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La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

ANTONIO SANTIN

“Ho 83 anni. E da questa altezza vorrei ora con uno sguardo penetrare nel senso della mia vita e del mio tempo. […] La mia vita incomincia nell’Ottocento, che fu detto stupido, ma non lo è né più né meno degli altri secoli. Ricordo le feste e le luminarie che celebrarono il passaggio del secolo. […] La terra ove nacqui apparteneva all’Austria fino al 1918, quando terminò la prima guerra mondiale. […]

I sogni della mia fanciullezza e giovinezza si realizzarono nel sacerdozio. La vita fu un’avventura, che si svolse giorno per giorno, anno per anno, sempre nuova. Ma in ogni situazione Dio fu presente a illuminare i momenti oscuri, a sciogliere situazioni complicate, ad aprire vie difficili. […] Una vita varia dalle rive del mare alle aule del ginnasio, ove maturò la mia giovinezza, ai periodi di monastero per gli studi teologici, al lavoro nella metropoli grande e fascinosa che è Vienna, al ministero sacerdotale ed episcopale, ma Dio presente nel cuore e meta cui guidare le anime”.

Così Antonio Santin, nel 1978, raccontava di sé nel capitolo finale del suo diario, significativamente intitolato “Al tramonto”.

Era nato nel 1985 a Rovigno d’Istria, “da famiglia povera”: il padre era pescatore e la madre lavorava alla manifattura tabacchi.

Dopo aver frequentato il ginnasio a Capodistria si recò in varie località per compiere gli studi teologici, a Gorizia, a Maribor e infine a Vienna, fino a quando, il 1° maggio 1918, venne consacrato sacerdote nel monastero sloveno di Zatina.

La sua prima predica la tenne in croato a Momorano, una piccola località tra Barbana e Dignano e da qui, pochi mesi dopo, venne trasferito a Pola come vicario cooperatore.

“A Pola dovevo restarci quindici anni. Gli anni più belli. Impegnato dalla mattina alla notte: chiesa con interminabili confessioni, predicazione, malati, scuola e tanta gioventù maschile e femminile. […] Il clero a Pola era in piedi alle cinque e aveva da fare fino a mezzanotte”.

Quello che era stato “il primo porto di guerra dell’impero” versava allora in una grave crisi economica. La sua popolazione, che pochi anni prima era di circa settantamila abitanti, era scesa a quarantamila, anche per il massiccio esodo di croati e sloveni al sopraggiungere dell’amministrazione italiana. Per di più le tensioni sociali erano fortissime, come testimonia nel 1921 l’allarmato Commissario civile: nel suo rapporto denunciò l’operato sovversivo della “Camera del Lavoro bolscevica, cui aderiscono dodicimila unità, rappresentanti quasi l’intera popolazione della città”.

Anche dal punto di vista politico gli scontri sono all’ordine del giorno: da una parte i fascisti, dall’altra gli sloveni, in mezzo i “popolari” di don Sturzo, per i quali il giovane sacerdote fa la campagna elettorale. In politica, però, i cattolici sono molto pochi e Santin deve impegnarsi a fondo per difendere la loro autonomia rispetto ad avversari molto più forti. Invitato da una “buona signorina a dire qualche parola alle “piccole e giovani italiane”, accetta ma si rifiuta di diventare tenente-cappellano dell’Opera Balilla: “Non fui fascista non solo perché un prete non fa politica, ma anche perché mi ripugnava il totalitarismo e il dominio esercitato nell’educazione della gioventù”.

Dai “rossi” lo allontanavano il proclamato ateismo e l’appello alla via rivoluzionaria, così lontana dalla cauta dottrina sociale della chiesa.

Nel suo diario Santin sottolinea ripetutamente di non aver mai conosciuto in quegli anni “una questione slava” e di aver sempre mantenuto rapporti fraterni con il clero e con il laicato croato. Ciò probabilmente favorì la sua nomina a vescovo di Fiume nel 1933.

