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storia_ts:storia:1918_1943



La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

LIBRO QUINTO: 1918 – 1943

Parte prima: 1918 – 1935

L'arrivo a Trieste dei primi contingenti dell'esercito italiano non modificò in tempi brevi il quadro istituzionale della città, che fu considerata, al pari degli altri territori dell'ex Litorale austriaco, “territorio armistiziale” e quindi sottoposta alle autorità militari.

Vennero istituiti tre Governatorati militari, uno per la zona del Trentino, uno per Zara, uno per la Venezia Giulia e toccò agli alti comandi della Terza Armata, in stretto rapporto con il governo italiano, predisporre il quadro generale in cui venne impostata la politica nei confronti delle nuove province fino alla firma dei trattati di pace con l'Austria e con la Jugoslavia.

Veniva così portata avanti, in questa situazione eccezionale, quella strategia che fin dall'inizio del conflitto aveva visto il Comando Supremo collaborare con le autorità civili attraverso il Segretariato generale per gli Affari Civili.

Continuarono così ad operare anche gli Uffici dell'ITO (“Informazioni Truppe Operanti”), che non smisero di inviare a Roma rapporti allarmati sui gravi pericoli rappresentati dalle “questioni nazionali” e dalle pretese dei nazionalisti sloveni e croati: non a caso fu proprio il capo dell'Ufficio ITO a Trieste, colonnello Cesare Finzi, a chiedere al governo italiano di sostituire sollecitamente il vescovo di Trieste Andrea Karlin, sloveno, denunciato quale “austriacante” e aperto sostenitore dell'unione della città con il nuovo regno “jugoslavo“.

Tra la fine del 1918 e la firma del Trattato di Rapallo (12 novembre 1920) l'iniziale spirito di tolleranza nei confronti delle minoranze lasciò ben presto il posto “ad un paternalismo autoritario, al quale non erano estranee” – come scrive Claudio Silvestri – “le influenze negative degli ufficiali irredenti che collaboravano nella prima amministrazione militare italiana”.

L'atteggiamento mentale di questi ufficiali era infatti molto vicino a quello degli esuli giuliani da tempo sostenitori dell'“integralismo adriatico”, nonché a quello della maggioranza della borghesia triestina, che reclamava una politica “forte” nei confronti delle minoranze e lo smantellamento anche delle più solide organizzazioni politiche ed economiche slovene.

Con questo spirito, ad esempio, vennero decisi l'allontanamento e l'internamento in Sardegna di numerosi sacerdoti, sindaci, maestri, considerati pericolosi sobillatori delle masse e portatori delle idee nazionaliste.

Per di più le tensioni nazionali che laceravano da tempo la città e i territori a cavallo del “confine orientale” furono aggravate dalle polemiche sulla “vittoria mutilata” e dallo scontro diplomatico seguito all'abbandono della Conferenza di pace da parte della delegazione italiana.

In questo quadro così complesso – agli inizi del 1919, quando nel resto d'Italia la smobilitazione era in buona parte conclusa, si trovavano ancora dislocate nella Venezia Giulia, oltre alle guarnigioni regolari, le truppe della VIII Armata, forte di 130.000 uomini – la questione di Fiume assunse una carica dirompente che andò ben al di là dei confini delle “Nuove Provincie”.

Lo stesso generale Caviglia, che era al comando della VIII Armata, ricordò senza mezzi termini che il vero scopo di D'Annunzio “non era tanto la liberazione di Fiume […] quanto di mettersi a capo di una rivoluzione italiana, basata politicamente ed idealmente su Fiume, servendosi delle forze militari della Venezia Giulia, dalle quali sperava di essere seguito in una marcia su Roma.

Nello stato d'animo in cui si trovavano allora le truppe della Venezia Giulia, la marcia su Roma era possibile”.

I governi liberali del tempo non riuscirono sempre ad impostare una politica coerente nei confronti dei nuovi territori. Da una parte infatti, soprattutto tra i seguaci di Salandra e Sonnino e tra le alte sfere dell'esercito, si invocò con appelli più o meno scoperti uno “stato forte”, un'applicazione immediata e puntuale dell'amministrazione centralizzata tipica dello stato sabaudo; dall'altra, sulla spinta prevalente dei cattolici popolari e dei socialisti, si chiese un approccio più “morbido” e il mantenimento di alcune istituzioni della vecchia Austria, considerate più aperte e più rispettose delle diverse autonomie.

La decisione presa nel luglio del 1919 dal governo Nitti di rispettare le autonomie locali ed anzi di prenderle ad esempio per un'eventuale attuazione di analoghe riforme nel regno e la contestuale nomina del liberale istriano Francesco Salata a capo dell'“Ufficio centrale per le Nuove Provincie” sembrarono in un primo momento aprire la strada ad una integrazione graduale e consensuale delle nuove terre “redente”.

Poco dopo, però, ebbero la meglio le pressioni dei nazionalisti e di numerosi alti ufficiali dell'esercito, nonché gli interessi degli ambienti armatoriali triestini che da tempo avevano fatto proprie le parole d'ordine del tradizionale imperialismo “adriatico”: tutte queste forze guardavano ormai apertamente con simpatia alla spedizione di D'Annunzio e alle possibilità che questa aveva aperto anche in campo nazionale.

