Mi basti dire che fu la stessa Trieste, da cui mi venne la pugnalata, voglio dire gli altri concittadini che mi volevano bene, ed erano la maggioranza, a insorgere, come già accennai, e a liberarmi dalla SS. Tanto sono vicini i buoni ai malvagi”.

settembre 1944

Le esigenze belliche inducono le autorità naziste a varare un’ordinanza per il servizio del lavoro coatto.

“Il 13 settembre 1944 il prefetto di Trieste e il podestà furono chiamati al Palazzo di giustizia nell’ufficio del dott. Kolhause, capo dell’ufficio economico. […] Comunicò che il Supremo Commissario, in conformità della sua ordinanza del 23 novembre 1943, aveva disposto la chiamata di dodicimila persone residenti nel comune di Trieste per urgenti lavori di carattere bellico da compiersi sul Carso triestino e fiumano, esclusi quanti erano occupati nelle industrie di guerra”.

Così il prefetto Coceani ricorda l’incontro con quel funzionario “caparbio, cocciuto, ottuso”, che anticipò a lui e a Pagnini la decisione presa da Rainer, per timore di un’offensiva nemica su cui circolavano voci sempre più pressanti, di un’immediata mobilitazione per il servizio del lavoro coatto.

Il giorno dopo venne emanato il bando, che prevedeva il reclutamento di 12.000 persone, dai sedici ai sessanta anni di età. Il numero venne poi ridotto a 8.000: erano previsti un salario di 50 lire al giorno ed un periodo di lavoro non superiore alle quattro settimane.

“La pretesa era che la città fornisse dodici mila uomini” – scrive Stelio Millo – “per la costruzione di fortificazioni su una linea difensiva di sbarramento posta sul Carso tra Trieste e Fiume. Nei piani tedeschi, questa linea avrebbe dovuto costituire la protezione ad oriente della vagheggiata “Fortezza Alpina” (“Alpen-Festung”), ultimo baluardo della difesa tedesca in terra italiana abbarbicato sulle posizioni austriache della prima guerra mondiale” 12).

Veniva così estesa al Litorale quella forma di lavoro coatto che si rifaceva al modello della “Organizzazione TODT”, dal nome dell’ingegner Fritz Todt che l’aveva ideata e imposta abilmente nell’Europa in guerra come una vera e propria “azienda governativa”. La decisione di Rainer perfezionò in realtà una serie di provvedimenti che già da tempo le autorità tedesche avevano assunto nel Litorale: fino a quel momento però il reclutamento era avvenuto su base volontaria. Molti giovani triestini si erano in realtà iscritti nelle organizzazioni di lavoro tedesche piuttosto che combattere per l’esercito di Salò: un rapporto del generale Esposito redatto alla fine di aprile segnalava 378 aderenti all’esercito “repubblichino” a fronte di 2.965 che avevano optato per il lavoro nei cantieri.

L’imposizione del “servizio del lavoro” si aggiunge alla mobilitazione decretata dal Supremo Commissariato alla fine di luglio per le classi dal 1914 al 1926 e suscita immediatamente un vivissimo malcontento nella popolazione e tra le “autorità italiane”: il 16 settembre, su 4.000 precetti consegnati si presentarono per prendere servizio circa 400 persone. Qualche giorno dopo le SS operarono un vasto rastrellamento in città, ma i risultati furono ancora una volta molto scarsi.

Il prefetto Coceani ricorda che “la città, nemica com’essa è per carattere di ogni prepotenza ed oppressione, ereditato dai suoi maggiori, si rifiutò di ubbidire agli ordini tanto balordi, dando l’impressione di un’unanime manifestazione di ostilità. Pochissimi si presentarono. I Tedeschi compresero che Trieste non era facile a comandare. Si rinnovava la tradizione dei “pomigadori” che al tempo della dominazione austriaca seppero sottrarsi al servizio militare con ogni sorta di astuzie. Molti si misero a letto, molti si cacciarono nelle cliniche e all’ospedale; denunciarono infermità immaginarie, presentarono attestati medici di nuova e di vecchia data”.

In realtà, la situazione era molto più drammatica, e certi toni “vignettistici” appaiono a dir poco fuori luogo. Come sottolinea Spazzali: “Spesso, fuori dalla retorica e dalla polemica, ci si è chiesto quale poteva essere l’atteggiamento della popolazione della Venezia Giulia, con la guerra in casa, verso una occupazione straniera, le spinte ideologiche e nazionali, la necessità di dover reagire: emerge un’immagine fatta di slanci e di meschinità, di prese di posizione e di rassegnazione, di dinamica e di mesto fatalismo, di titanismo idealista e di necessità di sopravvivenza. Il lavoro coatto non risulterà sempre e comunque il male minore, ma è talvolta la sola via d’uscita possibile in situazioni estreme, dove, in condizioni di reale, quotidiano pericolo, si esercita una spontanea ma efficace resistenza fatta di piccola cose, in grado di minare persino importanti progetti architettati dall’occupante, fino al loro fallimento. […] In un clima moralmente ed economicamente depresso il lavoro coatto finirà per essere accettato e subito senza particolari reazioni. La condizione servile e l’esercizio della corvée ci restituisce un’epoca remota, dove la sopravvivenza è un esercizio quotidiano tra le pieghe degli eventi più che un defilarsi davanti alle responsabilità, poiché la vita in quella condizione è più grama e il peso dell’occupatore si fa insostenibile, specialmente quando sostenuto dallo stolto ed arrogante collaborazionismo. […] Non ci sono mezze misure: chi non ha lavoro o non rispetta i ritmi imposti rischia sanzioni immediate. La traduzione più spicciola dei gutturali ordini è fatta con calci e pugni. Un momento di breve rilassamento può essere interpretato come un atto di sabotaggio, punito con la deportazione in Germania, oppure – nella migliore delle ipotesi – con l’invio in speciali campi di lavoro dove la disciplina è particolarmente severa. Il rischio che si corre è ben evidente e difficilmente si potrebbe comprendere l’adesione alla precettazione se questa fosse stata il solo modo per sottrarsi ad altre gravose scelte”.

Trascorse le quattro settimane nessuno venne rilasciato. “Accantonati in stalle, fienili ed edifici diroccati, colpiti dal freddo dell’incipiente inverno” – scrive Stelio Millo –, “costretti a lavori di fatica e privi di cibo adeguato, molti si ammalarono. Il podestà e il vescovo, dopo una visita a questi sfortunati triestini, rinnovarono ai tedeschi le più vive proteste, mentre il prefetto provvide all’invio di viveri e all’assistenza sanitaria. Finalmente, verso la fine dell’anno, dopo tre mesi di fatiche e di privazioni, i precettati furono rilasciati e poterono tornare a casa. Più tardi, una parte di questi venne nuovamente richiamata per altri lavori di fortificazione sull’altipiano carsico”.

In settembre viene pubblicato in lingua italiana da parte della “Sezione Propaganda” del Comitato popolare di liberazione per l’Istria un articolo scritto dal “ministro degli Esteri” del Comitato nazionale di liberazione della Jugoslavia Josip Smodlaka. Il titolo chiarisce subito la portata del tema affrontato: “Sulla delimitazione dei confini tra la Jugoslavia e l’Italia”.

Dopo aver riassunto i punti salienti della questione, quale si era delineata alla fine della Prima guerra mondiale, Smodlaka sottolinea che i diritti delle popolazioni slave erano stati duramente calpestati già dall’Italia prefascista e che con il Trattato di Roma del 1924 era stata sancita una soluzione per cui “650.000 slavi meridionali” erano stati a forza costretti a passare sotto la sovranità italiana. Era pertanto assurda la pretesa del conte Sforza di riconsiderare il Trattato di Rapallo quale base per giungere ad un accordo definitivo con gli jugoslavi: lo statista italiano continuava a pensare come se fossero passati del tutto invano “25 anni nelle relazioni tra l’Italia e gli slavi meridionali”!

Anche le proposte che in quel periodo Gaetano Salvemini andava avanzando dall’esilio nel suo What to do with Italy vengono rigettate – Salvemini riconosceva l’esistenza di una popolazione compatta di circa 250.000 slavi meridionali che aveva “il diritto a distaccarsi dall’Italia e ad unirsi alla Jugoslavia” – in quanto non prendono in considerazione il fatto che nel territorio da Gorizia al Monte Maggiore gli “slavi meridionali” hanno la maggioranza della popolazione e quindi, “in nome del diritto dei popoli di autodecisione”, il territorio doveva far parte della futura Jugoslavia.

Smodlaka affronta in modo più cauto e articolato la questione di Trieste, riconoscendo che la città aveva una popolazione prevalentemente italiana: “Oltre alla lingua e alla cultura, che ha in comune con l’Italia, Trieste appartiene sotto ogni riguardo alla parte jugoslava dell’Adriatico: tanto per la sua posizione geografica e per i legami di traffico con il retroterra, quanto per le tradizioni marittimo-commerciali. […] Trieste è uno sbocco marittimo naturale per la Jugoslavia settentrionale e occidentale, come per l’intero bacino danubiano, con il quale può avere legame ancora solamente attraverso la Jugoslavia. […] L’Italia con l’annessione di Trieste accontentò momentaneamente i sentimenti nazionalistici italiani; ma successe rapidamente la disillusione con l’amministrazione italiana. Motivo principale di codesto scontento era il regresso economico della città. […] La Jugoslavia porterà alla città una nuova fioritura commerciale. Essa però allo stesso tempo si guarderà dal provocare lo scontento dei triestini su altra linea. Bisogna che gli italiani di Trieste – nella loro città autonoma sotto la sovranità della Jugoslavia – si sentano nazionalmente altrettanto soddisfatti e garantiti come se vivessero in un proprio stato indipendente”.

