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La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

DOMENICO ROSSETTI

“Allorché seguì la bramata crisi del 1813 nulla poté trattenere i miei concittadini dal dichiarare altamente FRANCESCO, con cuori ebbri di gioja, per il loro diletto Padre della patria e dall’acclamarlo tale con tutte le dimostrazioni di vero giubilo. In ogni occasione fu da loro manifestato un amore spinto all’entusiasmo per LUI, per la Sua Casa, per le Sue truppe, per l’infimo perfino de’ Suoi uffizianti. Con giubilo e con lagrime di allegrezza fu accolto il nostro Sovrano allorché Egli l’anno scorso visitò Trieste; Egli stesso ne rimase commosso; Egli ci ringraziò, non come un Regnante ringrazia i suoi sudditi, ma come un padre ringrazia i suoi figli; Egli colse da tutte le parti l’omaggio di leale affetto ed attaccamento”.

Così Domenico Rossetti ricordava nel 1818 l’entusiasmo della città per il ritorno degli austriaci, assicurando che l’elemento italiano, “originario stipite principale” dei triestini, aveva già da secoli rapporti armoniosi di convivenza e di collaborazione con il “secondo stipite principale” , con l’elemento tedesco: l’avvicinamento tra queste due “nazioni” aveva anzi fatto grandi progressi man mano che si era consolidata la “Sovranità” degli Asburgo.

Già negli anni precedenti Rossetti aveva ripetutamente salutato il “ritorno” dell’Austria con enfasi e retorica, celebrando Francesco I quale “nostro Padre della patria” , l’uomo che aveva salvato Trieste e l’Europa intera dal “Gengiscan vorace” - così enfaticamente si riferiva a Napoleone - che aveva sovvertito i costumi morali seminando empietà ed inganni. Ora l’Austria doveva tutelare le vecchie “franchigie” della città fedele e ristabilire il buon tempo antico, riconfermando quel vincolo di sudditanza che il “novello” Rossetti, nato da famiglia non triestina, interpretava come un patto tra eguali: gli Asburgo non dovevano mai dimenticare che Trieste era sì “suddita dell’Austria”, ma che aveva diritto per le sue nobili origini ad un trattamento del tutto particolare, in quanto era la più antica provincia austriaca ed era l’unica a discendere direttamente da Roma; per di più la “deditio” del 1382, libero accordo privato tra “eguali”, era lì a garantire le sue “franchigie”.

Il “mito” autonomistico era ancora una volta agitato come una bandiera, come ai tempi di Pietro Bonomo e di Andrea Rapicio; ed ancora una volta veniva invocato a difesa dei patrizi e di quegli Statuti che da secoli garantivano loro il monopolio del potere politico ed economico: questa volta è il “nobile de Cander” - come amava firmare da quando Maria Teresa aveva concesso a suo padre il diploma di nobiltà - a mettersi a capo di un movimento politico teso a saldare, all’interno del rinnovato “patto con l’Austriaco Dominio” e sotto la bandiera dell’autonomismo, il “ceto economico” e il vecchio ceto nobiliare.

I ripetuti appelli alla concordia e alla collaborazione armonica tra i “cittadini” e i “borghigiani” non nascondevano però la sua radicata ideologia conservatrice. Nella “Lettera di argomento municipale” del gennaio 1819 Rossetti espone l’ideale del “buon” mercante, che una volta arricchito decide di abbandonare i suoi commerci per dedicarsi all’amministrazione dei possedimenti urbani ed agresti, che sono i soli ad assicurare fonti di reddito certe e degne di un uomo veramante “libero”. Per pagare la colpa delle sue origini mercantili il “novello” patrizio deve infine dedicarsi allo studio “disiniteressato” delle lettere e delle scienze, che sole possono “nobilitare” i guadagni e dare loro un significato “universale”.

L’idea che il commercio sia per Trieste qualcosa di “innaturale”, di indotto “artificialmente”, ricorre spesso nelle sua pagine ed assurge anche a categoria di interpretazione della storia della città. Già nel 1813 sottolineava con forza che Trieste era stata “usata” per far nascere la “commerciale industria della Monarchia” e che ciò aveva messo in pericolo “quella felice patriarcale mediocrità che godette ne’ secoli addietro”. Gli Asburgo dovevano pertanto ritenersi moralmente e giuridicamente impegnati a garantire la “prosperità” della città, anche a parziale indennizzo di quell’epoca in cui “tutto era uno e comune” e i cittadini formavano nella concordia “una sola quasi patriarcale famiglia”

Ancora nel 1830, in un articolo sull’ “Archeografo Triestino”, avrebbe ripreso la distinzione tra “lo stato nostro artificiale”, caratterizzato dai commerci, ed il nostro “nostro stato naturale”, legato alla proprietà fondiaria ed espresso ancora una volta il timore che lo sviluppo dei commerci potesse in qualche modo alterare e comprimere la “naturale esistenza” della città. Non a caso nell’introduzione del primo numero della rivista (1820) Rossetti aveva scritto che “il passato debbesi avere a maestro del presente”.