La diocesi di Fiume era stata costituita appena otto anni prima e comprendeva, secondo la bolla di Pio XI, “totum territorium in actuali civili provincia italica “Carnaro””.

Fu una permanenza breve – “una grande parentesi fra Pola e Trieste” - segnata in particolare dalla annosa “questione dello schiaveto”, una forma arcaica di croato legata alla liturgia paleoslava, vicina al glagolitico, che un folto gruppo di fedeli, voleva mantenere nelle parti cantate della messa ed in alcune occasioni liturgiche.

Era una questione in cui facevano tutt’uno la tradizione religiosa e il desiderio di mantenere la propria identità nazionale davanti alla violenta opera di snazionalizzazione imposta dal fascismo. Ma era anche per il clero e per il laicato croato una battaglia persa: solo pochi anni prima era stato firmato un concordato tra la chiesa e lo stato italiano e da entrambe le parti si voleva dare una prova di collaborazione e di unità di intenti: “Lo schiaveto in chiesa, che completamente sostituiva il latino nella Messa, era da anni un abuso, che già ripetutamente la Santa Sede aveva proibito. […] Mi rivolsi alla Santa Sede, che rispose come aveva sempre risposto: l’abuso andava tolto, il latino era la lingua liturgica. Tentai di far capire al clero e al popolo che non si poteva continuare con contrasti che turbavano gli animi e la pace delle sacre funzioni e che adeguarsi liturgicamente al latino universale era obbedire alla Chiesa, che questo aveva sempre chiesto”.

La fermezza con cui il vescovo Santin, in conformità alle norme concordatarie, decise di imporre in tutte le chiese croate la liturgia latina, - nel 1936 minacciò di sospendere “a divinis ipso facto” “tutti i sacerdoti che nella nostra diocesi adopereranno altra lingua che non sia la latina” -, nonché i ripetuti tentativi di limitare l’insegnamento della religione in lingua materna al di fuori della scuola suscitarono non poche polemiche nella diocesi: numerosi sacerdoti sloveni e croati presentarono infatti un memoriale di protesta alla S. Congregazione dei riti e fedeli croati giunsero al punto di prendere contatti con il pope di Peroj per passare alla sua chiesa.

Tra le iniziative religiose prese nei cinque anni trascorsi a Fiume furono particolarmente significative l’inaugurazione della chiesa della Beata Vergine Ausiliatrice cui era annesso un oratorio salesiano e la fondazione di un Istituto magistrale parificato “nel grande, nuovo e bellissimo monastero delle monache Benedettine”.

Nel 1938 il grande balzo: Antonio Santin venne nominato vescovo della diocesi di Trieste-Capodistria, che comprendeva ben 115 parrocchie, sparse tra le province amministrative di Trieste e dell’Istria. Era il primo vescovo ad essere nominato secondo le nuove norme concordatarie.

Una diocesi, la sua, che fin dal 1918 era stata scossa da drammatiche tensioni legate alla questione nazionale. In meno di vent’anni tre vescovi erano oggetto di pesanti pressioni politiche da parte del governo italiano: prima il vescovo Karlin, che all’indomani della guerra, non aveva nascosto le sue nostalgie per la Duplice Monarchia, poi Bartolomasi, che aveva difeso davanti a Giolitti i diritti nazionali degli sloveni e dei croati contro le violenze degli squadristi fascisti, e infine Fogar, che, isolato nella sua stessa diocesi per la sua malcelata opposizione al regime, aveva dovuto alla fine rassegnare le dimissioni.

Con la sua nomina, si chiudeva un periodo di tensioni e di trattative tra il governo di Mussolini e la Chiesa che si trascinava da almeno un decennio: l’exequatur governativo sanciva così una soluzione che aveva trovato il favore di entrambe le parti.

Da quell’anno, fino alla morte, Santin fu una delle figure dominanti della scena triestina, che si impose per autorevolezza e prestigio anche nei momenti più drammatici.

