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storia_ts:storia:1943_1945



La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

LIBRO SESTO: 1943 – 1945

Parte prima: 1943 – 1944

La sera del 9 settembre 1943 Radio Berlino comunicò che “Trieste è stata occupata dopo breve lotta e 90 mila italiani sono stati disarmati”.

Le truppe del Reich non avevano praticamente trovato resistenza. Il generale Alberto Ferrero, comandante del XXIII Corpo d'Armata con sede a Trieste cui spettava la difesa di tutto il territorio lungo l'Adriatico, da Grado fino a Fiume, aveva rinunciato a difenderlo, rigettando l'offerta dei volontari che si erano presentati per combattere e accordandosi, dopo qualche breve scontro a fuoco, con i tedeschi.

Una sorte non diversa era toccata all'VIII Armata, che aveva giurisdizione sulla Venezia Giulia e sul Friuli. Il 10 settembre l'Armata aveva praticamente cessato di esistere: una “fine umiliante”, commentò con disprezzo il feldmaresciallo Rommel, allora comandante in capo delle forze tedesche nell'Italia settentrionale.

Si aprì così per le armate del Terzo Reich un grande “spazio vitale” al di là del confine alpino. In questo spazio le massime autorità tedesche decisero di mettere in piedi due “Zone d'operazioni” con l'immediato scopo di assicurare una solida copertura militare ai principali valichi alpini: alla fine del mese furono così create la “zona d'operazione Litorale adriatico” (“Adriatisches Küstenland”) e la “zona d'operazione Prealpi” (“Alpenvorland”).

La zona d'operazione Litorale adriatico abbracciava le province di Udine, Gorizia, Lubiana, Trieste, Pola e del Quarnaro e la sua amministrazione venne affidata al Gauleiter della Carinzia A. Friedrich Rainer, mentre la zona d'operazione Prealpi comprendeva le province di Bolzano, Trento e Belluno e fu affidata al Gauleiter del Tirolo-Vorarlberg Franz Hofer.

A Trieste le autorità tedesche chiarirono ben presto alla popolazione le loro intenzioni facendo pubblicare sul Piccolo un bollettino ufficiale: “Nella zona orientale del Veneto, nell'Istria e nella Slovenia, ribelli sloveni insieme a gruppi comunisti italiani e bande irregolari delle regioni croate hanno tentato di impadronirsi del potere, sfruttando il tradimento di Badoglio.

Truppe germaniche appoggiate da unità nazionali fasciste e da volontari abitanti nei luoghi hanno occupato le principali località ed i centri di comunicazione ed attaccano i ribelli datisi al furto e al saccheggio”.

Una lucida analisi dei piani dell'ex alleato ci è offerta da Elio Apih, secondo il quale “L'occupatore nazista poteva pensare di trovare qui un ambiente più consono, più adattabile. Ma in realtà non fu così.

La resistenza fu fortissima e il dominio nazista crudele e feroce come altrove, forse più che altrove. Questo per motivi molto evidenti; innanzitutto per motivi strategici.

La zona del Litorale adriatico rappresentava il punto di passaggio, la cerniera che legava il fronte italiano con il fronte balcanico, ed era quindi essenziale per la difesa dei tedeschi. Nello stesso tempo va tenuto presente che l'Adriatico è il braccio di mare che più profondamente penetra nel continente. Lo sbarco sulle rive settentrionali dell'Adriatico avrebbe minacciato da vicino le zone meridionali del Reich, l'Austria, l'Ungheria. E in effetti i nazisti lo temevano e gli alleati occidentali accarezzarono a lungo l'idea di questo sbarco, che poi non avvenne.

Poi era anche un motivo di prestigio politico, che esigeva da parte dei tedeschi una presenza sicura in queste regioni. Il motivo era storico, la aspirazione germanica al mare caldo e al possesso del porto di Trieste e della regione che avrebbe garantito il dominio della Germania su tutto quanto il continente”.

A Trieste, parte della cittadinanza subì l'occupazione tedesca senza volontà o capacità di reazione, come ricordò desolato Giani Stuparich nel suo Trieste nei miei ricordi: “Bisogna confessare che ci fu una parte della popolazione, piccola per fortuna, che si sentì contenta di tale sorte; alcuni perché succubi della disciplina e dell'energia germaniche, altri perché interessati ammiravano la potenza della Germania, desideravano la sua vittoria e chiudevano tutti e due gli occhi davanti ai metodi barbari e polizieschi del nazismo (agiva in loro anche un tradizionale rancore antisemita: fossero pure annientati gli ebrei, finalmente sarebbero scomparsi da Trieste i numerosi figli di questa razza, lasciando liberi i posti direttivi del commercio, della banca, delle società assicuratrici).

