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storia_ts:documenti:1943_45



La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.

LA RESISTENZA ITALIANA (1943-1945) - L’Italia dal fascismo alla Repubblica

LA STORIA. La liberazione di Trieste

Parte prima:

Nei giorni della Liberazione il futuro assetto territoriale della Venezia Giulia è ancora incerto: l'iniziativa militare è in mano jugoslava e sulle prospettive della popolazione italiana pesa negativamente la recente ombra della politica fascista. La forza del CLN triestino è, dopo l'abbandono dei comunisti, quasi esclusivamente politica: per difendere la tesi dell'italianità di Trieste esso si affida alla prospettiva di un’occupazione anglo-americana. Ma le posizioni degli alleati sulla Venezia Giulia non sono omogenee poiché alla determinazione di Churchill di contrastare l'avanzata verso Occidente dell'esercito comunista di Tito, si contrappone la cautela della Casa Bianca. Solo negli ultimi giorni prima della Liberazione la “corsa per Trieste” assume caratteri drammatici e la contesa per la città diventa un'inquietante anticipazione della guerra fredda.

Il CLN fa un estremo tentativo per conservare l'iniziativa: il 30 aprile i reparti del Corpo volontari della libertà (circa 2000 uomini) occupano il centro della città e riescono a impedire la distruzione del porto già in precedenza minato dai tedeschi. Contemporaneamente, ma parallelamente ad essi, combattono i partigiani comunisti italiani e slavi. Alle 9.30 del primo maggio 1945 le avanguardie delle truppe jugoslave raggiungono Trieste, mentre la seconda divisione neozelandese, comandata dal generale Freyberg, si trova a 29 km. dalla città. Solo il 30 aprile il presidente americano Truman ha dato il suo assenso all'occupazione di Trieste da parte alleata. Ma è troppo tardi: gli anglo-americani entrano in città solo il 2 maggio ottenendo la resa degli ultimi reparti tedeschi.

Gli jugoslavi intanto hanno già imposto al CVL la consegna delle armi: il CLN, di fronte alla prospettiva di uno scontro con i reparti slavi riconosciuti come alleati dallo stesso governo nazionale, decide di ritirare le sue forze e tornare nella clandestinità. Iniziano così i quaranta giorni di occupazione jugoslava, durante i quali le autorità mirano ad accreditare presso i cittadini una politica di democrazia popolare: si creano organi di autoamministrazione civile, un'assemblea costituente rappresentativa anche dal punto di vista etnico, si sequestrano i beni di tedeschi e collaborazionisti e si cerca un accordo con gli ambienti industriali.

Nell'epurazione contro nemici e oppositori, a Trieste e nell'Istria, gli jugoslavi procedono molte volte in modo sommario: numerosi sono gli episodi di persone fatte scomparire nelle “foibe” (doline carsiche terminanti sul fondo con un inghiottitoio), ma le cifre e le responsabilità non sono tuttora completamente chiarite. Di certo da questi episodi ne risulteranno alimentati i rispettivi nazionalismi.

Nelle settimane successive la situazione diplomatica si definisce in maniera più precisa: gli alleati occidentali mostrano la chiara volontà di non accettare il fatto compiuto jugoslavo e Tito, avendo compreso che Mosca non è disposta a sostenerlo, si mostra disponibile alle trattative. L'occupazione jugoslava di Trieste si conclude pochi giorni dopo l'accordo di Belgrado, siglato il 9 giugno 1945, che stabilisce l'esistenza di due zone di occupazione temporanea rispettivamente sotto l'amministrazione alleata (Zona A, comprendente Trieste) e jugoslava (Zona B): la linea di demarcazione tra i due territori sarà quella proposta dal generale alleato Morgan. Il compromesso doveva avere carattere provvisorio per non pregiudicare la soluzione definitiva della controversia, che giungerà solamente nove anni dopo, nel 1954, quando, con il “Memorandum di Londra”, Trieste tornerà all'Italia.