È in questa situazione fatta di incertezze, di timori e di progetti espansionistici – in vari ambienti circolava la voce che Badoglio avesse progettato un piano di attacco alla Slovenia per impedire la nascita del nuovo regno dei serbi, croati e sloveni – che fin dalla metà del 1919 si inserì con abilità e tempismo il primo movimento fascista giuliano.

Molti storici usano il termine “fascismo di confine” per indicare questa complessa realtà delineatasi all'indomani della guerra nella Venezia Giulia: così Enzo Collotti e così Elio Apih, per il quale “L'impresa di Fiume è il momento dell'inversione di tendenza, dell'avvento delle forze conservatrici e tradizionali, sia pur parzialmente rinnovate.

Una repressione violenta poteva rinviare la soluzione democratica della questione sociale e di quelle nazionali, mentre erano ancora in fase di formazione, e la rivendicazione popolare non aveva ancora conseguito piena struttura di forza storica.

È qui la ragione dell'insediamento del fascismo che, sin dai suoi primissimi giorni di vita, aveva prestato viva attenzione alla questione adriatica”.

Uno scenario in qualche modo “preferenziale”, dunque, come riconobbe lo stesso Mussolini nel settembre del 1920: “In alcune plaghe d'Italia i fasci di combattimento sono appena una promessa. […] Nella Venezia Giulia sono l'elemento preponderante della situazione politica. Più tardi Mussolini riconfermò con forza questa funzione imperialista e nazionalista che il fascismo aveva fin dall'inizio attribuito a Trieste: “[…] Ecco il compito formidabile che ha Trieste nell'economia futura e nell'espansione italiana”.

La fondazione del Fascio a Trieste, che seguì a pochi mesi quella di Milano, l'uso spregiudicato della violenza squadristica e il suo rapido affermarsi in città trovarono inoltre un fertile terreno anche nella grave crisi seguita alla perdita dell'hinterland e allo sconvolgimento di tutti i tradizionali rapporti commerciali e politici che avevano assicurato da tempo la prosperità dell'emporio cittadino.

Una crisi che fu al contempo politica ed economica. I vecchi partiti che avevano animato lo scontro politico all'interno della Duplice monarchia non sembravano più in grado di guidare le forze che tradizionalmente avevano costituito la loro base sociale.

Il partito di Pittoni era uscito gravemente indebolito dalla scissione comunista e i liberalnazionali, dopo l'unificazione con l'Italia, avevano perduto il motivo principale della loro presenza politica e ideale.

Le altre forze politiche avevano uno scarso peso in città: i repubblicani erano divisi tra un'ala radicale che abbracciava la causa delle riforme sociali e del proletariato e un'ala sensibile ai richiami del nazionalismo; i cattolici erano ancora molto deboli, come apparve chiaro a tutti in occasione delle elezioni politiche del 1921, quando, assieme ai liberali e ai fascisti, entrarono nel “Blocco nazionale”, controllato dagli uomini di Giunta, leader del Fascio locale.

La crisi economica non fu meno dirompente. L'industria navale subì un rapido crollo drammaticamente evidenziato dai 1.500 licenziamenti del luglio 1921; i titoli di Borsa subirono tra il 1918 e il 1922 un crollo del 26% e le sovvenzioni del Monte di Pietà passarono da 1.344.903 a 3.317.522 lire.

A metà del 1922 il traffico raggiungeva a mala pena il 47% degli scambi del periodo prebellico!

L'unico settore che risentì in modo marginale della crisi fu quello assicurativo: quando Edgardo Morpurgo, che nel 1923 controllava non solo i vertici delle Assicurazioni Generali, ma anche la Camera del Commercio, si iscrisse al PNF, il nuovo organigramma del potere cittadino era ormai delineato.

Eppure i modi in cui il fascismo, divenuto ormai “regime”, e quindi sostenuto dal governo di Roma, omologò la città e ne trasformò le strutture politiche ed economiche tradizionali non furono certamente lineari ed indolori.

L'immagine che di questo fenomeno dette Rino Alessi, giornalista di Cervia giunto a Trieste come corrispondente di guerra del Comando Supremo e poi direttore del Piccolo per più di un trentennio, è consolante e fornisce senza dubbio più di un alibi ad una certa borghesia cittadina, ma non corrisponde a quanto accadde realmente: “A Trieste il fascismo fu quasi un fenomeno familiare. Non occorre sforzare la memoria per ricordarsi di interi parentadi perfettamente distribuiti nelle varie organizzazioni. La rarità fu non essere fascisti. […] Se pensiamo bene tra l'ossatura del vecchio Partito Liberale Nazionale e quella del Partito Fascista le rassomiglianze non tardarono a trasformarsi in identità”.