Ma la maggioranza, se pur disossata da un ventennio di scudisciate fasciste, se pur incline come da per tutto a vivere alla meno peggio, subiva il giogo nazista con sbigottimento”.

Ci furono anche coloro che per fedeltà allo spirito del fascismo della prima ora manifestarono subito il desiderio di continuare la lotta e dettero vita al Partito fascista repubblicano. Il nuovo partito, “rinato puro dalle sue ceneri”, non trovò mai un grande seguito in città, anche per il suo pronto servilismo nei confronti dei nazisti che arrivò al punto di portare alla formazione nella Risiera di San Sabba di un reparto SS costituito interamente da italiani: nei venti mesi in cui rimasero in piedi le strutture del Litorale adriatico la repressione nazista dovette molti dei suoi “successi” all'operato di questi “puri”.

Altre forme di collaborazione risultarono ancora più utili: su proposta degli industriali il governo della città venne affidato dal “Supremo Commissario” Friedrich Rainer a Cesare Pagnini, consigliere dell'Asse e uomo di fiducia della famiglia Cosulich.

Il prefetto Bruno Coceani, nominato anch'egli da Rainer, riconobbe pubblicamente alle truppe tedesche “il merito di combattere ed eliminare il pericolo bolscevico e di garantire l'ordine in tutto il Litorale Adriatico”.

Di questi comportamenti, a metà strada tra il collaborazionismo convinto e la mancata opposizione, Galliano Fogar dà un severo giudizio: “È forse l'unico esempio di partecipazione diretta e ufficiale di un'alta borghesia cittadina all'amministrazione nazista in Italia. […] Non vi è stato nella Venezia Giulia quel progressivo distacco e divorzio tra potere economico e fascismo com'è avvenuto nell'Italia del Nord […].

Si tratta di gruppi e personaggi che hanno occupato contemporaneamente posizioni di vertice sia nella grande industria privata, che pubblica, e nei quadri nazionali del regime e dello Stato”.

Sull'altro versante le forze che si opponevano agli occupanti e ai loro collaboratori – democratico-cristiani, azionisti, liberali, socialisti, comunisti – ricucirono i rapporti subito dopo l'armistizio e dettero vita al “Primo CLN”, erede diretto del Fronte democratico che si era costituito a luglio.

Il gruppo più organizzato era senza dubbio quello comunista, che poteva contare su un'organizzazione forte di circa 1.200 militanti, tra i quali più di 300 operai sparsi nelle fabbriche. Per di più, soprattutto nella zona di Monfalcone, i lavoratori comunisti dei cantieri avevano stretto rapporti di collaborazione con la resistenza armata slovena già prima dell'armistizio.

Ma sullo schieramento antifascista pesò fin dall'inizio lo scontro sulla questione nazionale. Pochi giorni dopo l'armistizio, infatti, gli organi direttivi sloveni avevano già deciso l'annessione del Litorale sloveno e il Consiglio di liberazione croato aveva preso una decisione analoga per l'Istria, ipotecando in modo molto netto le future scelte politiche.

Queste prese di posizione, immediatamente fatte proprie dai Comitati di liberazione periferici, suscitarono reazioni e timori vivissimi tra le forze che animavano la lotta partigiana nel Litorale e nel nord d'Italia: i comunisti italiani vennero accusati direttamente di aver abbracciato le rivendicazioni del movimento di resistenza jugoslavo e di essere quindi alleati inaffidabili.

In realtà il destino nazionale di queste terre divideva anche i comunisti al loro interno: mentre la direzione per l'Alta Italia ribadiva ufficialmente la “posizione di principio dell'autodecisione fino alla separazione”, i comunisti sloveni e croati parlavano ormai apertamente di confini al Torre e al Fella, in piena provincia di Udine.

Tra la fine del 1943 e gli inizi del 1944 Giordano Pratolongo riconobbe apertamente questa frattura e denunciò la strategia annessionistica dei “compagni” sloveni e croati: vi era in lui, come in altri dirigenti italiani del PCI, il timore che queste rivendicazioni diventassero in qualche modo definitive, dal momento che Tito e il suo movimento avevano ricevuto un riconoscimento ufficiale da Mosca e, per molti aspetti, anche dall'Inghilterra.

Sul fronte della resistenza italiana pesarono anche le notizie via via più drammatiche di sanguinose vendette perpetrate sia contro squadristi e gerarchi locali sia contro i rappresentanti più in vista delle comunità italiane nell'entroterra croato dell'Istria e, in particolare, nella zona attorno a Pisino.

