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ANGELO VIVANTE

A tutt’oggi ben poco si sa della vita di Angelo Vivante al di fuori della sua biografia intellettuale e politica. Nacque l’11 agosto del 1869 da una ricca famiglia di religione ebraica ben inserita nella società del tempo. Dopo aver compiuto gli studi universitari a Bologna, dove conseguì la laurea in giurisprudenza, si dedicò al giornalismo ed assunse per lunghi anni (1900-1906) la carica di redattore del quotidiano liberal-nazionale di Trieste “Il Piccolo”. Svolgendo questo lavoro ebbe modo di dar prova di sé per le sua analisi di politica estera.

A partire dal 1902 cominciò a frequentare, anche per motivi professionali, il “Circolo di studi sociali”, creazione del partito socialista e centro importante di dibattiti. Il Circolo, diretto da Giovanni Oliva e da Michele Susmel, fu in quegli anni sede di incontri fecondi con i socialisti degli altri paesi e vi vennero a parlare numerosi intellettuali e politici italiani quali Gaetano Salvemini, che tenne delle conferenze nel 1904 e 1905 e che strinse un forte legame di amicizia con Vivante.

Risale al 1906 la sua adesione agli ideali della II Internazionale: in particolare lo avvincevano le teorizzazioni dell’austro-marxismo sul rapporto tra le lotte sociali dei lavoratori e l’esplodere delle aspirazioni nazionali, che in quel periodo stavano minando le fondamenta stessa dello Stato asburgico. Un anno dopo si iscrisse al partito socialista e tra il 1907 e il 1909 ricoprì con successo la carica di direttore de “Il Lavoratore”: in questa veste coltivò rapporti con i socialisti italiani e collaborò con l’“Avanti” e con la “Critica sociale”.

Una lettera inviata a Salvemini agli inizi del 1909 mostra che “da cinque mesi” egli stava lavorando ad “una specie di diagnosi dell’irredentismo adriatico”: sarebbero passati ancora tre anni di studi in campo storico ed economico, condotti con estrema serietà e rigore, prima della pubblicazione per le edizioni fiorentine “La Voce” del suo scritto più importante Irredentismo adriatico. Contributi alla discussione sui rapporti austro-italiani (1912). Una testimonianza significativa dell’evoluzione di questi anni si trova in un biglietto spedito da Mallnitz nel 1911, pochi mesi prima della pubblicazione dell’opera: “Io ho cercato in tutto il lavoro di spogliarmi della mia tendenza personale, quasi anazionale: non so fin quanto possa esserci riuscito”.

La volontà di procedere con cautela critica, al di fuori di ogni retorica, risente anche della storiografia di stampo positivistico, e viene ribadita all’inizio dello scritto in termini precisi: “In queste pagine il fenomeno irredentistico non si guarda da una prospettiva internazionale e socialista. Anzi, è possibile che qualche risultato della ricerca faccia corrugare il sopracciglio agli assertori troppo rigidi del taglio fra le classi, nonché ai bigotti di un materialismo storico, che non rispecchia d’altronde affatto il pensiero sintetico di Marx e dell’Engels”.

L’antidoto contro ogni superficialità va cercato, secondo Vivante, nello studio dei grandi fenomeni economici che hanno modificato le terre adriatiche e “giuliane” e sulle conseguenze sociali e culturali che ne sono derivate. Al riguardo afferma con sicurezza che “L’antitesi tra il fattore economico e quello nazionale è, lo vedemmo, il filo conduttore di tutta la storia triestina; antitesi, che si ripercuote ormai su tutta la Giulia, specie sulla parte di essa (costa occidentale e Friuli) la quale, anche nell’avvenire, comunque si foggi, è difficile immaginare di destino politico ed amministrativo diverso da quello del suo capoluogo naturale”.

In effetti l’Irredentismo adriatico rappresentò la più lucida analisi critica delle contraddizioni dell’irredentismo. Non a caso gli ambienti liberal-nazionali triestini reagirono immediatamente alla sua pubblicazione con sdegno e livore, attaccando senza mezze misure il “transfuga”, il “traditore” che aveva abbandonato il “Piccolo della Sera” per aderire al socialismo. Giovanni Quarantotti Gambini, studioso di storia istriana di tipica formazione liberal-nazionale ricorda che “Quando questo nel 1912 uscì dai torchi della Voce fiorentina, fu un urlo generale d’indignazione nel campo liberale e irredentistico giuliano”. Un’indignazione che sarebbe durata a lungo, se corrisponde al vero la testimonianza comparsa sul “Piccolo della Sera”, che attribuì ad Attilio Hortis questo infelice giudizio espresso sei anni dopo la morte di Vivante: “Una cattiva azione, scritta in mala fede, da un pazzo per eredità materna”.