I rapporti tra i fascisti e i vecchi centri di potere formatisi all'epoca dello stato asburgico furono in realtà molto più complessi e tormentati di quanto non traspaia da questo quadretto “familiare”: se matrimonio vi fu, fu senza dubbio un matrimonio d'interesse segnato via via da continui attacchi alle illusioni autonomistiche dei ceti dirigenti triestini.

Le illusioni “aristocratiche” di una certa borghesia triestina durarono infatti ben poco: i vecchi irredentisti, magari passati al verbo nazionalista, si trovarono davanti ad un'Italia reale che poco aveva a che fare con quell'Italia un po' letteraria e oleografica che avevano tanto sognato.

A meno di un anno di distanza dall'approdo dei primi marinai e bersaglieri italiani Attilio Tamaro già si lamentava dei nuovi arrivati, di quei “regnicoli” che avevano invaso la sua città: “È calato qui uno stormo di parassiti, tenori, baritoni, violinisti, chitarristi […]. L'Italia ha mandato ed ha permesso che si spingesse qui un'impressionante quantità di impiegati corrotti o corrompibili che ammorbano il mondo degli affari e gli animi dei cittadini”.

Per di più le residue speranze in un'Italia sempre disposta a rispettare l'autonomia e i vecchi privilegi della città subirono un colpo durissimo quando gli effetti della crisi del 1929 si fecero sentire anche a Trieste.

La crisi della Banca Commerciale Triestina, del gruppo Brunner e del gruppo Cosulich furono i segni più evidenti di un declino che doveva farsi col tempo sempre più evidente e irreversibile: al capitalismo triestino, ormai incapace di reagire alla nuova situazione internazionale, cominciarono ben presto a subentrare il grande capitale “regnicolo” e le grandi banche pubbliche.

Il governo italiano, non diversamente da molti altri governi, reagì infatti impostando una politica protezionistica e concentrando il settore armatoriale in pochi poli che avevano il proprio centro nel Tirreno e a Venezia.

Trieste venne così definitivamente ridimensionata e alla presidenza dei cantieri, orgoglio dell'imprenditoria locale, fu nominato l'ex squadrista Francesco Giunta. “Il servitore plebeo delle ubriacature razziste e nazionaliste” – scrive Giulio Sapelli – “tornava con il bastone di comando, anzi, con il manganello, e sedeva a fianco dei più illustri esponenti dell'economia triestina: stava realizzandosi, con la dissoluzione patrimoniale delle vecchie famiglie, la saldatura delle nuove élites e della classe politica”.

Gli interventi decisi dal governo di Roma e l'inserimento di un ceto politico più direttamente legato al Partito Nazionale Fascista caratterizzarono così la risposta alla crisi internazionale. L'aspetto più rilevante e macroscopico di questo nuovo dirigismo statale fu senza dubbio l'intervento dell'IRI attraverso la FINMARE, ma la nuova strategia di intervento si fece sentire anche in altri campi, come ad esempio in quello urbanistico.

Nel 1934 presero avvio le cosiddette “opere di regime”: strade, telefoni, abitazioni popolari, un nuovo centro cittadino, tutto secondo il nuovo piano regolatore che, nei calcoli del suo principale ideatore, l'ingegnere Paolo Grassi, doveva disegnare una città destinata in futuro a contenere un insediamento di più di 600.000 abitanti.

Ne fecero subito le spese la zona di Città Vecchia, la cui popolazione venne ridotta della metà e, soprattutto, l'insieme neoclassico del centro, uno dei più belli e più vasti d'Italia, che lasciò spazio a nuovi grandi edifici, tra cui quelli della Casa del Fascio.

Il quinquennio tra il 1933 e il 1938 fu il periodo in cui il fascismo raccolse in città i maggiori consensi, soprattutto tra la media e la piccola borghesia, i cui risparmi e la cui posizione sociale furono tutelati dai colpi dell'inflazione e della disoccupazione.

Il riordino della navigazione sovvenzionata, varato nel 1936, consolidò inoltre le linee e i traffici tradizionali garantendo il settore cantieristico dalla presenza di nuovi concorrenti.

I vantaggi di questa ripresa coinvolsero però soltanto la città e nessun intervento organico venne esteso alle zone del Carso e alla comunità slovena, alla quale la politica di snazionalizzazione portata avanti da più di un decennio continuava a negare ogni forma di identità linguistica e culturale.

Negli anni Trenta, anzi, le autorità tentarono anche di servirsi dei vantaggi offerti dal Concordato appena firmato per indurre il clero a seguire le indicazioni del regime e trovarono in questa battaglia il pronto appoggio della stampa, che non perse occasione per incitare al disprezzo delle minoranze e inneggiare alla superiore civiltà “romana”.

Così accadde durante il lungo braccio di ferro tra il prefetto squadrista Tiengo e il vescovo Fogar, accusato di difendere la minoranza slovena, quando numerosi giornali locali e nazionali si scagliarono contro il sacerdote reo di essere venuto meno allo spirito del Concordato.