Dopo l'8 settembre le strutture dello stato italiano svanirono e, come scrive Raoul Pupo, l'Istria divenne “terra di nessuno”.

In questo vuoto improvviso si scatenarono anche vendette e violenze private, in cui i connotati etnici e politici si saldavano a quelli sociali, per cui molto spesso i possidenti divennero vittime dell'antagonismo di classe che coloni e mezzadri avevano accumulato contro i proprietari italiani.

Soprattutto dopo l'offensiva tedesca degli inizi d'ottobre si erano moltiplicati le esecuzioni in massa e gli “infoibamenti”, seminando nelle comunità di italiani terrore e rancori. L'impatto di questi avvenimenti sull'opinione pubblica della Venezia Giulia, anche in seguito alla martellante propaganda repubblichina, fu fortissimo e rese difficile per molti la partecipazione ad una lotta armata che si temeva ormai irrimediabilmente monopolizzata dai partigiani slavi.

Ma la seconda metà del 1943, oltre ai drammi della guerra, vide anche i primi segni di quella tragedia che nei due anni successivi avrebbe raggiunto vette di una violenza parossistica: in ottobre giunsero a Trieste i primi esperti dell'“Einsatzkommando Reinhard”, che avevano dato buona prova di sé nell'amministrazione del campo di sterminio di Lublino, in Polonia.

A loro fu affidato il compito di mettere in piedi un “Polizeihaftlager” (Campo di detenzione di polizia), cui venne annesso mesi dopo un forno crematorio: a questo fine venne scelto uno stabilimento nei pressi di San Sabba, un vecchio stabilimento per la pilatura del riso.

La “Risiera” sarebbe rimasta in funzione fino all'aprile del 1945, quando i nazisti in fuga decisero di far saltare il forno crematorio per nascondere i segni della loro opera. Si calcola che in quel periodo vi trovassero la morte all'incirca 5.000 persone, tra partigiani sloveni e croati, antifascisti, ebrei, prigionieri civili e militari “rastrellati” nell'Istria e nel Veneto. Almeno 20.000, stando anche alle migliaia di carte d'identità rinvenute nell'edificio al momento della liberazione, vi passarono per essere destinati ai lager o al lavoro obbligatorio di guerra nel Litorale ed oltre confine.

Tra i primi – e tra i pochi, tragicamente, – a levare la propria voce a difesa della comunità ebraica ci fu il vescovo Santin: dopo aver scritto inutilmente al sostituto di Rainer, il “Regierungspräsident” Wolsegger, il vescovo inviò una lettera a Pio XII denunciando la repressione contro la comunità ebraica e invitando il pontefice ad intervenire presso l'Ambasciata di Germania “a favore di questi infelici”.

L'iniziativa, come altre sue successive, non ottenne risultati significativi ed anzi la repressione si sarebbe fatta nei mesi successivi sempre più drammatica: su 43 convogli di deportati ebrei che lasciarono l'Italia per i campi di sterminio, ben 20 partirono da Trieste.

Non va dimenticato che questa pagina vergognosa fu possibile anche grazie alla collaborazione degli apparati repressivi fascisti, nonché ad un'ampia rete di delatori. Come venne documentato nel 1976, durante il processo contro Allers e Oberhauser, gli uomini dell'Einsatzkommando Reinhard e le SS trovarono infatti in città molti aiuti preziosi: basterà ricordare, oltre al centinaio di SS italiane, la costituzione della Brigata nera Tullio Cividin, che operò alle dipendenze di Globocnik e l'assegnazione di tre delle sue quattro compagnie agli ordini diretti di Dietrich Allers.

Uno squallido fenomeno che doveva aver raggiunto dimensioni rilevanti, se addirittura Gottlieb Hering, a capo della “unità” della Risiera e per un certo periodo massima autorità fino alla nomina di Dietrich Allers, espresse pubblicamente il suo sprezzante compiacimento per il grande numero di triestini che aveva favorito i suoi piani!

Lo stesso Cesare Pagnini, che i nazisti avevano scelto come podestà, aveva riconosciuto in una memoria al governo di Roma che il fascismo triestino “era una fucina di denunce anonime o firmate alle SS”.