Fino allo scoppio della guerra i rapporti tra il vescovo e le autorità politiche furono buoni: Santin era animato – come scrive Paolo Blasina – dalla “idea di una nazione cattolica serrata e compatta attorno ai propri altari, fedele e devota, in un regime che ha ridato alla Chiesa il suo ruolo cardine ed alla religione tutta l’importanza e l’onore dovuti”. Suo intento fu quindi, agli inizi, quello di armonizzare le varie istanze del mondo cattolico all’interno del “patto” concordatario con il regime; un progetto di azione che le pretese del fascismo di controllare l’educazione della gioventù, i suoi attacchi alla Azione Cattolica e poi lo scoppio della guerra resero ben presto difficile.

La guerra significò anche, per la diocesi di Trieste e Capodistria, il drammatico acuirsi delle tensioni con il mondo sloveno e croato e quindi, di riflesso, delle tensioni tra il vescovo e il clero slavo. Santin si trovò in qualche modo tra l’incudine e il martello, tra le autorità fasciste che chiedevano alla Chiesa una fedeltà totale e pronta nella guerra contro la “barbarie slava”, al di qua e al di là dei confini, e i fedeli slavi che nell’imperialismo fascista vedevano il nemico di sempre e al suo pastore chiedevano un aiuto concreto anche sul piano politico. Più volte corse il rischio di scontentare gli uni e gli altri.

Negli anni della guerra, della caduta del fascismo e dell’occupazione tedesca, il vescovo fu costantemente uno dei punti di riferimento e di mediazione più importanti. Quando, alla fine del luglio 1943, il regime fascista si dissolse e si creò un drammatico vuoto di potere, la Chiesa di Santin favorì la formazione del primo nucleo del CLN, di cui proprio un sacerdote, don Marzari, divenne uno dei capi più prestigiosi e influenti.

Nel periodo della occupazione nazista il vescovo cercò di intervenire a favore della comunità ebraica, anche se in questo caso le possibilità di ottenere risultati positivi furono piuttosto scarse, sia per la durezza della repressione tedesca, sia per la linea di comportamento scelta dalla Chiesa cattolica in quegli anni drammatici.

L’invasione della Jugoslavia da parte degli eserciti italiani e tedeschi aveva aggravato i rapporti, già tesi, tra italiani e sloveni e la lotta partigiana contro gli occupanti aveva scavato un solco doloroso anche nel clero della diocesi. Una parte dei sacerdoti sloveni e croati si era infatti schierata a fianco del movimento di liberazione e delle sue rivendicazioni nazionali, collaborando di fatto con i comunisti, che in quel movimento erano i principali animatori della resistenza. Santin, invece, espresse sempre la più dura condanna nei confronti di quei “nemici dell’ordine”, che, con una “falsa propaganda” conquistavano sempre più l’appoggio della popolazione.

All’indomani del 1945 scoppiarono nuovamente polemiche sul comportamento tenuto in quegli anni dal vescovo nei confronti dei fedeli sloveni e in città se ne fece interprete il sacerdote Virgil Šček, che trent’anni prima aveva difeso con coraggio i diritti del suo popolo dagli scanni del Parlamento italiano. Quando, agli inizi di settembre, Šček si dichiarò a favore dello “Osvobodilna fronta” (“Fronte di Liberazione”) ed attaccò le opzioni “filoitaliane” del vescovo: Santin intervenne con grande intransigenza contro tutti quei sacerdoti che, al seguito di Šček, volevano ridar vita al vecchio “Sodalizio dei sacerdoti di San Paolo”, tanto caro alle tradizioni del clero sloveno: “Apprendo che domani si dovrebbe tenere a Trieste una riunione del Clero Sloveno sotto gli auspici dello “Zbor s. Pavla”. Proibisco a tutti i sacerdoti di intervenire e di riunirsi sotto qualsiasi pretesto”.