Parte seconda:

La formazione delle prime bande partigiane avvenne in Friuli fin dal giugno 1943, anche sull'esempio delle forze dell'esercito di liberazione nazionale jugoslavo del maresciallo Tito. I rapporti tra i partigiani italiani e quelli jugoslavi non furono, però, sempre dei migliori; i partigiani jugoslavi, per ragioni tattiche, più volte “sconfinarono”, e fu a volte difficile mantenere legami di collaborazione. Durante l'estate del 1944, furono stabiliti accordi tra il CLNAI e rappresentanti jugoslavi per possibili collaborazioni operative, che non prevedevano però passaggi di forze da un comando all'altro. Nel dicembre del 1944, però, alcuni reparti della divisione Garibaldi Natisone passarono alle dirette dipendenze operative del IX Corpo dell'esercito di liberazione jugoslavo, senza neppure informare di questa decisione il Comando militare regionale veneto dal quale, almeno formalmente, dipendevano le forze del Friuli e della Venezia Giulia.

Il Comando regionale veneto mandò due ispettori per verificare la situazione che si era creata, ma non poté far altro che prendere atto della decisione, e registrare i dissidi che in seguito ad essa si erano manifestati (e che si sarebbero più tardi intensificati, fino ad arrivare all'eccidio di Porzus), tra i comandi e gli uomini delle formazioni “Garibaldi” e quelli delle “Osoppo”: “Il C[omando] R[egionale] V[eneto] sentiti i rapporti dei propri ispettori all'uopo inviati nel Friuli, constatato che due Brigate, facenti parte del Gruppo “Garibaldi-Osoppo” del Friuli - sinistra Tagliamento, sono passate a far parte del IX Corpo jugoslavo; ritenuto che detto passaggio di reparti al completo di comandi, uomini, armi e materiali è avvenuto senza il preventivo consenso del Comando di coordinamento Brigate Garibaldi-Osoppo del Friuli, e senza l'autorizzazione del Comando Regionale Veneto dal quale le formazioni Garibaldi hanno spontaneamente dichiarato di dipendere sia operativamente che logisticamente; dato che a tutt'oggi dai reparti suddetti non sono intervenute giustificazioni né spiegazioni sulla decisione presa e sui motivi che l'hanno determinata; deplora che il trasferimento di tali reparti ad un Corpo pur facente parte di un esercito alleato, sia avvenuto in un momento particolarmente critico per le nostre forze e in territorio di indiscussa sensibilità politica senza l'interpello e il consenso dei Comandi superiori e riaffermando la propria piena solidarietà col valoroso esercito del maresciallo Tito nella lotta contro i tedeschi e i fascisti; demanda al CLNAI ed eventualmente agli organi di Governo superiori, la risoluzione del problema politico-militare conseguente al trasferimento dei reparti in questione.”

[In C. SAONARA, (a cura di), Politica e organizzazione della Resistenza armata. II. Atti del Comando Militare Regionale Veneto (1945), Vicenza, Neri Pozza, 1993, p. 29]

Anche il CLN provinciale di Udine aveva manifestato il proprio disaccordo per il passaggio oltre confine delle forze della divisione Natisone, e il suo ordine del giorno rafforzava la posizione del Comando militare regionale veneto: ma le deliberazioni votate sia da Udine che dal Comando regionale non facevano che sottolineare l'impossibilità di controllare e influire sulle decisioni delle brigate partigiane da parte degli organismi, sia provinciale che regionale, che avrebbero dovuto dirigere la lotta partigiana: “Il Comando Militare Regionale Veneto, oggi riunitosi, assente il rappresentante del Partito Socialista, visto l'ordine del giorno votato dal CLN di Udine in data 4 dicembre 1944, udita la relazione dei propri ispettori, premessa la piena solidarietà e comunità di intenti con il valoroso esercito del Maresciallo Tito, formula all'unanimità le seguenti conclusioni:

1) Riconosce che le ragioni militari e politiche che hanno determinato il passaggio delle due Brigate Garibaldi alle dipendenze operative del IX Corpus sono tali da giustificare l'iniziativa di quel Comando di brigate; deplora invece che a suo tempo e ancora a tutt'oggi lo stesso Comando di Brigate non abbia del fatto data comunicazione al Comando Regionale, che considera le due unità sempre da esso dipendenti.