Nel frattempo anche l'attività di repressione contro gli avversari politici continuò a pieno ritmo: tra il 16 e il 19 dicembre una serie di arresti decapitò il CLN di Trieste. I dirigenti, insieme ad altri prigionieri tratti dal Coroneo, vennero deportati a Dachau: “Fummo fatti salire, circa in 70, in un carro bestiame” – ricordò Giovanni Tanasco – “che fu poi sigillato e partì verso le 11; passammo la prima notte su un binario morto a Villaco (non sapevamo dove si andava); la seconda notte a Salisburgo ed il pomeriggio del 3 arrivammo a Dachau. Gabriele Foschiatti e Zeffirino Pisoni non fecero ritorno”.

Il 1944 vide anche i primi bombardamenti sulla città, che colpirono la raffineria di Aquilinia e San Dorligo della Valle. In quell'occasione le strutture difensive rivelarono tutta la loro debolezza e la popolazione smise di cullarsi nelle illusioni: “Svanì la speranza, che s'era annidata negli animi ingenui” – scrisse Coceani – “che Trieste sarebbe stata rispettata dalla furia della guerra per intercessione dei più strani patroni immaginati dalla fantasia del popolo. Crebbe il timore che alla prima altre incursioni sarebbero seguite”.

Nei mesi successivi altre incursioni aeree colpirono infatti la città – al pari di altri centri, da Monfalcone a Fiume – fino ai massicci bombardamenti di giugno, quando, oltre agli impianti portuali e industriali, vennero colpiti anche i rioni di San Giacomo, dei Campi Elisi e di Montebello.

Le incursioni sempre più devastanti rafforzarono la convinzione degli alti quadri della Wehrmacht che la città sarebbe stata prima o dopo al centro di una vasta operazione alleata tendente a fare di Trieste una testa di ponte per aprire la strada verso Vienna e il “cuore” del Terzo Reich.

Bisognava quindi garantire il controllo di Trieste con tutti i mezzi, sia apprestando da Monfalcone all'altopiano del Taiano una nuova possente linea di difesa, sia stroncando in città ogni forma di opposizione.

Agli inizi di aprile, in risposta ad un attentato ad un cinema di Opicina requisito dai soldati tedeschi vennero fucilati 70 “banditi” e i loro corpi furono utilizzati per il collaudo del forno crematorio in Risiera; verso la fine del mese, questa volta in seguito allo scoppio di una bomba nella mensa degli ufficiali tedeschi nel palazzo Rittmeyer, furono impiccati 50 ostaggi, scelti dalle SS da un elenco di detenuti nelle carceri di via Coroneo.

Questa volta la Deutsche Adria-Zeitung, il giornale in lingua tedesca pubblicato a cura dell'Alto Commissariato del Litorale, abbandonò i toni diplomatici cui era spesso ricorso e minacciò che ogni atto terroristico sarebbe stato immediatamente “spezzato”: “Alla popolazione del Litorale può soltanto venir ripetuto l'urgente consiglio di fare il possibile affinché tali misure vengano evitate nel futuro”.

Il testo si concludeva con l'invito ai cittadini a collaborare con le autorità tedesche e ad arruolarsi nelle associazioni della difesa territoriale.

Già da tempo, in realtà, i tedeschi avevano cercato di trasformare la Guardia civica, istituita all'inizio dell'anno dal podestà per “garantire l'ordine e la intangibilità della nostra Trieste”, in un docile strumento nelle loro mani, funzionale al progetto di “Difesa territoriale” già realizzato in altre zone sotto il loro controllo.

Col passare dei mesi, però, la crudeltà della repressione imposta dalle truppe d'occupazione e la decisione estrema con cui queste truppe cercarono di imporre i loro piani indussero non pochi volontari ad usare le armi contro i membri della Guardia civica.

Nel luglio del 1944 alcuni volontari collaborarono con i guastatori della Brigata Garibaldi – Trieste nel sabotaggio del viadotto ferroviario di Duino; altri presero contatti con i partigiani slavi; altri ancora pagarono con la deportazione in Germania e con la morte le loro scelte coraggiose.

Nello stesso tempo i metodi scelti da Rainer e da Globocnik spinsero i rappresentanti dei partiti antifascisti a dar vita ad un nuovo Comitato di liberazione e a riprendere i contatti con i partigiani sloveni. Particolare attenzione venne subito rivolta al tentativo di coinvolgere nella lotta ufficiali e soldati del disciolto esercito italiano, ponendoli anche di fronte all'alternativa tra arruolamento o deportazione: “Rifiutatevi” – dicevano gli appelli del CLN – “di servire i tedeschi e i fascisti che vogliono fare di voi strumenti di oppressione contro i vostri fratelli e contro gli slavi vostri vicini onde impedire che i due popoli possano finalmente stringersi fraternamente la mano e procedere uniti all'annientamento del nazifascismo”. Gli appelli si concludevano con l'invito a passare “subito nelle fila dei patrioti della “Brigata Garibaldi””, con la quale il Comitato intratteneva stretti contatti.