Le tesi di Smodlaka verranno riprese alla fine di settembre con particolare solennità da Tito durante le celebrazioni per il secondo anniversario della fondazione di una brigata partigiana: “Ci avviciniamo al momento in cui sarà necessario parlare di confini della nostra patria. Durante questa lotta non abbiamo parlato mai di ciò. Oggi però debbo dire qualche parola in merito. La nostra Nazione ha lottato e lotta anche per la liberazione di quei nostri fratelli che per decine d’anni vivevano sotto il giogo fascista. Questi sono i nostri fratelli dell’Istria, del Litorale Sloveno e della Carinzia. […] Questo è il nostro desiderio ed è anche il desiderio di loro stessi. Non vogliamo nulla di ciò che è straniero, ma non rinunciamo a ciò che è nostro”.

ottobre 1944

Sullo sfondo del nuovo scenario militare, che vedeva la rapida avanzata dell’Armata Rossa nel cuore dei Balcani e l’imminente conquista di Belgrado da parte dell’esercito di liberazione di Tito, va inserito e valutato l’accordo stretto tra Edvard Kardelj e Palmiro Togliatti, neosegretario del Partito comunista italiano, che sanziona al massimo livello il cambiamento di strategia da parte dei comunisti italiani 13).

Il 19 ottobre Togliatti invia a Vincenzo Bianco, uno dei massimi dirigenti del partito, un documento “interno” contenente una serie di direttive. Al primo punto si sosteneva: “Noi consideriamo come un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito. Questo fatto significa che in questa regione non vi sarà né un’occupazione inglese, né una restaurazione dell’amministrazione reazionaria italiana, cioè si creerà una situazione profondamente diversa da quella che esiste nella parte libera dell’Italia, si creerà una situazione democratica, in cui sarà possibile distruggere a fondo il fascismo e organizzare il popolo tanto per la continuazione della guerra contro gli invasori tedeschi, quanto per la soluzione di tutti i suoi problemi vitali”.

Al terzo punto della lettera Togliatti affrontava la questione di Trieste: “Questa direttiva vale anche e soprattutto per la città di Trieste. Noi non possiamo ora impegnare una discussione sul modo come sarà risolto domani il problema di questa città, perché questa discussione può oggi soltanto servire a creare discordia tra il popolo italiano e i popoli slavi. Quello che dobbiamo fare è, d’accordo con i compagni slavi e nella particolare situazione che si sta creando in quella regione, portare il popolo di Trieste a prendere nelle sue mani la direzione della vita cittadina, garantendo che alla testa della città vi siano le forze democratiche e antifasciste più decise e disposte alla collaborazione più stretta con il movimento slavo e con l’esercito e l’amministrazione di Tito. I nostri compagni devono comprendere e fare comprendere a tutti i veri democratici triestini che una linea diversa si risolverebbe, di fatto, in un appello alla occupazione di Trieste da parte delle truppe inglesi con tutte le conseguenze che ciò avrebbe (cioè disarmo dei partigiani, nessuna misura seria contro il fascismo, nessuna democratizzazione, ecc…)” 14).

Lo stesso giorno Kardelj aveva spedito da Bari una lettera per annunciare che Togliatti aveva accettato senza discutere l’annessione di Trieste alla Jugoslavia, chiedendo solo in cambio che agli italiani venissero assicurati tutti i diritti. “Si ha la sensazione” – osserva Apih – “che gli Jugoslavi cercarono di mettere di fronte al fatto compiuto i compagni italiani, ancora incerti su un problema così delicato”.

I risvolti a Trieste di questo cambiamento di rotta si ebbero immediatamente, come ricorda Bogdan Novak: “Il rappresentante comunista del CLN chiese nell'ottobre del 1944 che il CLN riconoscesse che la maggioranza della popolazione del Litorale sloveno, compresi gli italiani, aveva domandato di essere unita alla nuova Jugoslavia democratica, e chiese che fosse ammesso nel CLN di Trieste un rappresentante del Fronte di liberazione sloveno. Essendo state respinte queste due richieste, i comunisti italiani di Trieste abbandonarono il CLN. Questo fu un avvenimento importante”.

Era stato Giuseppe Gustincich, il nuovo rappresentante dei comunisti nel CLN – il cosiddetto “III Comitato di Liberazione” – a dichiarare apertamente che “la popolazione italiana della Venezia Giulia considerava con favore l’annessione di queste terre alla Jugoslavia”.

31 ottobre 1944

I partigiani jugoslavi entrano a Zara; la città era già stata bombardata e quasi distrutta dagli aerei angloamericani (secondo alcune ipotesi, peraltro non confermate, il bombardamento sarebbe avvenuto su richiesta jugoslava) e il timore del ripetersi dei fatti drammatici che erano seguiti al crollo del fascismo aveva portato alle prime partenze dalla Dalmazia e dal Quarnaro.

Si era trattato, per Zara, di un vero e proprio “sfollamento di massa” – come lo chiama Raoul Pupo – che dopo l’occupazione jugoslava si sarebbe trasformato in esilio: i pochi italiani rimasti, infatti, partirono ben presto anch’essi per sfuggire al clima di violenze e di intimidazioni.

dicembre 1944

I partiti che compongono il CLN sottoscrivono un “patto” che rivendica l'appartenenza della città all'Italia, l'autonomia della regione, la garanzia dei diritti nazionali, la funzione internazionale del porto, ma non parla di autodecisione – come il Partito d'Azione guidato da Ercole Miani e i socialisti con Carlo Schiffrer avrebbero preferito – e dichiara accettabili solo limitate modifiche territoriali. Il documento è firmato alla presenza di due membri di una missione giunta da Milano.

I punti fondamentali di questo “patto”, siglato dai “rappresentanti giuliani del Partito d’Azione, del Partito socialista italiano, della Democrazia cristiana e del Partito liberale” sono:

1) L’appartenenza della Venezia Giulia all’Italia va considerata come “un problema in linea di massima risolto e definito nell’interesse della comunità europea”;
2) Per favorire la “collaborazione fraterna” tra italiani e jugoslavi garantire in ogni modo i diritti delle due nazionalità, quella italiana e quella jugoslava, nel quadro della realizzazione delle quattro libertà proclamate dalla Carta Atlantica, “statuto per la nuova Europa che sta risorgendo”;
3) Impegno a sostenere nella futura Costituente italiana “la necessità della più ampia autonomia della Regione Giulia secondo il principio democratico e le specifiche esigenze politico-economiche”;
4) Centralità della posizione di Trieste, “centro naturale della Regione Giulia, la cui efficienza è condizione essenziale di vita e di prosperità non solo per la popolazione cittadina, ma anche di tutta la regione, poverissima di risorse naturali. I partiti menzionati propugneranno quindi la trasformazione di Trieste in un porto veramente franco, cioè in un emporio libero a tutte le bandiere”.

Il porto dovrà essere governato da un Ente portuale che dovrà garantire ad ogni popolo interessato “il libero esercizio della navigazione, dell’industria e del commercio entro l’emporio triestino”. La funzione internazionale viene particolarmente sottolineata. “Eccezion fatta per la questione dei confini” – commenta Apih – “si tratta di quelli che sono tuttora i cardini del dibattito politico locale, eredità di un secolo e mezzo di storia”.

La forza del CLN era però nella posizione di principio che rappresentava, di volontà nazionale italiana, condivisa molto al di là dei gruppi e delle persone che facevano capo ad esso. Sul piano politico-diplomatico l'organismo conta ben più che su quello militare. “Era importante la questione di chi avrebbe gestito l'amministrazione dopo l'uscita dei Tedeschi, soprattutto nel caso di un'occupazione alleata”.

“Oltre alla propaganda ideologica e politica, il CLN triestino” – scrive Fogar, la cui analisi riflette le posizioni caratteristiche del Partito d’Azione – “prepara con il concorso del prof. Carlo Schiffrer, del Paladin, di Ercole Miani e la collaborazione degli scrittori Silvio Benco, Quarantotti Gambini e Giani Stuparich una serie di documentazioni, articoli, saggi ed opuscoli di indirizzo storico, etnico, economico, che sono diffusi per controbattere la propaganda avversaria. La parte migliore della cultura triestina partecipa così, nel clima cupo e pesante della città assediata, ad una difficile battaglia spirituale e politica che l’impegna sia nell’opera di difesa nazionale che nella resistenza al nazifascismo. Il poeta gradese Biagio Marin, entrato nella vita clandestina, rappresenterà nel quarto CLN il Partito liberale italiano”. Sulla questione nazionale si giocava in realtà una carta molto importante e non a caso proprio su questo versante la posizione del CLN era maggiormente delicata: alle sollecitazioni che arrivavano da parte della resistenza jugoslava e dalle forze comuniste si aggiungevano ora pressanti avances che i collaborazionisti rivolgevano al CLN per una lotta comune di tutti gli italiani non in funzione antitedesca, ma in funzione antislava.

Per questi motivi si moltiplicano gli appelli al CLNAI e al governo italiano per indurre gli alleati a muoversi verso Trieste. Era ferma convinzione degli uomini del CLN, infatti, che solo un pronto intervento degli angloamericani avrebbe potuto evitare l’occupazione dell’esercito di Tito. Per il prof. Giovanni Paladin, che aveva sostituito Felluga nel CLN, e per gli altri esponenti italiani “il dilemma era chiaro: il primo occupante avrebbe determinato il destino della Venezia Giulia. Per questo motivo i nostri appelli al CLNAI finivano sempre col ritornello: sollecitate gli angloamericani a prevenire la progettata occupazione jugoslava”!

Nel frattempo gli scontri armati tra truppe tedesche e gruppi partigiani si fanno sempre più intensi in numerose località del contado e soprattutto a Longera. In questa zona si trasferisce la squadra speciale di polizia agli ordini dell'ispettore Gaetano Collotti, che continuò la sua opera di repressione con i metodi di tortura da tempo tristemente noti.