Al Piccolo, che lamentava che “nelle Chiese del Carso si continua a lodare Iddio nel peggiore dei dialetti, come se la lingua latina, vanto della Chiesa Romana, fosse un sacrilegio”, aggiunse la sua voce influente anche Il Corriere della Sera tuonando contro quei sacerdoti che svolgevano “un'attività extra-sacerdotale che contrasta con le leggi dello Stato, e contro la pertinacia di certi preti che, a distanza di tredici anni dall'avvento dell'Italia, continuano a recitare le preghiere, a predicare in sloveno, a leggere la Bibbia in sloveno”.

Parte seconda: 1935 – 1943

Ma su questo versante, al di là della retorica di regime, il fascismo non riuscì a conseguire alcun risultato positivo. Anzi, a lungo andare la snazionalizzazione violenta nei confronti delle minoranze slovena e croata portò alla formazione di un ampio movimento di resistenza.

Già nel 1929 la stampa locale era stata costretta ad ammettere che praticamente tutti i paesi del Carso erano in stato di assedio; ora, nei primi anni Trenta, nonostante le condanne a morte decise dal Tribunale speciale, gruppi quali la TIGR e Borba raccolsero attorno a sé un numero crescente di giovani sloveni e croati, che scelsero la via della lotta armata.

In città, dopo gli arresti che nei primi anni Trenta avevano colpito gli aderenti a Giustizia e Libertà – tra questi spiccavano i nomi di Mario Maovaz e di Angelo Adam – un nuovo nucleo di opposizione si venne costruendo a partire dell'estate del 1934 attorno a Eugenio Colorni, docente all'Istituto Carducci, che teneva i contatti con i dirigenti di Giustizia e Libertà e con i socialisti.

Per di più, il rafforzamento dei regimi fascisti in Europa e il pericolo rappresentato dall'espansionismo nazista indussero anche l'Internazionale comunista ad abbandonare il vecchio radicalismo e ad ampliare il fronte della lotta al fascismo: nell'estate del 1935, al VII Congresso, venne varata la politica dei “fronti popolari”, che impostò in modo nuovo non solo la strategia delle alleanze, ma anche i problemi legati alle rivendicazioni nazionali delle minoranze.

Le conseguenze di questo nuovo “corso” si fecero immediatamente sentire anche nella Venezia Giulia: nel dicembre del 1935 venne firmato a Parigi un “Patto d'Unità d'azione” tra il Partito comunista della Venezia Giulia e il Movimento rivoluzionario degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, con cui, per la prima volta, i comunisti italiani accettavano il principio della autodecisione fino alle estreme conseguenze di un'eventuale separazione degli sloveni e dei croati dallo stato italiano.

Il patto non mancò di suscitare dubbi e resistenze, soprattutto tra i comunisti triestini, e il testo dell'accordo lo evidenziò senza mezzi termini: “A Trieste non si lotta contro l'imperialismo italiano se non si rivendica il diritto di autodecisione, senza condizioni, degli sloveni e croati.

Porre il problema diversamente significa arrivare inesorabilmente a rinunciare alla lotta per l'autodecisione e a bloccare, sia pure in modo larvato, con gli interessi e con le posizioni della borghesia “triestina””.

La centralità delle rivendicazioni nazionali all'interno del programma e della lotta dei comunisti diventò così un punto fermo della dialettica politica di queste terre e dell'Istria, aprendo la strada a polemiche e a lacerazioni che negli anni Quaranta sarebbero spesso scoppiate in modo drammatico.

Nel frattempo il lento avvicinamento al III Reich aprì una nuova pagina drammatica nella storia della città: fino a quel momento il problema dei rapporti con la comunità ebraica non era infatti mai emerso ed anzi la nomina a podestà di Enrico Paolo Salem, influente personalità della comunità ebraica, sembrava aver sancito un'alleanza promettente tra il regime e la comunità.

L'anno successivo una relazione della federazione triestina del PNF al segretario nazionale Achille Starace aveva sì fatto cenno alle “congreghe ebraiche e levantine” che controllavano l'economia e la finanza locale in combutta con la vecchia borghesia liberalnazionale, ma non si era andati al di là di una inchiesta più o meno sbrigativa sui membri dei Consigli di amministrazione della RAS e delle Generali.

La stessa politica estera di Mussolini, da tempo schierata apertamente a garanzia dell'integrità dell'Austria da ogni pretesa dell'espansionismo nazista – nel marzo del 1937 Mussolini, assicurando il cancelliere Schuschnigg sulle profonde differenze tra il fascismo e il nazismo, aveva ribadito che gli italiani non avrebbero mai ammesso “le teorie razziste soprattutto nelle loro conseguenze giuridiche” – sembrava mettere al riparo da ogni campagna razziale la comunità ebraica italiana.

Ma subito dopo, alla fine dell'autunno 1937, comparvero i primi segni inquietanti: una relazione del Direttorio del Fascio a Starace sottolineò che a Trieste esisteva oltre al pericolo degli “slavi” e dei “rossi” anche quello “ebraico-massone”: “ebrei e massoni erano riusciti a estendere il loro dominio in tutti i gangli principali della vita della città”, per cui era diventato assolutamente necessario “eliminare questa ibrida zona dell'ebraismo massonico in camicia nera!”.