Parte seconda: 1944 – 1945

Ma durante l'estate del 1944 emerse ancora una volta, al di là della coraggiosa e instancabile opera di mediazione svolta da Luigi Frausin, la frattura tra le forze del CLN triestino e quelle della resistenza jugoslava, che erano nettamente superiori.

La partecipazione della borghesia triestina alla lotta contro i nazisti e i loro collaboratori continuava infatti a risultare di gran lunga inferiore a quella che si manifestava in quei mesi nel Friuli e nel resto d'Italia, né contribuiva certamente a rafforzarla l'intransigenza con cui molti capi partigiani sloveni portavano avanti le loro rivendicazioni nazionali.

La testimonianza di Giorgio Jaksetich, a quel tempo ufficiale di collegamento delle Brigate italiane Garibaldi presso il quartier generale dei partigiani sloveni, è al riguardo impressionante: “Le incomprensioni e i dissidi si erano frazionati in numerosi episodi: c'era l'esistenza di due partiti nella stessa località e persino nella stessa fabbrica, con le conseguenze facilmente immaginabili; c'era il problema della ripartizione degli aiuti, delle sottoscrizioni, dei viveri e del vestiario, e delle armi; sorgevano questioni sul colore della bandiera delle unità partigiane, dei fazzoletti, della stella rossa e del tricolore sui berretti e c'era la necessità del coordinamento delle azioni fra GAP e VDV, tra unità slovene e italiane, e c'era il problema dei comandi”.

Alla fine di agosto la situazione precipitò: per opera di un delatore che non venne mai scoperto – non mancò chi avanzò il sospetto che ci fosse dietro lo “zampino” dei comunisti sloveni, per ritorsione contro i “compagni italiani” che si erano rifiutati di accogliere le loro rivendicazioni sulla Venezia Giulia – le SS arrestarono i massimi dirigenti del Partito comunista triestino, Luigi Frausin, Umberto Felluga, Vincenzo Gigante, che vennero uccisi agli inizi di settembre. Poco tempo dopo venne ucciso anche Natale Kolaric.

Da quel momento la componente favorevole alle tesi annessionistiche ebbe a Trieste il controllo del partito e la rottura tra i comunisti e i partiti fedeli al CLNAI fu definitiva. Gli stessi rapporti con le formazioni italiane del Carso e dell'Istria vennero troncati e resi inefficaci.

La “svolta” dei comunisti jugoslavi e la denuncia di tutti gli accordi precedentemente presi con il CLNAI furono in realtà il riflesso di un profondo cambiamento che si stava verificando nello scenario di guerra nel centro Europa. A partire dall'autunno del 1944, infatti, il fronte italiano diventò per gli alleati di secondaria importanza e il progetto di uno sbarco a Trieste, così caro a Churchill, venne abbandonato.

Nello stesso tempo l'imminente liberazione di Belgrado – le truppe sovietiche e gli alleati di Tito entrarono nella capitale il 20 ottobre – e la rapida avanzata dell'Armata Rossa verso l'Europa centrale convinsero i dirigenti della resistenza jugoslava della possibilità di accelerare bruscamente i tempi.

I colloqui tra Stalin e Churchill durante la Conferenza di Mosca segnarono un ulteriore rafforzamento di questa svolta strategica: Stalin e Churchill vi stabilirono infatti una sistemazione di massima dei Balcani e dell'Europa orientale con la definizione delle rispettive zone di influenza.

Per di più venne sancito tacitamente un principio di grande importanza: l'occupazione militare di un territorio sarebbe stata, sui tavoli di pace, un dato oggettivo da cui partire per la sanzione definitiva dei confini.

Era un segnale importante anche per l'esercito di Tito, che in quel momento era, o per lo meno era considerato dagli alleati occidentali, un fedelissimo alleato di Stalin. E gli inglesi sapevano benissimo che nello scacchiere danubiano-balcanico la loro possibilità di intervento era ormai molto limitata, come aveva sottolineato lo stesso ministro britannico per il Mediterraneo Harold Mac Millan al suo arrivo a Mosca: “con la strategia che ha concentrato tutte le nostre forze in Europa occidentale abbiamo perso l'effettiva influenza in Romania, Bulgaria, Jugoslavia, Albania, Grecia e abbiamo forze appena bastanti per concludere la lotta in Italia. Non c'è dubbio che dobbiamo raggiungere col bluff quanto è possibile”.