1945

Un manifesto clandestino del Partito d’Azione ricorda ai triestini il “martire” Gabriele Foschiatti, morto a Dachau poco tempo prima: “Era un autentico repubblicano, un garibaldino […]. Nemico di ogni nazionalismo, germe di guerra, nemico di ogni specie di sopraffazione, vestì la camicia rossa per accorrere, negli anni giovanili, a difesa dei popoli oppressi, che anelavano la libertà, a difesa del popolo greco, di quello albanese, di quello serbo. […] Quando nel settembre del 1943 l’Italia e Trieste con essa fu invasa dalle orde teutoniche, egli additò ai triestini ed agli italiani giuliani, la via della salvezza nella lotta contro il secolare nemico d’Italia, e, nei suoi scritti, gioviali gioielli di pensiero e di stile: “Il problema nazionale della Venezia Giulia” e “Fede Unitaria”, egli dettava gli orientamenti politici a valere nella nuova situazione per la nostra gente. […] Era mazziniano, ma l’esperienza delle cose modificò le sue teorie e gli rinsaldò nella mente il concetto federativo. Egli temeva per Trieste i danni dell’accentramento. Studioso delle opere dei grandi rivoluzionari italiani Carlo Cattaneo, Carlo Pisacane e Giuseppe Ferrari, voleva che fossero rispettate le particolarità e le funzioni speciali della nostra regione e che questa fosse avviata liberamente al progresso nel modo più conforme alle sue esigenze, con una ampia autonomia e con l’unione alla nazione italiana con vincolo federale. Egli era progressista nel senso vero della parola. Tutto il suo amore era per il popolo lavoratore; egli ne sentiva l’anima, i dolori e le speranze e ne auspicava la totale redenzione e la piena conquista della società. […] Compagni! Giuriamoci di interamente adoperarci perché il popolo italiano libero fino ai termini estremi suoi etnici ed il libero popolo jugoslavo, ambedue franchi da ogni nazionalismo mortale nemico della pace, possano sinceramente collaborare ed uniti esplicare la missione loro assegnata nella federazione europea delle nazioni emancipate”.

L’inverno del 1945 vede l’allargarsi sempre più sensibile della resistenza armata ai confini orientali della città e l’incapacità delle autorità italiane di opporre una qualsiasi strategia che vada al di là di qualche sporadico scoppio di violenza repressiva.

Ne è testimonianza un “manuale” per la lotta contro le “bande” curato da un corrispondente di guerra delle SS e reso in qualche modo ufficiale dalla presentazione di Odilo Globocnik. Il fatto che lo scritto sia accompagnato dalla dicitura “Die Schrift ist nur für den Dienstgebrauch bestimmt und als Verschlußsache zu behandeln” (“Destinato soltanto ad uso interno: deve essere considerato come documento strettamente riservato”) testimonia l’intento dell’autore di esprimersi con grande libertà e la certezza di poter influenzare concretamente sulla situazione. È sua ferma convinzione, come anche di Globocnik, che i tedeschi devono dapprima annientare la guida politica delle “bande” (“Banden”: così venivano chiamati i gruppi combattenti della resistenza) per poi dare un risposta “politica” ai gravi problemi che tormentavano da tempo queste regioni. Problemi che la politica repressiva e snazionalizzatrice dei Savoia aveva creato all’indomani della guerra e che l’invasione del 1941 aveva drammaticamente esasperato con il maldestro tentativo di imporre l’imperialismo italiano. Un compito che può spettare solo alle truppe tedesche, data l’inettitudine degli italiani che collaborano con il Terzo Reich; anzi il “morale di combattimento” degli italiani viene considerato ancora meno di quello dei croati, che certo il “SS-Kriegsberichter” non mostra di apprezzare!

Nei primi mesi dell’anno si moltiplicano i tentativi dei collaborazionisti, dei nazionalisti e dei fascisti locali di spaccare l’unità delle forze partigiane, rispolverando il vecchio spauracchio del pericolo “slavo” e riproponendo la carta del “blocco nazionale”. Li guidano ancora una volta il prefetto Coceani e il podestà Pagnini. Come scrive Fogar “Lo schieramento partigiano e cospirativo, diviso all’interno, resta nel suo complesso unito di fronte al nemico: il quale non potrà contare neppure su tardivi ripiegamenti verso posizioni collaborazioniste o neutraliste in nome dell’anticomunismo, per quanto forte sia il contrasto tra i comunisti e i non comunisti”.

Questa unità di intenti fu indubbiamente favorita dal fatto che collaborazionisti e fascisti non ebbero mai il coraggio di rompere con le truppe tedesche e con la violenza ormai incontrollata del nazismo.

Uno dei punti, forse il più importante e delicato, sul quale si sviluppano le polemiche tra i comunisti e i non comunisti in questi primi mesi del 1945 era sempre la questione del futuro nazionale di Trieste. Il CLN fa circolare numerosi manifesti che affrontano senza mezzi termini questi problemi e che sono rivolti agli “operai italiani” perché non si lascino convincere dalle parole d’ordine portate avanti dalla resistenza slava.

Da una parte si denuncia che “l’esecrando imperialismo nazionalista fa di nuovo capolino e si assiste oggi, specie nei cantieri triestini, ad un’ipocrita propaganda che vorrebbe persuadere gli italiani della Venezia Giulia a rinnegare la Madrepatria italiana per consegnarsi ad una federazione jugoslava”; dall’altra si ricorda che all’inizio del conflitto i Cantieri Riuniti dell’Adriatico davano lavoro a ben 20.000 operai e che quindi “quasi centomila persone nella zona ricavavano i mezzi di sostentamento dal complesso industriale cui l’Italia aveva dato vita”.

Il 24 aprile esce a firma del Partito d’Azione un manifesto indirizzato ai “Lavoratori triestini” in cui si sostiene che da un’annessione di Trieste alla Jugoslavia non ci si può attendere che la rovina dell’emporio: “Perciò abbiamo il coraggio di affermare che l’incorporazione di una città quale è Trieste in uno stato jugoslavo costituirebbe, in definitiva, la riduzione in schiavitù economica e sociale dei triestini, i quali si vedrebbero cacciati e posposti nelle aziende, nelle fabbriche, negli uffici e sulle navi”.

febbraio 1945

La conferenza di Yalta tra Stalin, Roosevelt e Churchill modifica la strategia degli angloamericani nei Balcani, soprattutto in seguito agli imprevisti sviluppi dell'offensiva sovietica nel centro-Europa.

La speranza di Churchill di anticipare l'arrivo delle armate sovietiche nei Balcani e di porre sotto il controllo angloamericano tutta la zona era ormai svanita da tempo. Agli inizi del 1945 tutt'al più si poteva discutere sul futuro dell'Austria, perché, come racconta lo stesso Churchill, “era indesiderabile che una parte dell'Europa occidentale, superiore al necessario, fosse occupata dai russi”.

Che i tempi fossero cambiati, vanificando il disegno strategico di Churchill, lo dimostra anche l'isolamento in cui venne a trovarsi la delegazione inglese quando, per salvare parte della Venezia Giulia dall'occupazione comunista ed evitare una futura pericolosa controversia internazionale, Anthony Eden propose una linea di divisione che evitasse ogni scontro tra italiani e jugoslavi: la proposta inglese venne respinta sia da Stalin che da Roosevelt. Su questo punto, anzi, il Dipartimento di Stato americano si espresse in modo inequivocabile: “The province of Venezia Giulia in the northeast of Italy is a potential powder magazine”.

Una proposta dello stesso tenore fu rivolta dal maresciallo Alexander, responsabile del fronte alleato in Italia, a Tito ed ottenne un analogo rifiuto.

Come precisa Teodoro Sala: “A Yalta fu solo possibile, tra l'altro, raggiungere un accordo di massima sulle zone di occupazione in Austria e su un regime misto di controllo a Vienna. Di qui la nuova funzione sussidiaria che Trieste veniva ad assumere nei piani angloamericani”.

7 febbraio 1945

“Venni arrestato dal Collotti la sera del 7 febbraio 1945 alle 10, mentre impaccavo documenti e denaro per trasferirmi in un altra sede, procuratami dal Signor Reti, presso i Padri Spagnoli. Egli infatti aveva saputo che i nazifascisti erano sulle mie tracce. Non ricordo esattamente di quali documenti essi si impadronirono, ma certo è che poterono contestarmi la mia qualità di presidente del CLN e si mostrarono informati di parecchi nomi. Ignoravano però i veri esponenti dei partiti. Il Collotti prima, e i tedeschi poi, insistettero lungamente per avere queste informazioni, ma potei eludere le domande, dichiarando che tutti avevano nomi fittizi. Poco dopo venne arrestato il Reti”.

Così il sacerdote Edoardo Marzari ricorda il momento del suo arresto. Dalla prigione riuscì a far filtrare una pagina di appunti che giunse al vescovo: “Giunto all’Ispettorato, odo poco dopo gli urli di Miani sotto la tortura. S. [Un «certo S.» guidava il gruppo che aveva fatto irruzione nella sede di via Battisti e lo aveva arrestato] mi conduce in una stanzetta. Mi dice che Miani sotto la tortura ha parlato, che certo Bakulis per 100.000 £. ci aveva traditi. […] E mi cita una serie di particolari esattissimi. […] Entra Collotti. Ripete brevemente quanto sopra. Io gli manifesto lo spirito di alto sentire umano, cristiano e italiano della nostra azione; lo rimprovero per l’infamia che attirava sul nome italiano coi suoi procedimenti e particolarmente con le sevizie fatte a Miani. […] Egli si irrita, m’insulta, mi fa spogliare l’abito talare e condurre alla tortura. Vengo legato ad una poltrona, mani, piedi, busto, avambraccia. Poi cominciano le tremende scariche elettriche alle varie parti del corpo. Si vuol sapere i nomi dei vari componenti il Comitato, del comandante militare, dei capi e dei membri più in vista dei vari partiti, dei finanziatori; i luoghi dove sono depositati i danari, i rapporti con i comunisti, con l’OF, col Podestà e con il Prefetto. Ho resistito senza urlare e rammentando i miei doveri di sacerdote”.

Pochi giorni prima della Liberazione Paolo Reti venne fucilato e cremato in Risiera.

Il colpo inferto al CLN triestino fu gravissimo, in quanto oltre a don Marzari e a Paolo Reti, rispettivamente segretario e vice segretario, vennero catturati i due capi militari – Ercole Miani del Partito d’Azione e il democristiano Carlo dell’Antonio – il capo del gruppo sabotaggio, Arturo Bergera. Pochi giorni prima erano stati arrestati gli azionisti Mario Maovaz e Ferruccio Lauri. Gran parte degli arrestati venne torturata dagli uomini della “banda” Collotti, che volevano con tutti i mezzi ottenere informazioni sull’organizzazione clandestina degli antifascisti triestini.