Nel corso del 1938 i toni razzisti si fecero sempre più martellanti e la stampa nazionale – come sottolinea Renzo De Felice – si impegnò in uno sconcio crescendo razzista e antisemita. Toni esultanti accompagnarono a luglio la pubblicazione del Manifesto degli intellettuali fascisti sulla razza e, a settembre, le parole di Mussolini quando scelse proprio Trieste per dichiarare a tutto il mondo che l'ebraismo mondiale era stato per sedici anni un “nemico irriconciliabile del fascismo” e che la questione razziale era quindi diventata nella politica interna italiana “il problema di scottante attualità”.

Ebbe così inizio in tutta Italia la campagna antisemita: a Trieste, dove la comunità ebraica era molto numerosa e ben inserita nel tessuto cittadino, molte autorità pubbliche fecero squallidamente a gara per applicare con zelo e puntiglio le leggi razziali appena varate.

Il rettore dell'Università Manlio Udina ringraziò la “preveggente volontà del Fondatore dell'Impero” che ha liberato la città dalla presenza di una “stirpe infiltratasi silenziosamente tra noi ma da noi troppo diversa”, giungendo ad auspicare la pronta istituzione di cattedre di propaganda antisemita; il provveditore Giuseppe Reina invitò tutti i presidi e i direttori delle scuole triestine a dare prontamente la massima pubblicità alla circolare del ministro Bottai sulla diffusione della “Difesa della Razza”, in modo che la “Scuola Triestina, in questa battaglia, come in tutte le altre, sia in prima linea”.

Si colpirono anche i simboli della cultura ebraica che avevano fatto grande la letteratura triestina: un gruppo di fascisti abbatté nel Giardino Pubblico l'effigie in bronzo di Italo Svevo deturpandola con la scritta “Giudeo, il bronzo sia dato alla Patria!”.

Il giorno dopo Bruno Pincherle, rivendicando con orgoglio la parentela ebraica con il grande scrittore, recò dei fiori rossi sul busto di “E. Schmitz, scrittore triestino noto sotto lo pseudonimo di Italo Svevo”.

Anche le compagnie assicuratrici, nelle quali la presenza ebraica era molto significativa, furono ben presto nell'occhio del ciclone.

A marzo del 1939 l'epurazione poté considerarsi praticamente conclusa. Alle Assicurazioni Generali ne aveva fatto le spese lo stesso Edgardo Morpurgo, che dichiarò diplomaticamente di “ritirarsi” dalle cariche di presidente e di amministratore delegato.

Al suo posto un uomo di fiducia del regime, quel Volpi di Misurata che era già stato ministro e rappresentante di punta del grande capitale finanziario e industriale veneziano.

Questa volta si allineò alla propaganda razzista anche Il Piccolo, il cui direttore Rino Alessi firmò una serie di articoli di elogio nei confronti del III Reich. Dopo un viaggio in Germania, Alessi riconobbe che il Führer aveva potuto stringere buoni rapporti con la chiesa cattolica grazie al fatto che la matrice razziale che stava alla base dello stato nazista aveva una certa sostanza di religiosità.

Per di più, affrontando di petto il problema razziale, si lamentò della presenza in città di “quel sottile spirito ebraico, che porta nelle vene come un'infezione, da cui guarirà solo con la morte”.

Questione nazionale e questione razziale vennero ancor più esasperate quando Hitler decise di invadere la Polonia.

Lo scenario cambiò drammaticamente e si cominciò a parlare di una guerra ormai vicina. Non tutti si fidavano del potente alleato e Ciano, agli inizi di settembre, annotò nel suo Diario che “A Vienna già si canta una canzone che dice: “Quello che abbiamo lo teniamo stretto, e domani andremo a Trieste”; l'odio antiitaliano è sempre vivo nello spirito tedesco, anche se l'Asse lo aveva per qualche tempo cloroformizzato”.

L'ipotesi dell'entrata in guerra a fianco dei tedeschi non entusiasmò affatto l'opinione pubblica triestina, e la scelta della “non belligeranza” da parte del governo venne accolta in tutta Italia “con immensa soddisfazione” per usare l'espressione di Salvatorelli e Mira; anche a Trieste molti sollevarono un sospiro di sollievo secondo la puntuale relazione del questore a Roma: “È convinzione diffusa che il Duce non avventurerà la nazione in un'impresa non necessaria, e continuerà gli sforzi per arginare o almeno localizzare la conflagrazione”.

Con il passare del tempo, nonostante tutti gli sforzi della stampa e delle autorità pubbliche, l'atteggiamento della popolazione nei confronti di una possibile entrata in guerra non cambiò ed anzi le paure e le perplessità aumentarono.

Lo registrò ancora una volta con preoccupazione il questore, che nella sua relazione al Ministero dell'aprile 1940 parlò apertamente di una certa “depressione” nello spirito pubblico e di un generale rifiuto della “politica filo-germanica”: “L'opinione più diffusa è quella che l'Italia debba sperare in un indebolimento di tutti i belligeranti perché possa, attraverso la rinunzia alle mire imperialiste tedesche, ed un forzato adattamento degli inglesi e dei francesi, raggiungere le sue aspirazioni”.