2) Constata e lamenta la eccessiva commozione suscitata anche nel campo partigiano dalla campagna allarmistica tuttora in corso a causa di inopportuni fatti propagandistici da parte di elementi sloveni; richiama ad una più esatta valutazione dei fatti che riporti alla necessaria fiducia nelle forze democratiche e permetta localmente di far fronte all'azione sobillatrice condotta da parte di elementi reazionari, subdolamente rafforzata dai nazifascisti, tendente a dividere le forze partigiane.

3) Richiama tutte le formazioni dipendenti operanti nella provincia di Udine invitandole perentoriamente a ricordare come nella semplice formula “strenua lotta ai nazifascisti” si identificano, senza deviazioni, i principi informatori della vita e dell'azione partigiana; infine precisa che nel Comando Regionale, che fiancheggia nel campo militare il CLN, dev'essere riconosciuto il solo istituto capace nella regione di guidare la lotta delle formazioni partigiane sia nel campo militare che in quello politico. (dicembre 1944) Il Comando Regionale Veneto.”

(Ibidem, pp. 29 - 30)

La situazione del movimento partigiano comunista all'inizio del 1945 nella descrizione di Vincenzo Bianco, inviato dalla direzione del PCI nella Venezia Giulia come delegato con pieni poteri:

“Situazione particolare delle zone miste della Venezia Giulia. La situazione dei due partiti, lì 24- 3-1945.

Movimento partigiano. Abbiamo circa 3 mila volontari Garibaldini, suddivisi come segue: Div. Garibaldi-Natisone: 1.200, Triestina: 500, Fontanot: 800, battaglione “Alma Ivoda” (sic!): 250, il resto nei vari servizi. Tutti sono integrati nell'esercito di Tito, secondo la decisione del CC in data 19.10.44.

I triestini o abitanti delle zone miste, saranno a dire molto mille in tutto. Il resto sono friulani e di tutte le regioni d'Italia comprese le isole. Gli iscritti al partito sono circa 500, tutti recenti, meno una diecina venuti molto prima della caduta del fascismo. Le tre più grandi unità hanno il loro giornale o Bollettino. Con la loro integrazione nell'esercito di Tito, ogni unità ha una Sezione politica che dirige e controlla l'attività di partito. Il lavoro di massa è compito del Commissario. Il F. della G. (Fronte della Gioventù, n.d.r.) Antifascista esisteva solo nella Divis., ma dopo la integrazione, su richiesta degli sloveni, si va trasformando in movimento giovanile comunista, in quanto che gli iugoslavi (sic!), considerano tutti i giovani volontari dell'esercito: antifascisti, perciò essi in massa fanno parte della G. anti. di Jugoslavia. I collegamenti con il movimento giovanile italiano, vengono tenuti dalla Federazione di Udine.

I compagni slov. acconsentirono che il Tricolore con la Stella rossa, fosse la Bandiera delle Unità italiane. Per i gradi e i distintivi dei C.L.N., la questione era ancora in pendenza al Comando supremo. Però gli slov. esigono che i distintivi del C.L.N. fossero aboliti. E' una questione su cui si può e si deve discutere. Il movimento partigiano, salvo l'afflusso dell'agosto scorso, come vedete nelle zone miste è debolissimo. Di tutti i partigiani, la massa degli indisciplinati è data in primo luogo dai triestini. Nel dicembre 44 (il 27) il III bat (battaglione, n.d.r.) della “Triestina” composto nella sua maggioranza di triestini e di italiani delle zone miste, durante un attacco si squagliò completamente. Parecchi passarono al nemico, la maggioranza cercò di raggiungere le proprie case. Parecchi furono riammessi nelle file del partito Monfalcone-Muggia. Il male peggiore è che tutti questi disertori fanno opera disfattista, senza che ci sia una controreazione da parte nostra. Tali fatti creano molto disagio nei rapporti con gli slov., a danno della maggioranza che è rimasta al loro posto di lotta.

Dovetti intervenire per fargli comprendere che di italiani ce ne sono di due specie come di jugoslavi”.