Si apriva così, come sottolinea Teodoro Sala, “una nuova crisi per la resistenza italiana […]. L’attività degli organi repressivi raggiunge, in questa fase cruciale, un’ampiezza e una violenza raramente riscontrate prima. […] L’opera di fiancheggiamento degli organi investigativi fascisti è per i tedeschi utilissima ed apre larghi vuoti nel movimento triestino aggravandone le inevitabili crisi di logoramento ed alimentando in alcuni strati popolari anche un sentimento di esasperazione verso il fascismo e, indirettamente, verso l’Italia che i fascisti dichiaravano di rappresentare. […] Il clima di guerra divenne così più pesante sulla città. Furono effettuate persino irruzioni negli uffici parrocchiali. Nel mese di febbraio poi si intensificarono i bombardamenti alleati con molte vittime e danni. Solamente alla fine del febbraio 1945 fu possibile ricostituire quello che nel tempo fu il quarto CLNVG”.

febbraio – marzo 1945

Si infittiscono i colloqui e le pressioni da parte di uomini di governo italiani sugli alleati in merito alla situazione triestina e giuliana: ripetutamente il ministro degli Esteri De Gasperi chiede all'ambasciatore americano che gli alleati occupino tutta la Venezia Giulia.

In realtà, con il passare del tempo, gli inglesi e gli americani diventavano sempre più restii a farsi coinvolgere in dispute nazionali che non li riguardavano. In particolare gli inglesi avevano alle spalle la bruciante esperienza della Grecia, dove le truppe di sua maestà si erano trovate direttamente coinvolte nello scontro armato tra formazioni comuniste e anticomuniste; analogamente gli americani, memori degli effetti del Patto di Londra del 1915, non intendevano impegnarsi in riconoscimenti pregiudiziali.

Per questi motivi a Yalta non si andò al di là dell'elaborazione di alcuni progetti interlocutori, finalizzati alla normalizzazione dei rapporti italo-jugoslavi.

25 marzo 1945

La situazione della città appare per tanti aspetti paralizzata e in preda a profonde lacerazioni.

Così Hermann Pirich, un redattore della Deutsche Adria-Zeitung, descrive l'umore prevalente tra i triestini in un articolo intitolato “Dedica cortese”. Dopo aver ricordato che “Qui neanche le autorità competenti né gli interessati riescono a sapere con precisione a quale ceppo nazionale uno appartenga” e che questo fatto crea non pochi problemi in quanto molti – anzi questo è “il caso più comune” – hanno madre slovena e padre croato e sono stati educati come italiani e quindi “tre nazioni fanno valere su di lui il «diritto di proprietà»”, aggiunge che esiste nella città una vera babele di indirizzi politici e di diverse “concezioni del mondo” che “non tralasciano di combattersi reciprocamente ad oltranza. Al primo posto, tra gli Italiani autoctoni, vi è il partito dello struzzo, come a noi piace chiamarlo. Esso è senz’altro il partito più forte, anche se non conta nemmeno un iscritto. La sua caratteristica fondamentale è un’assoluta necessità di tranquillità politica. Questo è, per così dire, il punto numero uno del suo programma non scritto, mentre il punto due già contempla la già contemplata molto vaga previsione che la prima nave inglese che qui gettasse l’ancora vi giungerebbe trasportata da un’onda di lucenti ducati. È necessario, pertanto, prepararsi per quel momento che permetterà a tutti di diventare, per l’eternità ricchi e felici. È una specie umana che potrebbe essere definita infantile, puerilmente romantica nonostante il suo freddo ingegno. Soltanto una cosa essa teme come l’inferno: il bolscevismo e, soprattutto, qualunque radicalismo politico. Ma gli angloamericani saranno certamente i più veloci di tutti, convinzione questa che è il suo segreto conforto, perché essi, in definitiva, non hanno alcun altro obiettivo bellico se non quello di fare di Trieste il paradiso in terra. Ci si domanda chi, sempre di questo partito, spalancherà alfine gli occhi, come un religioso estasiato, di fronte al fatto che il grande avvenire assegnato alla sua città si sta facendo aspettare un po’ troppo a lungo. Certamente egli non si rompe in anticipo la testa al pensiero delle più immediate “modalità esecutive”, affinché la volontà divina possa compiersi. Ora, quantunque questo sia di gran lunga il partito più grande, esso non riveste alcuna importanza significativa in quanto è quello i cui aderenti, per l’educazione ricevuta, il modo gentile di vivere, il loro senso ospitale, rappresentano, per così dire, lo strato d’olio lenitivo che galleggia sulle onde agitate delle molteplici locali diversità di opinioni riguardanti l’identità nazionale, la politica e la concezione del mondo. Oltre ad esso, vi sono poi ancora i fascisti e, naturalmente, anche i comunisti, un paio di gruppetti di fedeli monarchici e, infine, quelli più difficili da classificare in un qualche campo: i “patrioti”, come essi stessi amano definirsi, i quali sono contro tutti, tanto sono scontenti di Dio e del mondo. L’altra nazionalità, che determina il molteplice carattere di quest’area, è rappresentata dagli sloveni. Politicamente essi si possono suddividere in tre gruppi: nei nazionalisti clericali ed in quelli liberali da una parte e, dall’altra, nei bolscevichi e nei loro mansueti montoni compagni di corsa. Di questi gruppi si odiano tra loro soprattutto i clericali e i bolscevichi, sino al punto che l’unico aggettivo attribuibile a quest’odio è quello di “infernale”. Il gruppo, a loro confronto decisamente più esiguo, quello dei liberali, per via dell’incombente minaccia del pericolo bolscevico ha stipulato un patto di “non aggressione” con i clericali; tuttavia entrambi, in definitiva, non si possono reciprocamente sopportare. […] Tuttavia tutti e tre sono però, come non mai, concordi su un punto: sui loro sentimenti, non proprio affettuosi, nei confronti del loro vicino occidentale, dal quale non sono certamente meno sinceramente ricambiati. In maniera analoga si comportano in questo, ed anche sotto un altro aspetto, i croati. Sotto un altro aspetto, in quanto è noto che due croati, come minimo, costituiscono tre partiti. Essi sono degli spiccati individualisti e, pertanto, è particolarmente difficile poterli mettere d’accordo. Tutti vogliono così, ad ogni costo, essere indipendenti. Ma indipendenti non soltanto dai serbi, ma in egual misura anche dagli ungheresi, dagli italiani, dai bolscevichi e sa Dio ancora da chi. In definitiva, ogni singolo desidererebbe costituire uno stato a sé stante e, in nessun caso, avere sopra di sé un signore che non sia stato da lui riconosciuto, come tale, in maniera personalissima. […] Differentemente compatti, provati ed induriti sono, per contro, i serbi, già dotati di una forza d’urto politica nella lotta per la propria indipendenza nazionale. […] Essi sono degli spiccati attivisti di una stupevolmente chiara linea apolitica, sulla quale non vi è alcunché da sofisticare. Splendidi tipi di soldati, […] i cetnici che, unitamente ai non da meno militi della difesa territoriale slovena, alle unità delle altre nazioni e, non ultimi, ai cosacchi, costituiscono oggigiorno una caratteristica nel variopinto quadro che il Litorale Adriatico offre quasi ovunque. Tante nazioni, tante differenze e forze che, sovente, vengono contrapposte. Nonostante tutto ciò, non si verifica alcun caso che potrebbe far scoppiare, alla stessa maniera di un vulcano, tutte le ricordate passioni nazionali e politiche. E questo perché sopra tutte dette forze governa, intelligentemente disponendo, la mano germanica, che costituisce la più recente dimostrazione di come la Grande Germania rappresenti in un’epoca, che deve essere annoverata come la più difficile e la più critica, l’unica, reale potenza in grado di mantenere l’ordine in Europa. Non c’è in Europa terreno più infuocato di quello racchiuso tra le Alpi, il Carso e l’Adriatico. Chi lo calpesta, se non vuole bruciarsi i piedi, deve indossare stivali molto robusti, solidi al pari dei nostri scarponi da montagna. Con cortesia e gentilezza, noi desideriamo trascrivere queste parole nel libro della storia di Trieste. Forse soltanto una generazione futura riconoscerà la loro profonda verità”.

Commentando questo articolo, Enzo Collotti ricorda che anche il Bandenkampf di H. Schneider-Bosgard, uscito all’inizio del 1945, si apriva con parole quasi eguali: da entrambi i testi risultavano evidenti sia il disprezzo dei nazisti nei confronti degli italiani, sia la ferma convinzione della assoluta necessità della presenza dei tedeschi per “pacificare la zona prima ancora che dalla guerra partigiana dai conflitti nazionali, attuali e preesistenti”.

Sull’altro versante, Vincenzo Bianco, inviato dalla direzione del PCI nella Venezia Giulia come delegato con pieni poteri, ci dà una descrizione particolareggiata e senza enfasi della situazione in cui si trovava il movimento partigiano comunista: “Situazione particolare delle zone miste della Venezia Giulia. La situazione dei due partiti, 24-3-1945. Movimento partigiano. Abbiamo circa 3 mila volontari Garibaldini, suddivisi come segue: Div. Garibaldi-Natisone: 1.200, Triestina: 500, Fontanot: 800, battaglione “Alma Ivoda” [sic!]: 250, il resto nei vari servizi. Tutti sono integrati nell'esercito di Tito, secondo la decisione del CC in data 19. 10. 44. I triestini, o abitanti delle zone miste, saranno a dire molto mille in tutto. Il resto sono friulani e di tutte le regioni d'Italia comprese le isole. Gli iscritti al partito sono circa 500, tutti recenti, meno una diecina venuti molto prima della caduta del fascismo. Le tre più grandi unità hanno il loro giornale o Bollettino. Con la loro integrazione nell'esercito di Tito, ogni unità ha una Sezione politica che dirige e controlla l'attività di partito. Il lavoro di massa è compito del Commissario. Il F. della G. [Fronte della Gioventù] Antifascista esisteva solo nella Divis., ma dopo la integrazione, su richiesta degli sloveni, si va trasformando in movimento giovanile comunista, in quanto che gli iugoslavi [sic!], considerano tutti i giovani volontari dell'esercito antifascisti, perciò essi in massa fanno parte della G. anti. di Jugoslavia. I collegamenti con il movimento giovanile italiano, vengono tenuti dalla Federazione di Udine. I compagni slov. acconsentirono che il Tricolore con la Stella rossa, fosse la Bandiera delle Unità italiane. Per i gradi e i distintivi dei CLN, la questione era ancora in pendenza al Comando supremo. Però gli slov. esigono che i distintivi del CLN fossero aboliti. È una questione su cui si può e si deve discutere. Il movimento partigiano, salvo l'afflusso dell'agosto scorso, come vedete nelle zone miste è debolissimo. Di tutti i partigiani, la massa degli indisciplinati è data in primo luogo dai triestini. Nel dicembre 44 (il 27) il III bat [battaglione] della “Triestina” composto nella sua maggioranza di triestini e di italiani delle zone miste, durante un attacco si squagliò completamente. Parecchi passarono al nemico, la maggioranza cercò di raggiungere le proprie case. Parecchi furono riammessi nelle file del partito Monfalcone-Muggia. Il male peggiore è che tutti questi disertori fanno opera disfattista, senza che ci sia una controreazione da parte nostra. Tali fatti creano molto disagio nei rapporti con gli slov., a danno della maggioranza che è rimasta al loro posto di lotta. Dovetti intervenire per fargli comprendere che di italiani ce ne sono di due specie come di jugoslavi”.