Il libro mostrava, sono parole di Enzo Collotti, “come la prosperità di Trieste fosse indissolubilmente legata alla sorte dell’impero austro-ungarico, oltre a dimostrare la falsità della tesi nazionalista secondo la quale la presenza slava nella regione Giulia fosse dovuta ad una artificiosa invasione”. Era quasi un luogo comune nella propaganda irredentista e nazionalista la tesi secondo cui gli scontri nazionali tra italiani e slavi erano causati dalla politica dello Stato asburgico e che il mondo slavo non aveva una propria autonoma coscienza nazionale. Vivante, analizzando lo sviluppo del capitalismo in queste terre, aveva messo in luce il processo necessario che aveva portato alla formazione sia della borghesia italiana che di quella slava: da ciò la necessità per il proletariato di entrambe le lingue di non farsi coinvolgere negli scontri nazionali, che erano una sorta di travestimento ingannevole delle competizioni economiche borghesi.

Si trattava di un conflitto che Vivante considerava, sulla scia dei teorici austro-marxisti della questione nazionale, destinato ad acuirsi man mano che a fianco della borghesia italiana andava sviluppandosi la borghesia slovena. La percezione di questa ineluttabilità si coglie bene anche in due lunghi articoli nel 1913 e nel 1914: Nazioni e Stato in Austria-Ungheria (comparso in quattro puntate su “L’Unità”. Problemi della vita italiana”, Firenze, 1913) e Dal covo dei “traditori”. Note triestine (pubblicato a puntate sull’“Avanti” nel 1914 e sul “Lavoratore”). In una passo di questo secondo scritto si legge: “Nei primi decenni capitalistici, finché slavo equivaleva a contadino o a proletario, urbanismo equivaleva ad assimilazione. Se non ché proprio nelle città assimilatrici (a Trieste in prima linea) e dalla massa stessa degli assimilandi, scesi in folla dietro i richiami del capitalismo (traffici triestini), cominciano a nascere gli altri ceti: la borghesia minore, la media, la maggiore: l’assimilazione si arresta. Le due borghesie, l’anziana – che frattanto, avendo irrobustito la propria ossatura economica, aveva anche perfezionata la propria coscienza nazionale – e la cadetta – uscita pur ieri dal fango della strada – stanno ormai l’una di fronte all’altra, un po’ come il nobile e il villan rifatto, separate da antitesi e da mutue ripugnanze ideologiche, in gara per il riparto del poter; unite però, involontariamente, nel profondo, da una tendenza comune, imposta dalla ragione superiore del vivere, di fronte ai rispettivi proletariati, come uniche rappresentanti e vindici tutrici della “nazione”, identificandosi con lei e cercando così ognuna di tenere il proprio proletariato al suo seguito, dividendolo e soprattutto distogliendo dalla visione dei suoi fini e dei suoi interessi”.

Ben diversa era, invece, la storia dell’irredentismo trentino, che i nazionalisti in Italia, al pari dei liberal-nazionali triestini - continuavano ad identificare con la questione adriatica. In polemica diretta con Scipio Sighele, Vivante sottolinea con forza che i destini del Trentino e della Giulia sono fondamentalmente diversi “nelle ragioni etniche, storiche ed economiche” ed invece vengono continuamente appaiati e qual e là congiunti “persino con la Dalmazia!”. Fino all’ultimo Vivante cercò di smontare il “trucco contraddittorio” così caro alla propaganda nazionalista: “Da una parte consiste nello staccare la questione etnica giuliana dalle sue similari (conflitto ceco-tedesco in Boemia-Moravia, sloveno-tedesco in Stiria, polacco-ruteno in Galizia, ecc.), deformandola così irreparabilmente; dall’altro nell’identificare la situazione nella Giulia con quella del Trentino, che è essenzialmente diversa perché nel Trentino conflitto nazionale, nel senso vero della parola, non c’è. Salvo non vada nascendo in seguito nell’Alto Adige, dove (ironia della storia!) gli italiani fanno la parte di sloveni e i tedeschi quella di italiani!”

La polemica di Vivante con i nazionalisti risente su questo punto di una sua ferma convinzione che i fatti successivi avrebbero smentito. In una pagina dell’Irredentismo adriatico l’aveva esposta in modo inequivocabile: i gloriosi e “immancabili” destini nazionali delle “provincie irredente (quali e quante?)” in realtà “poi si scopre che son la trita e convenzionale speranza dello sfasciamento dell’Austria, cioè - per la Giulia – dello smembrarsi della comunione statale fra la costa orientale adriatica e il suo Hinterland, speranza (lo vedemmo e lo vedremo) in contrasto con tutta la storia del passato, e forse più, con quella presumibile dell’avvenire”.

Come commenta Collotti “Non è da dimenticare […] il presagio sempre più presente della guerra che si avverte nel lavoro di Vivante, anche se, al pari di Pittoni e di altri esponenti del socialismo triestino, gli fu sino alla fine estranea l’ipotesi di una dissoluzione dell’impero plurinazionale”.

Lo scoppio della guerra aggravò la sua fragile tenuta psichica, già segnata dalla drammatica rottura con la famiglia: il 1° luglio 1915 Vivante si suicidò. Sulla “Voce” lo ricordò con profondo rispetto Giuseppe Prezzolini, un uomo che di certo non condivideva le sue idee politiche ma che aveva apprezzato la sua grande onestà: “La grande guerra europea, che non credeva possibile, deve averlo turbato profondamente e condotto alla risoluzione tragica che ha preso”.


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