(Materiali delle organizzazioni comuniste della Venezia Giulia, in Archivio Istituto Gramsci, Roma)

Nell’aprile 1945 sulle colonne di Rinascita, il periodico del PCI, compare una lucida analisi della questione triestina a firma di un Tergestinus che non vuole essere identificato:

“Qualora si scorra la storia di Trieste, si rileva immediatamente il tragico contrasto che è alla base stessa della sua vita: il contrasto fra la lingua, la cultura e, in buona parte, la tradizione che la portano ad essere italiana e l'imperativo geografico ed economico che la portano ad essere straniera. […] Bisogna ben ricordare che se Trieste è italiana di lingua e di sentimenti, dal punto di vista economico è strettamente collegata al retroterra centro-europeo: qualunque soluzione che non tenesse conto di questi due elementi, sarebbe una soluzione incompleta, e porterebbe con se fatalmente o la snazionalizzazione della città, o la sua rapida decadenza e morte economica. […] Qual'è la situazione attuale della Venezia Giulia? […] Quanti siano gli appartenenti alle due nazionalità è difficile dire, ma si può ritenere che di fronte a 450-500.000 italiani stiano 550-600.000 tra sloveni e croati. E' inutile star qui a dimostrare che Trieste e gli altri centri urbani siano italiani: questo non è messo in dubbio neppure dagli slavi stessi, che si basano, per le loro rivendicazioni, essenzialmente su argomenti economici.

Bisogna però ricordare alcuni altri elementi. In primo luogo non si può parlare in genere per la Venezia Giulia di popolazioni bilingui, tali cioè da potere, in determinate circostanze, giocare nei calcoli statistici. E' bensì vero che quasi tutti gli sloveni sanno parlare anche l'italiano o il dialetto triestino, ma non perciò cessano di sentirsi slavi.

Alla divisione di nazionalità si accompagna spesso e qualche volta si sovrappone una divisione sociale: molto spesso gli italiani sono i professionisti, i piccoli proprietari, i piccoli industriali, mentre gli slavi sono i contadini, gli operai, gli artigiani, sì che alle rivendicazioni di nazionalità si sovrappongono rivendicazioni di classe, in modi così accesi da trarre alle volte nel campo avverso anche proletari italiani. […]

E' questo un fatto di cui si dovrà tener ben conto, specie se nella Jugoslavia i partiti di sinistra manterranno il sopravvento, mentre in Italia si continuasse a non riuscire a liberarsi delle molte scorie fasciste. […] Ciò che noi dobbiamo raggiungere è una soluzione che:

1) salvi la lingua, la cultura, la tradizione italiana, non solo di Trieste, ma di tutte le città italiane della Venezia Giulia;

2) dia alla città di Trieste e alla regione la possibilità di vivere, tenendo conto della sua posizione geografica e delle sue necessità economiche;

3) attenui il più possibile le ragioni di contrasto tra slavi e italiani, così acuitesi in quest'ultimo tempo e non faccia sì che in un futuro più o meno lontano la questione di Trieste debba essere l'origine di una nuova guerra.”

(In Rinascita, aprile 1945, pp. 102-105)

Churchill attribuiva una grande importanza strategica alla Venezia Giulia: dati i successi degli eserciti alleati in Italia nel 1944, egli aveva auspicato uno sbarco sulla costa nord-orientale dell'Adriatico, ma aveva incontrato l'opposizione degli Stati Uniti, che non intendevano sottrarre forze al fronte francese. Nell'aprile del 1945 egli si rivolge così al nuovo presidente americano Truman, esprimendo le sue preoccupazioni:

“The late President always attached great importance to Trieste, which he thought should be an international port forming an outlet into the Adriatic from all regions of the Danub Basin. There are many points to consider about this, but that there should be an outlet in the south seems of great interest to the trade of many states involved. The great thing is to be there before Tito's guerrillas are in occupation. Therefore it does not seem to me there is a minute to wait. The actual status of Trieste can be determined at pleisure. Possession is nine points of the law. I beg you for an early decision. […] The plan for the Anglo-American occupation of Venezia Giulia has been hanging fire in Washington for a considerable time, with the result that Field Marshal Alexander is still without orders. I should therefore be most grateful if you would give your personal attention to this.” [Il suo predecessore ha sempre attribuito una grande importanza a Trieste, che riteneva dovesse essere un porto internazionale che formasse una zona libera nell'Adriatico rispetto a tutte le regioni del Bacino del Danubio. Ci sono molti punti da considerare in merito, ma la possibilità che ci sia una zona libera rivolta a sud sembra di grande rilievo per il commercio di molti stati interessati.