aprile 1945

Gli eventi militari nel cuore dei Balcani inducono le forze alleate – soprattutto dietro pressione degli inglesi – ad affrettare la corsa verso Trieste per prevenire l'avanzata del blocco comunista orientale. La rapida avanzata delle truppe sovietiche aveva infatti sorpreso tutti e per di più il trattato di amicizia stipulato all'inizio del mese tra Tito e l'Unione Sovietica era apparso come un ulteriore appoggio sovietico alle tesi annessionistiche degli jugoslavi.

Churchill aveva sempre attribuito una grande importanza strategica alla Venezia Giulia, ma il suo piano di uno sbarco sulla costa nord-orientale dell'Adriatico aveva incontrato l'opposizione degli Stati Uniti, che non intendevano sottrarre forze al fronte francese. Nell'aprile del 1945 egli si rivolge al nuovo presidente americano Truman con più fondate speranze: “Il suo predecessore ha sempre attribuito una grande importanza a Trieste, che riteneva dovesse essere un porto internazionale che formasse una zona libera nell'Adriatico rispetto a tutte le regioni del bacino del Danubio. Ci sono molti punti da considerare in merito, ma la possibilità che ci sia una zona libera rivolta a sud sembra di grande rilievo per il commercio di molti stati interessati.
La cosa essenziale è essere sul posto prima dell'occupazione da parte dei guerriglieri di Tito. Perciò non mi sembra ci sia un minuto da perdere. Lo status effettivo di Trieste può essere determinato a piacere. Il possesso dà i nove decimi del diritto. La invito a una rapida decisione. […] Il piano per l'occupazione angloamericana della Venezia Giulia è stato rimandato a Washington per un tempo considerevole, con il risultato che il maresciallo di campo Alexander è ancora senza ordini. Le sarei perciò estremamente grato se volesse rivolgere a ciò la sua attenzione”
.

Anche a Trieste il problema dei futuri assetti nazionali di queste terre continua ad essere al centro del dibattito politico ed a creare divisioni all’interno dello schieramento comunista. Nell’aprile 1945, sulle colonne di Rinascita, il periodico del PCI, compare una lucida analisi della questione triestina a firma di un “Tergestinus” che non vuole essere identificato:
“Qualora si scorra la storia di Trieste, si rileva immediatamente il tragico contrasto che è alla base stessa della sua vita: il contrasto fra la lingua, la cultura e, in buona parte, la tradizione che la portano ad essere italiana e l'imperativo geografico ed economico che la portano ad essere straniera. […] Bisogna ben ricordare che se Trieste è italiana di lingua e di sentimenti, dal punto di vista economico è strettamente collegata al retroterra centro-europeo: qualunque soluzione che non tenesse conto di questi due elementi, sarebbe una soluzione incompleta, e porterebbe con sé fatalmente o la snazionalizzazione della città, o la sua rapida decadenza e morte economica. […]
Qual è la situazione attuale della Venezia Giulia? […] Quanti siano gli appartenenti alle due nazionalità è difficile dire, ma si può ritenere che di fronte a 450-500.000 italiani stiano 550-600.000 tra sloveni e croati. È inutile star qui a dimostrare che Trieste e gli altri centri urbani siano italiani: questo non è messo in dubbio neppure dagli slavi stessi, che si basano, per le loro rivendicazioni, essenzialmente su argomenti economici.
Bisogna però ricordare alcuni altri elementi. In primo luogo non si può parlare in genere per la Venezia Giulia di popolazioni bilingui, tali cioè da potere, in determinate circostanze, giocare nei calcoli statistici. È bensì vero che quasi tutti gli sloveni sanno parlare anche l'italiano o il dialetto triestino, ma non perciò cessano di sentirsi slavi.
Alla divisione di nazionalità si accompagna spesso e qualche volta si sovrappone una divisione sociale: molto spesso gli italiani sono i professionisti, i piccoli proprietari, i piccoli industriali, mentre gli slavi sono i contadini, gli operai, gli artigiani, sì che alle rivendicazioni di nazionalità si sovrappongono rivendicazioni di classe, in modi così accesi da trarre alle volte nel campo avverso anche proletari italiani. […]
È questo un fatto di cui si dovrà tener ben conto, specie se nella Jugoslavia i partiti di sinistra manterranno il sopravvento, mentre in Italia si continuasse a non riuscire a liberarsi delle molte scorie fasciste. […]
Ciò che noi dobbiamo raggiungere è una soluzione che:
1) salvi la lingua, la cultura, la tradizione italiana, non solo di Trieste, ma di tutte le città italiane della Venezia Giulia;
2) dia alla città di Trieste e alla regione la possibilità di vivere, tenendo conto della sua posizione geografica e delle sue necessità economiche;
3) attenui il più possibile le ragioni di contrasto tra slavi e italiani, così acuitesi in quest'ultimo tempo e non faccia sì che in un futuro più o meno lontano la questione di Trieste debba essere l'origine di una nuova guerra”
.

19 – 30 aprile 1945

Si intensificano i tentativi degli ambienti fascisti e collaborazionisti locali di mettere in piedi un “blocco italiano” contro la minaccia di un’occupazione della città da parte delle truppe slave. Il periodico fascista locale, L’Italia repubblicana, mena la danza, cui partecipano anche Pagnini e Coceani: “L’Unione degli Italiani rigida e fattiva e non minata da odio di parte è il cardine sul quale può ancora giocare la nostra sorte”. “La minaccia all’integrità del nostro territorio nazionale deve trovarci pronti e risoluti ad opporci alle mire bolsceviche delle bande partigiane di Tito”.

I ripetuti tentativi di coinvolgere in questo blocco gli uomini del CLN fallirono tutti. Secondo Coceani, che si attribuisce gran parte del merito di questo tentativo, la responsabilità maggiore fu del CLN triestino: “Grave fu la responsabilità dei primi dirigenti fascisti di aver ostacolato gli sforzi per l’unione di tutti gli italiani al di sopra di ogni colore di parte e al di sopra delle baionette straniere. Ma più grave fu la responsabilità del Comitato di resistenza quando, invitato durante il mese di aprile, ripetutamente respinse, fattosi ardito per la non lontana caduta della Germania, ogni trattativa con gli elementi fascisti”. Anche il generale Esposito, comandante militare delle truppe fasciste nella regione, attribuisce al CLN la responsabilità del fallimento: “Da parte del CLN […] si era rifiutato assolutamente ogni contatto con il Comando Militare Regionale e con il dott. Bruno Serbo”. Serbo era il federale di Trieste.

Si disse anche che il governo della Repubblica Sociale avesse predisposto già dagli inizi di aprile il trasferimento della X MAS nella Venezia Giulia per la difesa dei confini orientali. Il principe Valerio Borghese, che ne era a capo, confermò questa voce, affermando che la marcia di avvicinamento delle sue truppe si era arrestato nei pressi di Padova a causa del sopraggiungere delle forze neozelandesi del generale Freyberg. 15 Coceani, che nel suo Mussolini, Hitler, Tito alle porte orientali d’Italia dedica tutto un capitolo alle “Preoccupazioni di Mussolini” per le sorti di queste terre, non parla di questa iniziativa del “principe nero”; né vi fa accenno Geoffrey Cox, giunto al seguito dei soldati neozelandesi, nel suo The Road to Trieste.

30 aprile 1945

A Trieste scoppiano due insurrezioni distinte: quella del CLN., che punta su un pronto arrivo delle forze alleate angloamericane, e quella del PC, i cui uomini insorgono assieme ai partigiani del Fronte di liberazione sloveno. Illuminanti sono al riguardo le parole dello scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini, membro del CLN: “Colpire i nazisti, e contemporaneamente tener lontani gli slavi di Tito, resistendo sinché giungano dalle pianure venete gli angloamericani: ecco quello che dobbiamo fare” 15).

Il CLN fa un estremo tentativo per conservare l'iniziativa: i reparti del Corpo volontari della libertà (circa 2.000 uomini) occupano il centro della città e riescono a impedire la distruzione del porto già in precedenza minato dai tedeschi. Contemporaneamente, ma parallelamente ad essi, combattono i partigiani comunisti italiani e slavi.

Poche ore prima, nella notte del 29, i nazisti in fuga avevano distrutto con l'esplosivo il forno crematorio della Risiera per non lasciare tracce: in quel periodo la comunità ebraica era ormai ridotta a circa 900 membri.

Gli scontri con i tedeschi durarono fino al 2 maggio, quando gli occupanti si arresero ai neozelandesi.