La stessa intransigenza mostrò quando si trovò, nel 1946, davanti ai “gravamina” del clero sloveno e croato stilati ed esposti in buon latino dal sacerdote Jakob Ukmar. Alle molte “doglianze” puntuali e circostanziate il vescovo rispose immediatamente: “Sicuro, serenissimo” - scrive Alojz Rebula – “esemplarissimo come vescovo cattolico, egli rigettava tutte le rimostranze. Tra le “doglianze” i sacerdoti sloveni avevano fatto notare che non avevano mai, “nemmeno dopo il mese di luglio del 1943, sentito il vescovo alloquirli nella loro lingua”!”.

Negli anni successivi questa tendenza a guardare con cautela e sospetto alle iniziative “autonome” del clero sloveno e croato ed il suo costante appoggio alle rivendicazioni nazionali degli istriani furono al centro di non poche polemiche, soprattutto quando il vescovo mostrò apertamente la propria simpatia per le giunte centriste rette da Gianni Bartoli, che spesso, per motivi di lotta politica, avevano finito con l’identificare il mondo slavo con la “barbarie comunista”.

Anche negli anni Cinquanta Santin svolse un ruolo importante nelle vicende della città e non mancò mai di far sentire la sua voce nei momenti più delicati e difficili: ne sono esempi significativi le sue prese di posizione contrarie alle clausole del trattato di pace che interessavano i confini nord-orientali, e, sette anni più tardi, la sua contrarietà nei confronti degli accordi di Londra.

La crisi del “centrismo” e delle alleanze che avevano sostenuto i governi De Gasperi modificarono profondamente gli equilibri politici anche a Trieste e la influenza politica del vescovo divenne in città sempre meno determinante. Molto interessante al riguardo la testimonianza di Corrado Belci, uno dei leader della Democrazia Cristiana che impressero al partito la svolta verso il centro-sinistra: “La divaricazione tra la posizione di Santin e quella di una parte della comunità triestina (segnatamente per quanto concerne il mondo cattolico) si accentua nella primavera-estate del 1964, dopo dieci anni di pieno inserimento, anche politico, di Trieste nella vita dell’Italia repubblicana. La Democrazia cristiana di Trieste, imboccata la strada del centro-sinistra, con l’alleanza politica ed amministrativa con il Partito socialista italiano, si dichiara favorevole all’elezione, come assessore nella giunta comunale di Trieste, di un socialista sloveno, l’ex-direttore del quotidiano Primorski Dnevnik, Dušan Hreščak”.

Il vescovo espresse in varie sedi la sua opposizione a questa iniziativa che vedeva anche il mondo cattolico spaccato in due posizioni opposte: sulla Vita Nuova una nota non firmata, ma la cui attribuzione non lasciava dubbi, “diffidò” i dirigenti cattolici ad avallare quella scelta della DC ed invitò esplicitamente i responsabili ad “andarsene” e a lasciare la guida della DC a coloro che si erano opposti fin dall’inizio a quella apertura ai socialisti.

Quando, nel novembre del 1975, Italia e Jugoslavia risolsero definitivamente le vecchie pendenze sui confini nord-orientali attraverso il trattato di Osimo, Santin manifestò ancora una volta la sua opposizione. Così ricordò nel suo diario quelle giornate: “Vi furono parecchi torti che furono fatti a Trieste. Ultimo il trattato di Osimo, che la riguarda da vicino e che fu stipulato di nascosto, negando fino all’ultimo che si pensasse a simili piani, passando sulla sua testa senza che fosse interpellata la città”.

Ma ormai il suo impegno episcopale era al termine. La richiesta di dimissioni presentate “per raggiunti limiti di età” questa volta venne accolta. Nell’ottobre del 1977, in coincidenza con la nomina del nuovo vescovo di Trieste, Lorenzo Bellomi, il Vaticano ridefinì i confini della diocesi conformemente ai nuovi accordi internazionali presi dai governi di Roma e di Belgrado.

Si concludeva così un periodo molto importante e delicato per la chiesa triestina. Santin sopravvisse qualche anno alla fine del suo episcopato. Morì nel marzo del 1981 e il suo corpo venne tumulato nella cattedrale di San Giusto, come aveva chiesto - “se possibile” - nel suo testamento.


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