Dopo la fine della Conferenza, il Movimento di liberazione jugoslavo decise di ufficializzare la “svolta” anche di fronte ai massimi vertici del PCI; Edvard Kardelj, stretto collaboratore di Tito, a conclusione dei suoi colloqui con Togliatti, inviò da Bari una lettera da cui risultava che il capo dei comunisti italiani aveva acconsentito alla “cessione” di Trieste alla Jugoslavia, chiedendo solo in cambio che agli italiani venissero assicurati tutti i diritti.

Le direttive interne inviate lo stesso giorno da Togliatti a Vincenzo Bianco, allora delegato del PCI presso il CC del Partito comunista sloveno, indicavano ai comunisti italiani come un obiettivo da favorire in tutti i modi l'“occupazione della regione giuliana da parte del maresciallo Tito”.

Solo così, secondo Togliatti, Trieste avrebbe potuto evitare un'occupazione da parte degli inglesi o “una restaurazione dell'amministrazione reazionaria italiana”.

Togliatti aveva anche precisato che “non era quello il momento per discutere sul modo come sarà risolto domani il problema di questa città” e che bisognava solo evitare che discussioni inopportune potessero servire a creare discordia tra il popolo italiano e i popoli slavi, ma Kardelj aveva ormai ottenuto il suo scopo.

Molti ebbero infatti la sensazione che i comunisti jugoslavi avessero deciso in tutti i modi di forzare la situazione, mettendo davanti al fatto compiuto i compagni italiani, ancora incerti su un problema così delicato e così pieno di imprevedibili conseguenze.

Gran parte della classe operaia triestina seguì il Partito comunista anche dopo il cambio traumatico della linea politica e il CLN, ridotto ai partiti “nazionali” non comunisti, perse gran parte della sua forza: “Precariamente collegato col resto d'Italia” – afferma Apih – “sostenuto da un volontariato di studenti, di elementi della polizia municipale, di vigili del fuoco, della Protezione antiaerea, della Guardia civica, di ufficiali e sottoufficiali del disciolto esercito, di ferrovieri, della Guardia di finanza, organizza dei gruppi sostanzialmente eterogenei.

Confida in un'occupazione angloamericana che preceda quella jugoslava, raccoglie documentazione sul diritto italiano di Trieste, in previsione di un difficile trattato di pace”.

In risposta alla propaganda sempre più capillare e pressante dell'OF (“Osvobodilna Fronta” = Fronte di liberazione), i dirigenti del CLN giuliano decisero di prendere l'iniziativa nelle loro mani stringendo un “patto” che fissasse chiaramente davanti all'opinione gli obiettivi fondamentali della loro lotta contro gli occupanti tedeschi e i fascisti. Significativa fu in questo frangente la collaborazione di “politici” come Carlo Schiffrer, Giovanni Paladin, Ercole Miani, e “letterati” quali Silvio Benco e Pier Antonio Quarantotti Gambini.

L'accordo, sottoscritto il 9 dicembre dai rappresentanti giuliani del Partito d'Azione, del Partito socialista, della Democrazia cristiana e del Partito liberale italiano, considerava “sacro ed inviolabile il principio dell'unità d'Italia raggiunto in queste terre col più puro sacrificio di sangue e riconosciuto dalle democrazie occidentali nella precedente guerra di liberazione che chiudeva il ciclo delle guerre risorgimentali.

Essi considerano perciò l'appartenenza della Venezia Giulia all'Italia come un problema in linea di massima risolto e definito nell'interesse della comunità europea”.

A questa dichiarazione di principio, che si inseriva nella più tipica tradizione dell'“interventismo democratico” degli anni Dieci, il CLN aggiunse la richiesta del porto franco e di una politica rispettosa dei diritti dei due gruppi etnici, fondata su un'“assoluta parità giuridica culturale ed economica dei cittadini italiani, sloveni e croati”.

Veniva sacrificato in nome dell'unità il richiamo al diritto all'autodecisione, che era patrimonio sia degli azionisti sia dei socialisti e traspariva, tra le righe, la cauta accettazione di qualche eventuale ritocco limitato ai confini dell'anteguerra.

Il testo del patto venne subito pubblicizzato anche a livello nazionale ed internazionale: nei primi giorni del gennaio 1945 l'Agenzia Nazioni Unite – Italia liberata riportò un preciso riassunto dell'“ordine del giorno del CLN della Venezia Giulia”.