La cosa essenziale è essere sul posto prima dell'occupazione da parte dei guerriglieri di Tito. Perciò non mi sembra ci sia un minuto da perdere. Lo status effettivo di Trieste può essere determinato a piacere. Il possesso dà i nove decimi del diritto. La invito a una rapida decisione. […]

Il piano per l'occupazione anglo-americana della Venezia Giulia è stato rimandato a Washington per un tempo considerevole, con il risultato che il maresciallo di campo Alexander è ancora senza ordini. Le sarei perciò estremamente grato se volesse rivolgere a ciò la sua attenzione.”]

(Da The British Prime Minister (Churchill) to President Truman, in Foreign Relations of the United States, 1945, IV, p. 1125)

Dalle parole del leader socialista Nenni, pronunciate a pochi giorni dalla liberazione di Trieste, traspare come dietro alle posizioni di principio, necessariamente generiche, si nascondesse non solo un problema politico-diplomatico di difficile soluzione, ma anche l'esigenza di impostare su nuove basi la politica estera del futuro stato democratico:

“Uno dei più gravi problemi che si pongono in questo momento davanti alla nazione, è quello di Trieste.

Noi rivendichiamo il diritto italiano di Trieste; non accetteremo soluzioni di forza, nè soluzioni unilaterali, ma affermiamo che se Trieste ci è contestata, se esiste in Europa un problema di Trieste, la colpa è del fascismo e della monarchia. Neghiamo a coloro che hanno fatto l'apologia della guerra fascista in Spagna, a coloro che hanno fatto l'apologia dell'aggressione italiana contro la Francia nel 1940, a coloro che hanno acclamato Mussolini quando ha portato la guerra in Grecia e in Jugoslavia, neghiamo a costoro il diritto di servirsi del nome di Trieste come di un passaporto per la loro riabilitazione. (Applausi prolungati).

Trieste non è stata difesa dai generali regi, che hanno capitolato il 10 settembre: è stata difesa dai pochi reparti dell'esercito che si sono costituiti dopo il settembre per lottare e combattere a fianco degli alleati; è stata difesa dai nostri partigiani, dagli insorti, ognuno dei quali, rialzando in Europa e nel mondo il prestigio dell'Italia, ci permetteva di domandare il rispetto dell'Italia (applausi). Trieste oggi non si difende rinnovando il carnevale dannunziano (approvazioni), dal quale sono derivate tutte le sciagure del popolo italiano in questi ultimi venticinque anni: Trieste si difende affermando che noi abbiamo dei torti da riparare verso la Jugoslavia; che noi abbiamo una frontiera da rivedere; che non vogliamo opprimere sloveni e croati; ma che, appunto perchè non vogliamo opprimere la altre nazionalità, intendiamo difendere gli italiani di Trieste (applausi).”

(P. NENNI, La Costituente all'ordine del giorno della Nazione, discorso pronunciato il 10 maggio 1945 al Teatro Brancaccio di Roma, Roma, Società editrice “Avanti!”, 1945)

Parte terza:

Inserito nel mondo culturale triestino, Pier Antonio Quarantotti Gambini intrattiene per anni un carteggio con Umberto Saba. Tra le opere: “I nostri simili” (1932), “L'onda dell'incrociatore” (1947), “Primavera a Trieste. Ricordi del '45” (1951), “La calda vita” (1958):

“Martedì 1 maggio. Nella più lontana infanzia, il primo maggio ci destava la banda. “Sono i socialisti” udii una volta. “Questa è la festa dei socialisti”. Era la festa dei lavoratori; ed era il compleanno di Alvise, cui pareva suonassero per lui.

Primo maggio 1945: cosa ci porterà questo giorno? E' già luce, la battaglia si riaccende; e non si può fare a meno di pensare che oggi è un martedì. E a quante altre cose non si riesce a non pensare. Correva voce quest'inverno che, secondo un'affermazione di Stalin, la guerra finirebbe il primo maggio. E correva insistente, fatta circolare dagli stessi agenti slavi, la profezia che il primo maggio gli uomini di Tito entrerebbero a Trieste.