Non passerà un mese e l'Italia dichiarerà guerra alla Francia e all'Inghilterra.

La decisione di partecipare al conflitto da una parte favorì l'avvicinamento tra le diverse forze che si opponevano al fascismo, dall'altra indebolì la più che decennale collaborazione tra il regime fascista e lo stato del Vaticano: “L'ingresso in guerra dell'Italia” – scrive Arturo Carlo Jemolo – “fu accompagnato dalle solite partecipazioni degli organi ecclesiastici locali – cerimonie propiziatorie, indizione di preghiere, lettere pastorali – che attestavano il lealismo politico del clero; ma non si sentiva più l'ondata di entusiasmo vero che era alla base di analoghe manifestazioni quando i soldati partivano per la guerra d'Africa. Non c'era raffronto tra la prima e la seconda guerra mondiale”.

In particolare nella zone di confine della Venezia Giulia e dell'Istria l'acutizzarsi delle tensioni nazionali indusse il vescovo Santin ad una difesa più decisa e puntuale del clero “alloglotto” che operava nella sua diocesi di Trieste-Capodistria e che sempre più spesso veniva minacciato dalle autorità fasciste.

Nello stesso tempo l'entrata in guerra trovò una prima clamorosa reazione nel lancio di migliaia di volantini a Monfalcone e in altri centri vicini, che incitavano la popolazione ad opporsi al “grande macello” e i soldati italiani ad unirsi agli operai nella lotta. Come riferì la questura, alla diffusione dei volantini, che recavano la firma “Partito degli operai e contadini”, fece ben presto seguito una vasta propaganda contro la guerra tra gli “allogeni soggetti ad obblighi militari per indurli alla disobbedienza e alla diserzione”.

Tra la fine del 1940 e gli inizi del 1941, man mano che le notizie degli insuccessi italiani giungevano in città, l'opinione pubblica manifestava un disagio sempre più accentuato. Il tentativo del regime di propagandare la guerra come un episodio limitato nel tempo e nello spazio, destinato a concludersi senza gravi sacrifici, svanì nel nulla: “L'immagine sospesa tra guerra e pace” – scrive Raoul Pupo – “viene bruscamente spezzata dalle sconfitte in Libia, dai rovesci aeronavali, e soprattutto dal disastro greco.

Al riguardo, la sensibilità locale nota subito che: “Gli avvenimenti militari in Grecia hanno influito sul prestigio militare che l'Italia si era acquistata all'estero e specie in Jugoslavia ove non si manca di accennare, se pur con garbo, alla impreparazione di molti capi militari”.

Ma al di là di questo, le fonti testimoniano con larghezza le profonde ripercussioni del trauma greco, ponendo in luce, tra l'altro quanto le polemiche legate al caso Badoglio infliggano nella Venezia Giulia un primo duro colpo alla coesione del regime”.

Ritornarono così le vecchie paure: mentre le autorità rispolveravano le tradizionali polemiche contro il clero sloveno che “sobillava” le popolazioni “alloglotte” approfittando della delicata situazione internazionale, gli organi di polizia denunciavano quotidianamente le crescenti “attività antiitaliane” tra la popolazione del Carso, ancor più esasperata dal continuo aumento della pressione fiscale dovuto alle spese di guerra e dalla crisi che aveva colpito la lavorazione del legno, l'unico settore industriale della zona.

Quando il tentativo italiano di una “guerra parallela” e concorrenziale nei confronti dell'alleato tedesco ebbe fine, il governo italiano decise di invadere la Jugoslavia. In quell'aprile 1941, assieme all'Italia parecchi altri stati “si assisero al banchetto avidi di una ricca porzione”, scrive Diego de Castro: a fianco delle truppe italiane si mossero infatti anche gli eserciti tedeschi, bulgari e ungheresi.

Questa volta l'impresa militare italiana venne accolta da gran parte dell'opinione pubblica triestina con immediato favore. Al plauso si unirono Il Piccolo, che non esitò a celebrare i meriti dell'Italia fascista che con la creazione della nuova provincia di Lubiana e delle altre province dalmatiche aveva sollevato i vinti alla dignità di cittadini italiani, e il Comitato triestino dei traffici, che riprese i temi tradizionali dell'imperialismo adriatico sottolineando come “con l'estensione del retroterra alla Slovenia si creano le premesse del rifornimento agrario della Venezia Giulia” e si assicurano nuovi importanti mercati di assorbimento.

In realtà la scelta del governo italiano risultò ben presto foriera di tragiche conseguenze, come sottolinea lucidamente Elio Apih: “Con l'invasione, i problemi della Venezia Giulia, la sua questione nazionale e la sua funzione economica diventano nodi dell'equilibrio europeo che la guerra doveva risolvere.