Rossetti riconosce che senza i commerci la città sarebbe ridotta alla miseria, ma sa anche che per sua natura il commercio allarga i confini, spezza le vecchie barriere e le vecchie “franchigie”, immerge la città in un mondo tanto più ampio ed “universale” nel quale la vecchia dimensione “municipalista” è destinata a finire e con essa è destinato a finire, più prosaicamente - e questo non lo dice - il dominio del patriziato cui Rossetti con orgoglio rivendica l’appartenenza. E’ un destino che in qualche modo cerca di esorcizzare, dal momento che riconosce apertamente che “Trieste non ha e non potrà mai avere commercio proprio, cioè di prodotti del suo suolo e della sua industria” e che quindi dovrà ricevere dal di fuori questa fonte di ricchezze a lei necessaria.

Sa benissimo, lui che era, come sottolinea Negrelli, “più intelligente e più attento alla realtà storica di quanto lo fossero altri patrizi”, che Trieste non può fare a meno degli Asburgo, ma vuole che questo legame non limiti in alcun modo le “franchigie” del Consiglio, si riduca al semplice riconoscimento di ciò che da tempi immemorabile è dovuto. In un Progetto di Statuto che gli era stato affidato dal Consiglio traduce questo suo municipalismo in un concreto programma politico, con l’occhio sempre attento al punto che più gli sta a cuore: garantire al patriziato il controllo del potere associando ad esso in posizione subalterna “lo stato mercantile” . Solo il patriziato può garantire alla città quella necessaria “armonia” tra gli “ordini civili” che è fondata sulla “distinzione” delle “funzioni” e dei “poteri” che è sempre esistita e sempre dovrà esistere e lo può fare perché, nella sua visione utopica in cui sono riprese a piene mani suggestioni platoniche , il patriziato è il gruppo meno interessato ai guadagni e quindi più adatto per sua “natura” a scoprire il bene e il vero utile ed a garantire l’equilibrio sociale.

In realtà, come riconosce Fabio Cossutta, che ha dedicato a Domenico Rossetti uno studio recente, “mancò in lui il senso dello stato moderno, e il sogno costante della sua vita fu il “municipalismo”, frutto di una visione “particolaristica””. Solo tra le mura di un piccolo comune si poteva ai suoi occhi assicurare al corpo sociale una rete di rapporti umani ispirati alla collaborazione e alla pace.

Quando, all’indomani della “infausta” pace di Vienna, il governo di Vienna mostrò chiaramente di voler riprendere saldamente in mano le redini del potere e portare a termine l’opera di accentramento e di modernizzazione dello stato che già i francesi avevano intrapreso, l’utopia rossettiana mostrò tutti i suoi limiti ed il suo progetto “municipalista” cadde nel nulla.

Non mancarono nell’ultimo periodo della sua vita onori e riconoscimenti pubblici, ma ormai , come riconosceva lo stesso Kandler, delle nostalgie di un uomo che era “l’incarnazione del municipalismo antico (….) la massa non curava punto”. Nello stesso anno in cui l’imperatore Ferdinando I impose uno statuto che “toglieva ogni speranza così al patriziato come alla cittadinanza (1839), il Governatore gli attribuì la carica di “Preside” del Consiglio della città. Ma ormai con lo Statuto Ferdinandiano “il cosmopolitismo era completo”, e la città veniva inserita ancor più organicamente all’interno dell’Impero perdendo ogni residuo spirito municipale : “Rossetti, in omaggio al caldissimo amore per Trieste, onestissimo come era, fu nominato a Preside (…..). Nel quale ufficio, ancorché non consentaneo alli suoi convincimenti, si tenne alla nuova legge e ogni sforzo usò a completarla, volendo ordinata la cittadinanza, ed introdotta disciplina e forma interna; nel che ebbe lo sconforto di vedere le sue proposte se non ricusate, deviate”.

Alla carica di “Preside” Rossetti venne rieletto ogni anno, fino alla morte, avvenuta nel 1842. Così la ricorda con affetto, ma anche con acume critico, Pietro Kandler: “La sera del dì 30 novembre 1842 corteggio funebre moveva dalla penultima isola di case a mano diritta dal Canale grande, e traversando la città tutta dirigevasi al Duomo. Era la bara portata a mano da bassi officiali della Civica, sulla bara stavano una cappello piumato a bianco, la decorazione della Corona di ferro, le insegne di Consigliere di Governo, gli stemmi nobili del casato. (….) Quel corpo esanime era la spoglia mortale di Domenico Rossetti, l’abito posto indosso era quello di patrizio di Trieste, con cui scendeva nella tomba di Sant’Anna l’ultima speranza, l’ultima insegna del patriziato triestino. (….) Nella tumulazione del Rossetti tutti piansero il caldissimo amatore di patria, il probo, l’operoso, il sapiente; nessuno pianse il patriziato che con lui seppellivasi”.


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