Ed ecco, oggi è il primo maggio. Ci leviamo, ansiosi, per vivere la nuova vicenda. Chi sa che la notte non ci abbia portato aiuto. Tra poco sapremo. Mentre riudiamo sempre più fitto e in tutte le sue voci il crepitare delle mitraglie e detonazioni e fragori cupi da ogni parte, che annunciano un'altra giornata come ieri, comincia a squillare il telefono.

“Sono veramente a Monfalcone” ci dicono. “Neozelandesi e bersaglieri. Tra poco saranno a Trieste”. Come si vorrebbe poter credere; e com'è poi difficile, se appena ci si lascia prendere, saper resistere alla speranza! Telefono al mio amico Vattovani.

“Non so quanto avviene a Monfalcone”' odo, concitata, la sua voce grave; “ma posso dirti quello che vedo qui. Il primo carro armato di Tito è sceso in questo momento dalla via Fabio Severo. Ecco, ora ne passano altri due…”.

E' come una stilettata, fredda, nel cuore. Non so cosa rispondo; e, quasi a cercar qualcosa, annaspo con le mani intorno al telefono. I carri di Tito a Trieste, già. Vanno a porsi, mi dice, davanti al palazzo di Giustizia (ove sono asserragliati i funzionari germanici del Supremo Commissario), e cominciano a sparare contro i muri, verso le finestre e sui portoni. Dunque è questa l'unica notizia controllata, vera; questo che ci riservava il primo maggio.

Resto seduto accanto al telefono, senza parole; senza la forza, quasi, di rialzarmi. Non so dire l'impressione di annientamento, totale, che provo a questo pensiero: gli slavi sono a Trieste.

Poi sento, nel più profondo, quasi un impeto di ribellione: quanto inutile! Le nostre città esistevano in faccia a questo mare, coi loro porti, e i teatri, le arene, le vie decumane e i cardini massimi, secoli e secoli avanti che gli slavi facessero la prima comparsa in Europa al seguito di eserciti d'altri popoli cui prestavano i propri servigi; e circa un millennio avanti che le prime colonie di pastori slavi si insediassero stabilmente entro la cerchia delle Alpi Giulie; e, da allora, vale a dire sin dall'inizio di quella ch'è la storia della nostra regione, un'occupazione slava delle nostre città non si è mai avuta. Soltanto scorrerie, culminate alla fine del secolo XVI come sanno Albona e Rovigno, di pirati e di predoni uscocchi: occupazioni, e con la pretesa d'imporre una soggezione politica, mai.

Tocca alla nostra generazione (ma che cosa, in nome di Dio, non è toccato alla nostra generazione?) di soggiacere, come l'Alta Italia di fronte ai longobardi, all'invasione di questo esercito d'oltralpe, le cui staffette sono state gli sloveni e i croati immigrati nelle nostre campagne e, da ultimo, nella stessa Trieste.

Prima quasi ch'io raccolga i pensieri, tutto il passato della nostra gente d'Istria - non immigrata da trenta o da sessant'anni, ma originaria di qui, e iniziatrice delle fortune di queste città costiere sin dai primi albori dell'epoca dei Comuni - mi è presente e m'interroga, mi domanda un perché. Non si può, non si sa rispondere. Vedo il mio stesso smarrimento, e questa improvvisa mancanza di forze per cui ci si sente le gambe come intorpidite e lente, prima in mamma, venuta a domandarmi che cosa so di nuovo, e poi in tutti gli altri. E' strano: non dovevamo, ormai, aspettarcelo?

Sì, ma la speranza resiste sino a un attimo prima dell'irreparabile; e la disperazione è il terreno su cui la speranza cresce più forte. E poi, altro è temere e altro è subire.

Restiamo in silenzio; in ascolto, soltanto, della battaglia; che ora ci appare inutile, vana, e non sappiamo perché continui. Più tardi squilla il telefono. Ma come ci disturba, adesso; vorremmo non udirlo più.

Qualcuno ci annuncia felice (ma cos'è questa favola, ormai? e chi ci può credere?) che neozelandesi e una formazione di bersaglieri sono a Barcola. Rispondiamo con la notizia che nessuno ancora sa, e che gela la parola sul labbro a chi ci ascolta: i carri armati di Tito sono già a Trieste.