I gruppi politici jugoslavi, senza eccezioni, posero l'annessione di tutta la regione tra i loro scopi di guerra, e a Londra e a Washington furono fatte promesse, benché vaghe, al governo jugoslavo in esilio; a Mosca, nell'aprile 1941, si costituiva un Congresso slavo, dove Ivan Regent assumeva la presidenza della sezione slovena, il che significava il riconoscimento di quell'irredentismo. Trieste è anche formalmente una pedina del complesso gioco politico-diplomatico, che accompagna e innerva il conflitto”.

Nella seconda metà del 1941 questo conflitto si venne modificando rapidamente, inserendosi in uno scenario ancora più ampio. L'invasione dell'URSS, l'attacco giapponese a Pearl Harbour, la firma della “Carta Atlantica” tra Churchill e Roosevelt, il rinnovo quinquennale del patto anti-Comintern deciso dai paesi del “patto tripartito”, trasformarono sempre più il conflitto in atto su più fronti nello scontro tra lo schieramento “fascista” e quello “antifascista”.

Il 1° gennaio del 1942 ben 26 paesi aderirono alla “Carta Atlantica” e sottoscrissero il “Patto di Washington”, che in molti punti sarebbe stato poi ripreso nella “Carta delle Nazioni Unite”.

La guerra era così diventata anche formalmente un conflitto mondiale e il teatro di operazioni in Europa fu scelto quale scenario principale di un braccio di ferro che si sarebbe concluso solo con la sconfitta totale di uno dei due blocchi contendenti.

In questo contesto l'Unione Sovietica non apparve più come il simbolo del pericolo comunista e della sovversione bolscevica, ma divenne un'alleata dei paesi occidentali “democratici”.

Così l'appoggio dato da Mosca e dalla III Internazionale al movimento di resistenza che si era sviluppato in Jugoslavia all'indomani dell'invasione assunse un significato del tutto particolare, sottolineato anche dal fatto che lo stesso governo inglese mostrò di fidarsi più dei partigiani comunisti di Tito che dei monarchici del colonnello serbo Mihajlovic.

A Trieste questo contesto in rapido movimento influenzò non poco, alla fine del 1941, il processo contro Pino Tomazic e i suoi compagni di lotta: del gruppo di imputati, 26 erano stati definiti “comunisti”, 13 “terroristi” e 22 “intellettuali”.

Durante l'istruttoria, che ebbe una grande risonanza anche in sede nazionale, numerosi imputati morirono in carcere per percosse: tra questi il triestino Luigi Skamperle.

La volontà del regime di chiudere rapidamente e di dare un segnale inequivocabile fu presto evidente: nonostante l'intervento dell'ex vescovo Fogar, di Santin e dello stesso podestà di Trieste, che testimoniò coraggiosamente a favore di un imputato, il 14 dicembre vennero fucilati al poligono di tiro di Opicina Viktor Bobek, Simon Kos, Ivan Ivancic, Pino Tomazic e Ivan Vadnjal.

Per evitare che le loro tombe diventassero monumento politico, le autorità decisero che i loro corpi venissero sepolti a Villorba di Treviso.

Nel frattempo la lotta di liberazione nella Jugoslavia occupata metteva in luce il peso crescente che la questione nazionale veniva assumendo agli occhi dei partigiani sloveni e croati; per di più, entrambe le componenti della resistenza jugoslava, nonostante le profonde divergenze sul piano ideologico e politico, assunsero atteggiamenti convergenti su questi temi.

Sia i capi del Fronte di Liberazione, controllato dai comunisti, sia il generale Simonovich, capo del governo jugoslavo in esilio, rivendicarono infatti Trieste, Gorizia e l'Istria quali parti integranti dello stato jugoslavo dopo la fine della guerra.

Durante il 1942, “dalla Slovenia e dalla Croazia, invase e ribelli” – scrive Apih – “la risacca della guerra raggiunse la Venezia Giulia, con azioni armate partigiane sino nei pressi della città”.

I soldati italiani non erano più in grado di controllare ampi territori della Venezia Giulia, come dovette ammettere il Tribunale militare fascista, lamentando che “quelle bande ribelli tengono impegnate nostre grandi unità necessarie altrove, e colà inchiodate a subire continuamente notevoli, dolorose perdite”.

Lo stesso prefetto di Trieste si scagliò contro il dilagare delle ribellioni e invitò il questore ad esaminare la “possibilità di impiegare gas – consigliabile è l'iprite – dove verrà ritenuto più conveniente gettarlo”!

I successi delle armate tedesche sembravano però ancora in grado di garantire la vittoria finale e diversi ambienti economici triestini cominciarono a guardare con interesse alla possibilità di fare della città l'emporio meridionale di un grande hinterland controllato dagli alleati dell'Asse.

Di questi progetti si fece portavoce il Comitato triestino ai traffici, auspicando di “ritornare in possesso” di tutte le industrie esistenti in Istria e in Dalmazia e di cancellare il Trattato di Rapallo con l'imposizione di un nuovo controllo italo-tedesco su Fiume e i territori circostanti.

Un anno dopo il III Reich, da solo, senza lo scomodo alleato, avrebbe realizzato il progetto con la creazione dell'“Adriatisches Küstenland”.