Il quadro politico delineatosi alla fine del 1944 rimase sostanzialmente immutato nei primi mesi dell'anno successivo. Durante l'inverno si venne sempre più rafforzando la resistenza armata ed emerse nel modo più evidente l'incapacità delle autorità italiane di organizzare una difesa al “confine orientale” che andasse al di là di qualche episodico tentativo di repressione.

Un'incapacità che gli stessi tedeschi riconoscevano ampiamente e che consideravano come l'ennesimo esempio di quella insensata politica snazionalizzatrice che i governi italiani avevano imposto in quelle terre già all'indomani della Prima guerra mondiale.

In un manuale per la lotta contro le “bande” destinato solo “ad uso interno”, “il morale di combattimento” degli italiani veniva considerato inferiore anche a quello dei croati, che il curatore, corrispondente di guerra delle SS, certamente non mostrava di apprezzare particolarmente!

In effetti i dubbi sull'affidabilità dell'alleato italiano non erano del tutto infondati: davanti alla sensazione comune che le sorti della guerra fossero ormai segnate per il Terzo Reich, da quel composito quadro di collaborazionisti, di fascisti, di nazionalisti che aveva rappresentato la Trieste “legale”, si levarono numerosi appelli all'“unità nazionale”, a quanti amavano ancora la “patria” sopra ogni cosa, per costituire un “fronte unitario” contro il pericolo slavo in nome dei superiori interessi “nazionali”.

Uomini come Coceani e Pagnini, che avevano tessuto alte lodi alle truppe naziste quando queste erano parse sul punto di fondare un nuovo ordine europeo, ora cercavano di trovare nuovi canali, di sondare nuove vie, di entrare anche in contatto con la resistenza e i suoi capi.

Era in realtà – come Carlo Schiffrer denunciò immediatamente – il tentativo di certi gruppi della borghesia triestina di mantenere il potere nelle proprie mani anche dopo la fine della guerra, agitando ancora una volta a difesa dei loro interessi economici lo spauracchio della sovversione e del comunismo. Un eventuale coinvolgimento del CLN giuliano in questo “fronte” non solo non avrebbe garantito la vittoria contro le truppe di Tito, ma avrebbe significato – secondo la lucida analisi del delegato socialista del CLN – un vero e proprio “suicidio” per le forze democratiche triestine: gli angloamericani sarebbero stati infatti costretti a schierarsi a fianco di Tito, rimasto l'unico loro alleato a combattere contro i fascisti e i nazisti nella Venezia Giulia.

Alla fine dell'inverno anche il governo italiano fece reiterati tentativi presso gli alleati per spingerli ad intervenire in prima persona nello scacchiere dell'Alto Adriatico e De Gasperi, allora ministro degli Esteri, cercò di anche convincere l'ambasciatore americano a indurre il proprio governo ad occupare tutta la Venezia Giulia.

Ma le scelte degli inglesi e degli americani andavano allora in tutt'altra direzione. Gli inglesi, che si erano trovati coinvolti in Grecia nello scontro armato tra formazioni comuniste ed anticomuniste, avevano ormai abbandonato del tutto la vecchia idea di uno sbarco nell'Alto Adriatico; gli americani, memori degli effetti devastanti del Patto di Londra del 1915, non avevano alcun interesse ad impegnarsi in quel settore così lontano dai loro interessi con riconoscimenti pregiudiziali di rivendicazioni nazionali altrui.

Per questi motivi a Yalta non si andò al di là della formulazione di qualche progetto interlocutorio, teso tutt'al più a normalizzare in futuro i rapporti tra l'Italia e la nuova Jugoslavia.

Nel frattempo la repressione del movimento partigiano a Trieste continuava senza sosta. Agli inizi di febbraio vennero arrestati i dirigenti del CLN don Marzari, Paolo Reti – pochi giorni prima della Liberazione Paolo Reti venne fucilato e cremato in Risiera –, Ercole Miani, Carlo dell'Antonio, Mario Maovaz e Ferruccio Lauri.

Gran parte degli arrestati venne torturata dagli uomini della “banda Collotti”, abituati a far uso della tortura per strappare informazioni sull'attività clandestina degli antifascisti che agivano in città.

Fu un altro colpo durissimo che si inserì in un crescendo di violenza favorita anche dall'opera di fiancheggiamento degli organi investigativi fascisti: “Il clima di guerra” – scrive Teodoro Sala – “divenne così più pesante in città. Furono effettuate persino irruzioni negli uffici parrocchiali.

Nel mese di febbraio poi si intensificarono i bombardamenti alleati con molte vittime e danni. Solamente alla fine del febbraio 1945 fu possibile ricostituire quello che nel tempo fu il quarto CLNVG”.