1)
Il dramma delle foibe ha sempre avuto e, in qualche misura ha ancora, un forte impatto emotivo a Trieste. Ne hanno risentito ovviamente anche gli studi storici, che spesso sono stati apertamente sfruttati, da una parte e dall’altra, per fini di propaganda politica.
Ha osservato recentemente Giampaolo Valdevit che “È quasi un luogo comune affermare che il problema delle foibe ha fatto depositare nella memoria storica triestina e giuliana un sedimento di notevole spessore, che si è forgiato quasi a caldo, e che a lungo andare ha soffocato o distorto il bisogno di conoscenza. Non si può quindi parlare di deportazioni o di infoibamenti se non combinando, almeno in via preliminare, due dimensioni: memoria e storia”.
Fino a tempi non lontani due interpretazioni radicalmente opposte hanno tenuto il campo, condizionando il modo in cui la memoria storica ha letto a lungo queste vicende: “Da un lato la distruzione di tutto ciò che è civiltà, e quindi Italia (perché tradizionalmente la cultura dominante cittadina ha identificato Italia con civiltà), l’atto finale di quello che viene considerato come un assedio, iniziato con l’8 settembre, quando non prima; dall’altro la manifestazione fulminea della giustizia antifascista, espressione rivoluzionaria nel senso più pieno del termine”.
Per un aggiornamento sullo stato degli studi al giorno d’oggi è particolarmente utile il libro Foibe. Il peso del passato, pubblicato nel 1997. Il libro, frutto del lavoro di quattro studiosi e curato da Giampaolo Valdevit, è ricchissimo di indicazioni bibliografiche.
2)
Lammers inviò l’ordine soltanto ai due interessati, a Himmler, Ribbentrop, Keitel e Bormann. Secondo l’interpretazione di Ribbentrop, la pubblicazione sarebbe avvenuta “soltanto dopo che tra il Führer e il Duce vi fosse stato uno scambio d’opinioni sulla faccenda”.
“Ciò non sorprende” – scrive Lutz Klinkhammer – “se si riflette che vi era contenuta l’intera problematica dell’Alto Adige e dell’Istria e che soltanto il giorno precedente Goebbels aveva osservato che la nomina di Hofer a governatore civile avrebbe avuto in Italia l’effetto di un drappo rosso. È un po’ difficile stabilire se fin dall’inizio la Wehrmacht definendo le zone d’operazione intendesse appoggiare tali sviluppi o se in origine pensasse soltanto a vere e proprie zone militari d’operazione. Tuttavia il fatto che per queste zone fossero previsti “consiglieri civili” e non un’amministrazione militare, e che nel sud non fosse stato nominato nessun alto commissario indica senz’altro la prima possibilità. Si direbbe inoltre che il concetto sia stato usato volutamente in modo ambiguo: apparentemente militare ma implicitamente annessionista. Probabilmente le esigenze militari dell’OKW coincisero con il desiderio dei Gauleiter di un’amministrazione civile”.
Va tenuto presente che Mussolini in quei giorni era prigioniero sul Gran Sasso. Soltanto il 12 settembre sarebbe stato liberato e solo il 15 settembre, dal suo rifugio in Germania, avrebbe annunciato la nascita del nuovo stato fascista repubblicano.
3)
Per pochi giorni (11 - 14 settembre) Utimperghe si impossessò della direzione del Piccolo, con l’intento di farne un foglio di battaglia a fianco dei camerati tedeschi fino alla “conclusione vittoriosa”. Gli italiani dovevano continuare la guerra certi che l’alleato non li avrebbe mai traditi e non avrebbe mai considerato Trieste come una zona di occupazione al pari di tante altre: “Qui non vi sono nemici, non vi sono spergiuri, ma soltanto gli alleati della Germania. […] Fortunatamente la libertà non la vedemmo morta perché godemmo pure in tanta nostra caduta di un favore: quello della presenza, non lontana dalla città, delle truppe germaniche nostre alleate”.
4)
Dopo il brevissimo periodo in cui fu diretto da Idreno Utimperghe, Il Piccolo cambiò numerosi direttori: dal 15 settembre al 27 ottobre 1943 il direttore fu Hermann Carbone, dal 28 ottobre 1943 al 13 gennaio 1944 Vittorio Tranquilli, dal 27 gennaio 1944 al 30 aprile 1945 Rodolfo Maucci.
5)
Iniziali dell’edificio sito in Berlino al n. 4 della Tiergartenstrasse. Con questo termine si indicava il progetto di eliminazione dei cittadini tedeschi considerati “invalidi” e “ammalati mentali” esteso poi anche ai deportati nei lager.
6)
La Deutsche Adria-Zeitung, quotidiano stampato a cura dell’Alto Commissario per il Litorale Adriatico, fin dal suo primo numero, nel gennaio del 1944, affrontò il tema dei rapporti tra le diverse nazionalità in chiave apertamente antiitaliana, giocando spesso sul tasto di un nostalgico “austriacantismo”: gli interessi economici di Trieste erano incompatibili con quelli italiani, i rapporti di Trieste con i Balcani e i paesi tedeschi erano di primaria importanza, la pluralità di idiomi parlati nella regione, dalle lingue slave, al ladino, al tedesco, ai diversi dialetti “italiani” rendevano assurdo, “ridicolo” ogni tentativo di definire, come avevano fatto i fascisti, un’unica nazionalità dominante.
Secoli prima lo sviluppo della città era stato una creazione dell’Austria e dopo la fine vittoriosa della guerra Trieste ritroverà nella futura Europa il suo ruolo imprenditoriale al di fuori dell’Italia e solo grazie ai tedeschi: “Le condizioni di natura economica e geopolitica, tanto care al giornale,” – scrive Carlo Ventura – “inducono a supporre che per Trieste si sarebbe trovata una terza soluzione, una sorta di protettorato che formalmente lasciasse inalterate certe strutture autonomistiche e nella sostanza ponesse la regione sotto il diretto influsso – politico in primo luogo, e poi economico – austrotedesco”.
7)
Claudia Cernigoi riporta le parole del giuramento, nel quale il testo tedesco precedeva quello italiano:
“Meiner freiwillig übernommenen Pflicht bewußt, schwöre ich bei Gott, dem Allmächtigen, dem Befehl meiner Vorsitzenden bedingungslos, zu gehorchen und den Kampf gegen die Feinde meiner Heimat, mit den unter deutscher Führung stehenden Einheiten treu und tapfer zu kämpfen. Ich bin bereit, für diesen Kampf mein Leben einzusetzen. So wahr mir Gott helfe!”
“Conscio del dovere postomi di mia volontà, giuro dinanzi a Dio, l’Onnipotente, di ubbidire incondizionatamente agli ordini dei miei superiori e di impugnare le armi contro i nemici della mia Patria e di combattere con fedeltà e coraggio nella formazione sotto le direttive tedesche. Io sono pronto di lasciare la mia vita per questa lotta. Così sia e Iddio mi aiuti!”.
8)
Il bombardamento aereo – condannato dal Piccolo quale “inutile, crudele, ingiusta offesa” – viene interpretato da Rodolfo Ursic, come una scelta soprattutto all’interno della strategia di Churchill fortemente contraria alla resistenza slovena e ai “garibaldini”. Non sarebbe, per giunta, mancata una sollecitazione di “qualche servizio segreto militare italiano”: “Il 10 giugno 1944 […] l’aviazione alleata aveva scatenato il suo primo grande indiscriminato, terroristico bombardamento di Trieste, affossando d’un sol colpo tutte le puerili fanfaluche che venivano messe in circolazione, richiamandosi alle più fantasiose «ragioni», secondo le quali si escludevano le possibilità di bombardamenti di Trieste e provincia da parte alleata. Le «ragioni» più «accreditate»: Bonomi non permette che Trieste venga bombardata; il Santo Padre, sollecitato dal vescovo monsignor Santin, ha pregato gli alleati di non sottoporre a bombardamenti i diletti figli giuliani; il Porto di Trieste sarà insostituibile per gli alleati anche nel dopoguerra, e così via di questo passo. L’attacco aereo, voluto da Churchill – senza poter escludere che lo stesso sia stato sollecitato anche da qualche servizio segreto militare italiano – si riprometteva anzitutto di «rendere noto» ai triestini che la guerra era una cosa molto seria ed estremamente pericolosa e che meglio di tutto era stare quieti ed attendere che essa finisse, evitando di dare man forte alla guerriglia, in specie a quella slovena, come, pur anche, ai «garibaldini»”.
9)
Interessanti sono al riguardo le osservazioni che Rodolfo Ursic fa nel suo Attraverso Trieste sui rapporti, tenuti rigorosamente segreti, che Tito andò stringendo con Churchill in questo periodo. Ursic sostiene che Tito, praticamente, giocava su due tavoli: venuto a conoscenza già dagli inizi del 1943 delle mire di Churchill sull’Istria, gli avrebbe fatto balenare l’idea di una possibile collaborazione che avrebbe aperto alle navi inglesi i porti dell’Istria, ed eventualmente anche della Dalmazia. Nello stesso tempo Tito continuava a tenere rapporti costanti con Stalin.
Il suo scopo fondamentale, la sua vera scelta strategica di fondo – secondo Ursic – era quella di assicurare al futuro stato jugoslavo una reale indipendenza sia dagli alleati occidentali sia dall’URSS di Stalin: “Proprio la sensazione di questo incombente pericolo staliniano aveva già nell’agosto del ’44, consigliato Tito ad «interessare» direttamente gli alleati, tramite gli inglesi, alla liberazione di almeno una parte del territorio jugoslavo, posto all’estremo occidente, dato che, inevitabilmente, certamente una parte, quella posta ad oriente, sarebbe stata «liberata» dai russi”.
Per Ursic un comportamento del genere era perfettamente conforme alla vera personalità di Tito: “Egli era di fatto un abile statista, che si è servito pure dell’ideologia comunista, per mobilitare la parte più combattiva della popolazione, oberata da problemi esistenziali – disoccupazione, condizioni di lavoro gravose, bassi salari, mancanza di alloggi decenti e così via, oltreché dalla sensazione di un reale pericolo di diventare vittime del genocidio minacciato da Hitler – appellandosi contemporaneamente al patriottismo ed allo spirito di indipendenza per attirare nella lotta i ceti dell’intellettualità, la piccola e la media borghesia cittadina, le masse contadine.