Anche su un altro piano i successi del Reich tedesco trovarono in città un uditorio sensibile. Con il passare del tempo, infatti, la campagna razziale si venne via via intensificando, coinvolgendo in prima persona settori diversi della popolazione quali gli universitari fascisti della “Decima Regio” e i membri del Centro per lo studio del problema ebraico, che sotto la guida del “Rettore” avvocato Ettore Martinoli e in collaborazione con l'Ufficio studi e propaganda del ministero della Cultura Popolare si dedicarono alla schedatura dei membri della comunità ebraica.

Per ridare slancio alla campagna razziale in atto venne costituito inoltre presso la Questura un “Archivio-Stranieri razza”.

Al Piccolo, che auspicava l'istituzione di nuovi centri per alimentare costantemente il sentimento razziale, fece eco il giornale degli universitari fascisti che incitava le autorità ad applicare con rigore le leggi razziali del 1938 ricevendo anche il plauso di Preziosi “quale voce di fede e di esasperazione contro il trionfante borghesismo e giudaismo triestino”.

In estate gli attacchi alla comunità coinvolsero anche la Sinagoga: il 18 luglio squadristi penetrarono nel luogo di culto “abbattendo e danneggiando” – reca scritto il fonogramma della polizia – “quanto appariva a portata di mani e appiccando il fuoco ai banchi”.

Lo stesso giorno squadristi dettero l'assalto all'oratorio israelitico e ai locali per l'alloggio degli emigrati ebrei.

Questa squallida campagna contro la comunità ebraica venne anche concertata strumentalmente per fini politici, come fa osservare Renzo De Felice, che parla di un duro scontro tra i due maggiori gruppi fascisti locali, quello di Giunta e quello di Cobolli-Gigli, per il controllo della città.

Un'analisi che trova la sua conferma nella relazione che il console tedesco von Druffel inviò a Berlino sull'intera questione: il diplomatico aggiunse con rammarico che nonostante i meriti del Centro di documentazione persistevano ancora in città pressioni “filosemite” che dovevano essere debitamente contrastate!

Alla fine dell'anno la rottura del “fronte interno” apparve in tutta la sua portata e il questore precisò senza mezzi termini le cause del crollo dello “spirito pubblico”: 1) la questione alimentare; 2) il decorso della guerra; 3) la sfiducia verso gli uomini del governo; 4) la generale stanchezza; 5) l'insofferenza verso sistemi repressivi extralegali.

I tracolli militari funsero così da “detonatore” di una situazione piena di tensioni e di insoddisfazioni che coinvolgevano gran parte della popolazione.

La risposta delle autorità fu un continuo crescendo della repressione – infaustamente nota divenne la “casa triste” di via Bellosguardo, dove la “banda Collotti” praticava usualmente la tortura – e delle pratiche terroristiche, che spesso colpirono indiscriminatamente le forze partigiane e la popolazione inerme.

Questi comportamenti risultarono alla fine controproducenti e agli inizi del 1943, sul confine orientale, il movimento di resistenza raggiunse dimensioni tanto rilevanti da sferrare attacchi consistenti anche sul piano militare.

Quando le truppe alleate sbarcarono in Sicilia e Mussolini venne sostituito da Badoglio, nella regione la situazione di disordine e di sbandamento generale raggiunse il suo apice.

La forze antifasciste che erano riuscite negli anni precedenti a mantenere in qualche modo rapporti personali e una presenza politica sul territorio si organizzarono immediatamente: il 27 luglio a Trieste fu creato un “Comitato antifascista”, con la partecipazione di rappresentanti liberali, socialisti, cattolici, comunisti e azionisti.

Giovanni Tanasco, che aveva già fatto parte del vecchio “Comitato antifascista” all'epoca delle elezioni politiche del 1924 e che da tempo godeva di un ampio prestigio nel mondo cattolico, ricordò i punti fondamentali del programma stilato quel giorno a casa dell'avvocato socialista Edmondo Puecher:

1. influire perché il crollo del regime non porti a manifestazioni violente contro persone o cose;

2. insistere per la rapida rimozione dei fascisti dai posti di maggiore responsabilità pubblica;

3. agire per la formale ricostituzione in partiti delle correnti politiche e diffondere la coscienza democratica;

4. rinsaldare il convincimento che la guerra era stata imposta al paese dal fascismo e che, caduto questo, doveva cadere anche la guerra.

Nel frattempo, però, l'alleato tedesco non era rimasto ad aspettare. Da tempo i piani di sicurezza tedeschi guardavano con attenzione alla situazione critica della Venezia Giulia e agli inizi di luglio un ufficio a Klagenfurt aveva avuto il compito di seguire gli eventi da vicino.

Nella seconda metà di agosto il generale Rommel ordinò ai primi reparti germanici della 172a divisione turkestana e della 71a divisione provenienti dal Friuli e da Postumia di occupare i nodi ferroviari più importanti e di spingersi fino a pochi chilometri da Trieste, a Opicina.

Il giorno precedente l'annuncio dell'armistizio le truppe tedesche si misero in marcia verso il centro della città.


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