Gli ultimi mesi dell'occupazione tedesca da una parte esasperarono fino all'estremo le lacerazioni politiche ed etniche, dall'altra favorirono ancor più il già diffuso fenomeno dell'“attendismo”.

Alla fine di marzo ne dette un quadro smagato e ironico Hermann Pirich, un redattore della Deutsche Adria-Zeitung. Dopo aver ricordato che esisteva nella città una vera babele di indirizzi politici e di diverse “concezioni del mondo” che si combattono ad oltranza, Pirich avvertì i suoi lettori che “al primo posto, tra gli italiani autoctoni, vi è il partito dello struzzo, come a noi piace chiamarlo.

Esso è senz'altro il partito più forte, anche se non conta nemmeno un iscritto. La sua caratteristica fondamentale è un'assoluta necessità di tranquillità politica. Questo è, per così dire, il punto numero uno del suo programma non scritto, mentre il punto due contempla la già contemplata molto vaga previsione che la prima nave inglese che qui gettasse l'ancora vi giungerebbe trasportata da un'onda di lucenti ducati.

È necessario, pertanto, prepararsi per quel momento che permetterà a tutti di diventare per l'eternità ricchi e felici. È una specie umana che potrebbe essere definita infantile, puerilmente romantica nonostante il suo freddo ingegno. Soltanto una cosa essa teme come l'inferno: il bolscevismo e, soprattutto, qualunque radicalismo politico”.

L'“attendismo” di una parte così ampia della borghesia triestina pesò non poco sul futuro della città; l'illusione che la libertà e la soluzione dei propri problemi dovessero venire dal di fuori, quasi un dono dovuto, segnò infatti anche gli anni successivi al conflitto e fu alla base di tante “rimozioni” che caratterizzano ancor oggi la storia della città.

L’“attendismo” aveva infatti una contropartita: “La pianta della libertà” – scrive Apih – “nasceva, ma gracile, perché non era libertà che nasceva dalla conquista.

In effetti l'attendismo puntava sulla speranza che gli angloamericani arrivassero a Trieste prima degli jugoslavi. Questo arrivo sarebbe stato la garanzia per le tradizioni nazionali della regione e per i tradizionali equilibri sociali. Ma sarebbe stata una situazione anche sotto certi aspetti umiliante”.

Il fronte della resistenza dovette fino alla fine fare i conti con questa realtà, ma seppe reagire a questa situazione “umiliante” scegliendo la via della insurrezione.

Quando, alla fine di aprile, si giunse allo scontro definitivo contro gli occupanti e i collaboratori fascisti, si ebbero due distinte insurrezioni: una per iniziativa degli uomini del CLN, l'altra dei comunisti che combattevano fianco a fianco degli uomini dell'OF.

Da una parte le due divisioni del Corpo volontari della libertà, che il 30 aprile assunsero il controllo del centro cittadino, mentre le truppe tedesche si erano ritirate in alcuni punti fortificati; dall'altra, in periferia, l'insurrezione delle formazioni di “Unità operaia”, controllate da comunisti, che avanzarono verso il centro dopo aver occupato le fabbriche della zona industriale.

“In serata” – racconta Mario Pacor, che combatté con il IX Korpus – “giungono in città le prime staffette volanti del IX Korpus e della IV Armata jugoslava. […] Il 1° maggio reparti partigiani e formazioni dell'Unità operaia attaccano i residui centri di resistenza tedeschi, mentre avvengono qua e là dei dolorosi scontri tra “stelle rosse” e insorti del CLN”.

Il col. Fonda-Savio e Ercole Miani avevano cercato inutilmente di convincere i soldati jugoslavi ad attendere i risultati delle trattative in corso con i tedeschi, ma gli uomini della XIX Divisione d'assalto avanzarono subito verso il palazzo di Giustizia e il castello di San Giusto con l'ordine di attaccare gli ultimi nuclei di resistenza e di abbatterli.

In questo modo le truppe jugoslave volevano anche dimostrare di essere gli unici, “veri” difensori della città e predisporre sul campo le condizioni per il suo controllo.

“Tale essendo ormai la situazione” – continua Pacor – “il CLN telegrafa all'VIII Armata e al governo nazionale: “Truppe slave entrate stamane. Trieste italiana insorta ieri per iniziativa Comitato liberazione contro dominazione nazista aborre diffidente occupazione jugoslava. Ansiosa attende tempestivo arrivo forze alleate e nazionali””.

Poco dopo i combattenti del CLN furono costretti a consegnare le armi e a ritirarsi.


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