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storia_ts:biografie:carducci_giosue



La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

CARDUCCI E L’IRREDENTISMO TRIESTINO

Agli inizi del settembre 1882 Giosuè Carducci inviava al devoto Giuseppe Picciòla, suo collaboratore e fervente patriota, una veemente lettera in polemica con la grande esposizione che era stata appena inaugurata a Trieste alla presenza del fratello dell’imperatore, l’arciduca Carlo Lodovico. Vienna e il Luogotenente, il barone Sisinio de Prestis, avevano voluto celebrare il quinto centenario della “dedizione” della città agli Asburgo, con una ennesima dimostrazione di tripudio da parte della “fedelissima”: “Caro Picciòla, ho avuto la tua lettera stamane: tenni dietro con molta ansietà ai fatti di Trieste; sapevo un poco e più immaginavo ciò che tu dovevi fare e avrai dovuto patire in Venezia. Bassi tempi, figliolo; ma pure io crede fermamente che i Triestini fanno bene a fare quello che fanno, e che, seguitando così, una questione triestina s’imporrà all’Austria e all’Italia. Come? Trieste mostra in tutte le occasioni la sua fiera volontà, con più ostinata fortezza che non facessero una volta i lombardi e i veneti, che non facciano ora gli alsaziani e i lorenesi, e voi volete passar sopra quelle manifestazioni come se non fossero? Credete di sopprimere la volontà massima di un popolo che sa quello che vuole e sa fin dove arriverà e lo mostra così chiaro: per il governo austriaco è delle solite bestialità sue, per i moderati-progressisti d’Italia è osceno. E non scrivo più, ma parleremo”.

Una decina di giorni dopo Guglielmo Oberdank sarebbe stato arrestato, consegnato alla magistratura militare e denunciato come disertore. Alle fine dell’anno, il 20 dicembre, sarebbe stato impiccato a Trieste.

Carducci conosceva la città di Trieste per una visita che risaliva al 1878, in un momento ricco di tensioni causate dai risultati del Congresso di Berlino, i cui lavori si erano appena conclusi. Le illusioni sorte sulla sorte di Trieste e dell’Istria erano risultate del tutto vane e per di più il Congresso aveva sancito la progressiva espansione austro-ungarica verso la Bosnia Erzegovina. Era stato accompagnato da Felice Venezian e da Giuseppe Caprin e la visita del castello di Miramare gli aveva ispirato l’ode Miramar. Alla causa della italianità di Trieste aveva anche dedicato l’ode Saluto Italico , la cui prima versione, di poche strofe, era comparsa nel volume La stella dello esule, una strenna pubblicata a beneficio della sezione romana della Associazione per le Alpi Giulie.

Quando, anni dopo, giunse in Italia la notizia dell’impiccagione di Oberdank, Carducci fu tra i primi a far sentire la sua voce, sfidando ripetutamente la censura - ebbe anche un mandato di comparizione ed un processo - ed organizzando assieme ai suoi studenti dell’Università di Bologna manifestazioni ed una grande sottoscrizione a favore della memoria del martire triestino. Già nei mesi prima si era coraggiosamente battuto per la grazia ad Oberdank ed aveva rivolto un appello al poeta Victor Hugo per indurlo a chiedere all’imperatore la grazia per il giovane triestino.

Nel 1883, mentre il governo italiano cerca in tutti i modi di impedire manifestazioni irredentiste che possano incidere negativamente nei rapporti dell’Italia con il potente alleato della Triplice Alleanza, esce il volumetto Guglielmo Oberdan, memorie di un amico, pubblicato a Milano con una prefazione di Giosuè Carducci. Il poeta continua nella sue battaglia a favore della causa irredentista di Trieste e dell’Istria e cerca di allontanare da Guglielmo Oberdank l’accusa di diserzione e di regicidio. Anche al fine di evitare l’accusa di apologia di assassinio politico il poeta preferisce insistere su un “deliberato e malcelato desiderio di sacrifizio”. Abilmente difende la memoria del martire dall’accusa di diserzione: “neanche onoriamo in Gugliemo Oberdank il disertore di faccia al nemico. A lui non era nemico il popolo erzegovinese e bosniaco combattente per la sua libertà, si l’impero d’Asburgo occupante la libertà di Trieste e dell’Istria. Disertori sì fatti la Germania nel 1813 salutò iniziatori e vindici della sua indipendenza: noi gli abbracciammo e gloriammo fratelli nel 1848 e nel 1859, e ce ne ha da essere ancora di giustamente premiati negli alti gradi dell’esercito nazionale”.

Un aspetto molto significativo di questa Prefazione che si riallaccia alla formazione mazziniana e garibaldina del poeta è il desiderio di inserire il sacrificio di Oberdank - la esatta grafia del nome compariva nelle sue carte autografe; la lettera finale “k” scomparve, invece, nella edizione nazionale delle sue opera curata dalla Zanichelli - nella nobile tradizione del risorgimento italiano, quando non c’era ancora spazio per le meschinità nazionaliste. “Giornalisti stranieri ci fanno colpa di voler collocare nel Pantheon nazionale il nome di Guglielmo Oberdan. E via, noi non abbiamo Pantheon. Cotesto nome sa troppo d’impero, di chiesa e di accademia francese. Noi abbiamo la memoria e la coscienza nazionale, che mise in alto i fratelli Bandiera, non ammette Felice Orsini, e respinge, non senza dolorosa pietà, il caporale Barsanti. Ma abbracciate, o povero ed eroico Guglielmo Oberdan, nel cui sangue due popoli, l’italiano e lo slavo, chiamano giustizia a Dio”.

Anni dopo Oberdank e Carducci sarebbero stati indistintamente abbracciati dalla stessa retorica nazionalista. L’idea carducciana della lotta comune di due popoli per la conquista della indipendenza nazionale era diventata poco più che un ricordo ingombrante da dimenticare presto.


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