Quindi Tito – anche per gli atteggiamenti esteriori – andrebbe guardato piuttosto come un Camillo Benso conte di Cavour che non come un capo «comunardo» o un Bela Kun, malgrado le origini comuniste ed i metodi stalinisti di governo”
.
10)
Il termine “Sella di Lubiana” (o “Porte di Lubiana”) è un’espressione militare-geografica che definisce l’area tra Trieste e Lubiana. Poter passare attraverso l’altipiano di Postumia e per la linea monte Krim – Logatec – Dolomiti (sulla rotta Trieste – Lubiana) permetteva l’ingresso alla vallata di Lubiana da dove si aprono le strade: Ljublja – Novo Mesto – Zagabria; Lubiana – Trojane – Celje – Austria; Lubiana – Trojane – Maribor – Ungheria; Lubiana – Kranj – Ljubelj – Austria.
11)
Mario Pacor ci dà un quadro articolato della situazione internazionale in cui si inserirono i colloqui tra Tito e Churchill a Napoli e a Bolsena nell’agosto del 1944: “Roosevelt, che pare auspicasse per l’avvenire una Trieste come sbocco al mare dei Paesi alpino-danubiani, era stato dell’idea che un GMA dovesse per intanto venire istituito su tutta la regione, fino al vecchio confine, in accordo con sovietici e jugoslavi. A quell’idea, senza più l’accento sull’accordo, rimase attaccato fino all’ultimo anche Truman. Politici e militari inglesi, e in primo luogo Churchill e Alexander, erano invece disposti a lasciare che Tito occupasse la parte interna della regione, purché fosse assicurato agli occidentali il controllo del porto militare di Pola e soprattutto la città di Trieste e una striscia intorno alle principali vie di comunicazione ferroviarie e stradali con l’Austria. Churchill e Alexander insistettero su questo loro proposito, al quale il maresciallo jugoslavo aderì in linea di massima, a condizione che si trattasse effettivamente solo di un controllo militare delle vie di comunicazione, in accordo con i comandi militari jugoslavi e nel rispetto delle autorità civili – i comitati popolari di liberazione – che si sarebbero trovati operanti sul posto. Tali concetti andarono precisandosi nei mesi successivi e furono ribaditi nell’incontro che Alexander ebbe con Tito a Belgrado nel febbraio ’45. Si trattò comunque di intese di massima, non precisate in documenti scritti”.
12)
“Il piano fortificatorio della nostra zona” – scrive Leone Veronese junior – “era stato già a suo tempo studiato con lungimiranza dallo stesso generale Rommel, anche se poi fu modificato in più parti. Dopo l’8 settembre ’43 si era resa evidente la necessità di approntare un’estrema linea di difesa nelle Alpi e Prealpi al fine di chiudere il passo verso l’Austria e quindi verso il “cuore” del III Reich. Questa linea difensiva lunga all’incirca Km. 400, partiva a nord del lago di Garda, passava a nord di Belluno, arrivava a Tolmino e Gorizia e qui sfruttava tutte le difese edificate durante la Prima Guerra; la zona a nord di Fiume (Tersatto). Quest’ultima parte della linea fortificata a nord di Fiume, che per una questione sia economica che di tempo, non fu mai ultimata, e non si presentava come un continuum, venne denominata «Linea Ingrid».
[…] I triestini vennero spediti con dei camions militari lungo la seconda e terza linea di difesa, retrostanti la «Linea Ingrid», in determinate zone: sul Tajano, a Praproce, Pinguente, Castelnuovo, Vodizza, Mune, Rucovazzo, Sejane, Gelovizze. Vennero impiegati per la costruzione di quei bunkers, fossi anticarro, piccoli caposaldi e piccoli fortini, che avrebbero dovuto costituire il blocco ad un’avanzata nemica proveniente da Est, lungo l’incompiuta Istrien-Linie”
.
13)
Così Kardelj ricorda questo incontro nelle sue Memorie degli anni di ferro: “L’incontro fu tenuto segreto e, per quanto ne so io, nessun servizio di controspionaggio riuscì ad esserne informato. […] Il mio primo colloquio con Togliatti toccò due soli argomenti. In primo luogo lo informai sulla situazione jugoslava, soprattutto sulle pressioni che venivano esercitate su di noi sia dall’est che dall’ovest perché stipulassimo un accordo con il governo monarchico di Londra […]. Gli dissi anche della posizione del governo sovietico e di Stalin. Togliatti non voleva entrare molto in queste questioni né voleva prendere posizione. Del resto, non ci aspettavamo questo da lui. Volevamo solo informarlo.
Il secondo tema del colloquio con Togliatti fu la politica interna dell’Italia, le sue prospettive. La sua posizione era chiara. Togliatti pensava che una azione armata in Italia, in quella fase, sarebbe stata un’avventura molto pericolosa dalla quale la classe operaia italiana sarebbe uscita sconfitta e politicamente battuta. In quell’occasione sviluppò quelle tesi che oggi vengono definite il
“compromesso storico”, anche se lui non le chiamò mai così. Togliatti riteneva che l’unità del partito comunista con gli altri partiti, non solo con i socialisti, ma con i partiti impegnati a difendere il sistema democratico e a rafforzarlo, avrebbe consolidato la posizione della classe operaia italiana e l’avrebbe fatta diventare un fattore politico decisivo per il paese. Tutte le altre questioni, a suo parere, dovevano essere lasciate aperte per il futuro e potevano essere nelle nuove condizioni che la classe operaia e le forze democratiche avrebbero determinato con la loro lotta. Quando oggi penso a queste parole di Togliatti posso dire che egli fu il primo a formulare chiaramente le tesi che oggi vanno sotto il nome di “eurocomunismo”.
A mia volta non entrai nel merito dell’esposizione di Togliatti e la recepii come una semplice informazione da trasmettere al nostro partito. In quel periodo eravamo un partito giovane, stavamo per prendere il potere nel paese, ed eravamo l’unico partito che disponeva di forti unità armate. Questa nostra particolare situazione fu causa di qualche incomprensione di non grande rilievo con i compagni italiani. Tuttavia tra di noi non ci furono scontri, anche perché la tesi principale che Togliatti ci aveva illustrato nella sua esposizione era del tutto comprensibile da parte nostra.
Il fatto che in Italia fossero presenti ingenti forze militari dei paesi occidentali rendeva impossibile affermare con sicurezza se un «colpo armato» sarebbe stato la continuazione di un’azione rivoluzionaria o l’inizio di un’avventura anarchica.
Il colloquio con Togliatti mi è rimasto profondamente impresso e debbo dire che il resoconto di esso impressionò anche Tito e gli altri compagni dirigenti quando li informai dell’esito della discussione. Noi non eravamo del tutto convinti dell’impossibilità di utilizzare con più successo le unità partigiane dell’Italia del nord, almeno come elemento di pressione sugli alleati occidentali per rafforzare la posizione politica del Partito comunista italiano nel sistema politico della nuova Italia. Ma fino alla prima seduta dell’Ufficio di informazione (così si chiamava ufficialmente il Cominform) in Polonia, e se non per un diretto suggerimento di Zdanov, evitammo di interferire nelle posizioni politiche del Partito comunista italiano che agiva in condizioni completamente diverse dalle nostre”
.
14)
Nel quinto e sesto punto il tema dei rapporti tra i comunisti italiani e “i popoli della Jugoslavia” veniva ripreso:
5) “Il partito è tenuto, in tutta l’Italia settentrionale e in tutte le regioni già libere, a sviluppare un’ampia campagna di solidarietà e per la collaborazione più stretta coi popoli della Jugoslavia e col loro governo ed esercito nazionale, popolarizzando le conquiste democratiche di questi popoli, il carattere nuovo del potere che essi hanno creato e soprattutto insistendo sulle necessità della permanente amicizia tra il popolo italiano e i popoli slavi.“
6) “Per quanto riguarda il futuro, dimostrare che la nostra politica di collaborazione più stretta coi popoli della Jugoslavia nel momento presente crea le condizioni in cui tutte le questioni che possano esistere e sorgere tra l’Italia e la Jugoslavia potranno essere risolte in conformità con gli interessi dei due Paesi e con la volontà popolare, su una base democratica e di stretta collaborazione, anche per l’avvenire, nell’interesse comune dei due Paesi che non vogliono più essere la vittima e la preda di nessun imperialismo”.
15)
Così egli ricorda quei giorni drammatici nel suo Primavera a Trieste. Ricordi del '45: “Martedì 1° maggio. Nella più lontana infanzia, il primo maggio ci destava la banda. «Sono i socialisti» udii una volta. «»Questa è la festa dei socialisti». Era la festa dei lavoratori; ed era il compleanno di Alvise, cui pareva suonassero per lui.
Primo maggio 1945: cosa ci porterà questo giorno? È già luce, la battaglia si riaccende; e non si può fare a meno di pensare che oggi è un martedì. E a quante altre cose non si riesce a non pensare. Correva voce quest'inverno che, secondo un'affermazione di Stalin, la guerra finirebbe il primo maggio. E correva insistente, fatta circolare dagli stessi agenti slavi, la profezia che il primo maggio gli uomini di Tito entrerebbero a Trieste. Ed ecco, oggi è il primo maggio. Ci leviamo, ansiosi, per vivere la nuova vicenda. Chi sa che la notte non ci abbia portato aiuto. Tra poco sapremo. Mentre riudiamo sempre più fitto e in tutte le sue voci il crepitare delle mitraglie e detonazioni e fragori cupi da ogni parte, che annunciano un'altra giornata come ieri, comincia a squillare il telefono.
«Sono veramente a Monfalcone» ci dicono. «Neozelandesi e bersaglieri. Tra poco saranno a Trieste».
Come si vorrebbe poter credere; e com'è poi difficile, se appena ci si lascia prendere, saper resistere alla speranza! Telefono al mio amico Vattovani.
«Non so quanto avviene a Monfalcone» odo, concitata, la sua voce grave; «ma posso dirti quello che vedo qui. Il primo carro armato di Tito è sceso in questo momento dalla via Fabio Severo. Ecco, ora ne passano altri due…».
È come una stilettata, fredda, nel cuore. Non so cosa rispondo; e, quasi a cercar qualcosa, annaspo con le mani intorno al telefono. I carri di Tito a Trieste, già. Vanno a porsi, mi dice, davanti al palazzo di Giustizia (ove sono asserragliati i funzionari germanici del Supremo Commissario), e cominciano a sparare contro i muri, verso le finestre e sui portoni. Dunque è questa l'unica notizia controllata, vera; questo che ci riservava il primo maggio.
Resto seduto accanto al telefono, senza parole; senza la forza, quasi, di rialzarmi. Non so dire l'impressione di annientamento, totale, che provo a questo pensiero: gli slavi sono a Trieste.
Poi sento, nel più profondo, quasi un impeto di ribellione: quanto inutile! Le nostre città esistevano in faccia a questo mare, coi loro porti, e i teatri, le arene, le vie decumane e i cardini massimi, secoli e secoli avanti che gli slavi facessero la prima comparsa in Europa al seguito di eserciti d'altri popoli cui prestavano i propri servigi; e circa un millennio avanti che le prime colonie di pastori slavi si insediassero stabilmente entro la cerchia delle Alpi Giulie; e, da allora, vale a dire sin dall'inizio di quella ch'è la storia della nostra regione, un'occupazione slava delle nostre città non si è mai avuta. Soltanto scorrerie, culminate alla fine del secolo XVI come sanno Albona e Rovigno, di pirati e di predoni uscocchi: occupazioni, e con la pretesa d'imporre una soggezione politica, mai.
Tocca alla nostra generazione (ma che cosa, in nome di Dio, non è toccato alla nostra generazione?) di soggiacere, come l'Alta Italia di fronte ai longobardi, all'invasione di questo esercito d'oltralpe, le cui staffette sono state gli sloveni e i croati immigrati nelle nostre campagne e, da ultimo, nella stessa Trieste.
Prima quasi ch'io raccolga i pensieri, tutto il passato della nostra gente d'Istria – non immigrata da trenta o da sessant'anni, ma originaria di qui, e iniziatrice delle fortune di queste città costiere sin dai primi albori dell'epoca dei Comuni – mi è presente e m'interroga, mi domanda un perché. Non si può, non si sa rispondere. Vedo il mio stesso smarrimento, e questa improvvisa mancanza di forze per cui ci si sente le gambe come intorpidite e lente, prima in mamma, venuta a domandarmi che cosa so di nuovo, e poi in tutti gli altri. È strano: non dovevamo, ormai, aspettarcelo? Sì, ma la speranza resiste sino a un attimo prima dell'irreparabile; e la disperazione è il terreno su cui la speranza cresce più forte. E poi, altro è temere e altro è subire.
Restiamo in silenzio; in ascolto, soltanto, della battaglia; che ora ci appare inutile, vana, e non sappiamo perché continui. Più tardi squilla il telefono. Ma come ci disturba, adesso; vorremmo non udirlo più.
Qualcuno ci annuncia felice (ma cos'è questa favola, ormai? e chi ci può credere?) che neozelandesi e una formazione di bersaglieri sono a Barcola. Rispondiamo con la notizia che nessuno ancora sa, e che gela la parola sul labbro a chi ci ascolta: i carri armati di Tito sono già a Trieste. I neozelandesi e i bersaglieri a Barcola; e, aggiungono seriamente taluni, con la banda in testa! È possibile che il desiderio disperato di un popolo crei ancora, all'infinito, e quando la realtà è ormai controllabile, queste allucinazioni? È puerile; non sembra credibile. Pure è così. A meno che non siano gli slavi stessi a insinuare ad arte, o almeno a favorire e a far correre queste voci; perché essi vorrebbero che un po' di folla accorresse a festeggiare gli uomini di Tito; ciò di cui già si preoccupano è la minaccia di un compatto astensionismo da quella che vorrebbero annunciare al mondo – oggi primo maggio – come un'entusiastica festa di liberazione. Non è dunque escluso ch'essi lancino queste voci, o approfittino di esse, nella speranza di farci correre in strada, tra poco quando cesserà l'ultima resistenza nazista, ad applaudire i sopravvenuti, nel fervore cieco del momento, come se fossero quegli angloamericani che l'ansia di tutti attende. È proprio impossibile scambiarli al primo istante? I carri armati su cui i titini montano non sono inglesi e americani?
Si, il popolo crede, ancora, che gli alleati stiano giungendo. È difficile davvero capire come quest'allucinazione resista; pure resiste. Tanto che noi stessi siamo indotti, di lì a poco, a telefonare a Barcola. Non è possibile, infine, che gli angloamericani stiano entrando da quella parte mentre gli jugoslavi scendono dalla via Fabio Severo?
Non lo si può escludere, se iersera erano, come sappiamo, a Pordenone. Nulla. Nessuno a Barcola vede nulla. Impossibile ormai ogni illusione: soltanto gli slavi stanno entrando a Trieste. E, se i carri di Tito hanno potuto scendere dall'altipiano ed entrare in città, vuol dire che la resistenza tedesca è definitivamente allentata e rotta. Tra poco avremo la resa.
Che ore sono? Neanche le nove. Ascoltiamo la battaglia, attendendo. Quello che ci preoccupa, adesso, è quali possano essere, sin da questo momento, le relazioni del nostro Esecutivo militare e del CLN coi comandanti jugoslavi, e quali i rapporti tra i volontari della libertà e gli uomini di Tito. Il CLN aveva nominato un comandante di piazza; quale sarà la sua posizione oggi? Ascoltiamo, sempre, la sparatoria e le esplosioni. Tra poco, pensiamo, la battaglia declinerà: scoppi sempre più radi, qualche ultimo crepitio; e poi, nel silenzio che segue le azioni di guerra, splenderà immutata su Trieste, che dall'invasione germanica sarà passata a quella jugoslava, questa prima giornata di maggio. La notizia, trasmessa ieri alle 12.30 da Radio Londra su un'informazione bugiarda, “Trieste è stata liberata dalle truppe di Tito”, verrà ormai confermata e diffusa da tutte le emittenti d'Europa e d'America; e così, con alcune parole ieri e alcune oggi, si annulla agli occhi del mondo la nostra insurrezione, mentre i nostri morti sono ancora insepolti.
Ascoltiamo, dunque; e c'è adesso in noi l'amarezza che tutto volga alla fine, quasi il rimpianto che la battaglia stia per concludersi. Ma si spara sempre, da ogni parte.
Strano. Sebbene la difesa germanica si sia allentata sino a lasciar penetrare i carri di Tito, per uno dei passaggi obbligati ove il fuoco avrebbe dovuto sbarrare la via sino all'ultimo, si ha ora l'impressione che la battaglia non accenni ad affievolirsi e a desistere, ma al contrario si accenda e infierisca sempre più. Entrano nel coro voci nuove, ora qua e ora là: sparano, è facile capirlo, i carri armati di Tito. Aerei ci sorvolano, insistenti, e anche contro di essi si accanisce la difesa tedesca. Ma non sono velivoli da battaglia.
Lo sappiamo in mattinata da Radio Venezia (mamma, in orgasmo per Alvise e per Nike, che sono a Venezia, ha aperto la radio per sentire cosa succede lì; e udiamo, assieme alla marcia del Piave che ci prende alla gola, le ultime notizie d'Italia e d'Europa). “A Trieste” dice a un tratto Radio Venezia Libera “la battaglia infuria”. E aggiunge che i ricognitori aerei non sono in grado di riferire di più, perché la zona è troppo battuta dal fuoco e devono tenersi ad alta quota.
A mezza mattina si è accesa qui sotto sulle rive, verso piazza Unità, una sparatoria furibonda. Si udivano le cupe mitragliere tedesche sparare compatte, inferocite, con una violenza crescente che pareva volesse coprire anche gli scoppi delle granate. Più tardi sapremo che sono stati i volontari della libertà, che, dopo aver issato il tricolore sul palazzo della Prefettura – preso subito di mira dalle raffiche tedesche – hanno iniziato un'azione risolutiva, coadiuvati da partigiani slavi, contro i marinai tedeschi in procinto di far brillare le mine disseminate lungo le rive. Risaliti sui loro natanti, i tedeschi si sono accaniti con tutte le armi di bordo contro le posizioni dei nostri, che hanno osato tuttavia, assieme alle stelle rosse, avvicinarsi sempre più alle rive per proteggerle da altri tentativi di far saltare le mine.
Ma quali sono, dunque, le relazioni tra i nostri volontari e gli slavi? Le notizie che ci giungono continuamente da varie parti della città dicono che gli uomini di Tito vorrebbero imporre ai nostri volontari di ritirarsi; e anche il nostro comando, per evitare uno spargimento di sangue che oltre ad essere inutile acuirebbe in avvenire l'ostilità tra i giuliani e gli slavi, avrebbe diramato alle varie brigate l'ordine di lasciare il campo. Ma i nostri, a quanto ci dicono, continuano a combattere, a brigate intere ove possono, e altrove a nuclei sparsi tra le formazioni di Tito e quelle comuniste triestine. Si sente anche dire che molti tra i nostri sono stati messi in un'alternativa: o prendere la stella rossa o deporre le armi, e hanno preso la stella rossa.
A spingere le cose a questi estremi sarebbero gli stessi commissari del popolo triestini, i quali vanno sobillando i comandanti slavi contro i volontari della libertà, che cercavano di fraternizzare e di collaborare con le truppe sopravvenute. Perché su di noi pesa anche questa disdetta: dopo aver subito il nazifascismo, che ha compromesso le sorti dei nostri confini, ci tocca ora assistere all'opera di questi nostri comunisti, che, preoccupati nel loro troppo facile idealismo di opporsi a ogni rinascita di spirito nazionalista italiano (quasi fosse il momento per simili atteggiamenti!), non si accorgono delle mire nazionaliste degli altri e si pongono addirittura al loro servizio credendo di giovare alla causa internazionale, e portano così a compimento – ciechi fatali prosecutori – proprio l'ultimo disastroso risultato del fascismo.
Diranno, essi, che i ciechi siamo noi. Diranno che non vediamo i nuovi tempi che si avanzano, le grandi necessità sociali che urgono: un'epoca più umana, l'epoca di tutti. Si sbagliano”
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storia_ts/cronologia/1943_1945.txt · Ultima modifica: 09-03-2024 08:23 da 127.0.0.1

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