I neozelandesi e i bersaglieri a Barcola; e, aggiungono seriamente taluni, con la banda in testa! E' possibile che il desiderio disperato di un popolo crei ancora, all'infinito, e quando la realtà è ormai controllabile, queste allucinazioni? E' puerile; non sembra credibile. Pure è così. A meno che non siano gli slavi stessi a insinuare ad arte, o almeno a favorire e a far correre queste voci; perché essi vorrebbero che un po' di folla accorresse a festeggiare gli uomini di Tito; ciò di cui già si preoccupano è la minaccia di un compatto astensionismo da quella che vorrebbero annunciare al mondo - oggi primo maggio - come un'entusiastica festa di liberazione. Non è dunque escluso ch'essi lancino queste voci, o approfittino di esse, nella speranza di farci correre in strada, tra poco quando cesserà l'ultima resistenza nazista, ad applaudire i sopravvenuti, nel fervore cieco del momento, come se fossero quegli angloamericani che l'ansia di tutti attende. E' proprio impossibile scambiarli al primo istante? I carri armati su cui i titini montano non sono inglesi e americani?

Si, il popolo crede, ancora, che gli alleati stiano giungendo. E' difficile davvero capire come quest'allucinazione resista; pure resiste.

Tanto che noi stessi siamo indotti, di lì a poco, a telefonare a Barcola. Non è possibile, infine, che gli angloamericani stiano entrando da quella parte mentre gli jugoslavi scendono dalla via Fabio Severo?

Non lo si può escludere, se iersera erano, come sappiamo, a Pordenone. Nulla. Nessuno a Barcola vede nulla. Impossibile ormai ogni illusione: soltanto gli slavi stanno entrando a Trieste. E, se i carri di Tito hanno potuto scendere dall'altipiano ed entrare in città, vuol dire che la resistenza tedesca è definitivamente allentata e rotta. Tra poco avremo la resa.

Che ore sono? Neanche le nove. Ascoltiamo la battaglia, attendendo. Quello che ci preoccupa, adesso, è quali possano essere, sin da questo momento, le relazioni del nostro Esecutivo militare e del CLN coi comandanti jugoslavi, e quali i rapporti tra i volontari della libertà e gli uomini di Tito.

Il CLN aveva nominato un comandante di piazza; quale sarà la sua posizione oggi? Ascoltiamo, sempre, la sparatoria e le esplosioni. Tra poco, pensiamo, la battaglia declinerà: scoppi sempre più radi, qualche ultimo crepitio; e poi, nel silenzio che segue le azioni di guerra, splenderà immutata su Trieste, che dall'invasione germanica sarà passata a quella jugoslava, questa prima giornata di maggio. La notizia, trasmessa ieri alle 12.30 da Radio Londra su un'informazione bugiarda, “Trieste è stata liberata dalle truppe di Tito”, verrà ormai confermata e diffusa da tutte le emittenti d'Europa e d'America; e così, con alcune parole ieri e alcune oggi, si annulla agli occhi del mondo la nostra insurrezione, mentre i nostri morti sono ancora insepolti.

Ascoltiamo, dunque; e c'è adesso in noi l'amarezza che tutto volga alla fine, quasi il rimpianto che la battaglia stia per concludersi. Ma si spara sempre, da ogni parte.

Strano. Sebbene la difesa germanica si sia allentata sino a lasciar penetrare i carri di Tito, per uno dei passaggi obbligati ove il fuoco avrebbe dovuto sbarrare la via sino all'ultimo, si ha ora l'impressione che la battaglia non accenni ad affievolirsi e a desistere, ma al contrario si accenda e infierisca sempre più. Entrano nel coro voci nuove, ora qua e ora là: sparano, è facile capirlo, i carri armati di Tito. Aerei ci sorvolano, insistenti, e anche contro di essi si accanisce la difesa tedesca. Ma non sono velivoli da battaglia.

Lo sappiamo in mattinata da Radio Venezia (mamma, in orgasmo per Alvise e per Nike, che sono a Venezia, ha aperto la radio per sentire cosa succede lì; e udiamo, assieme alla marcia del Piave che ci prende alla gola, le ultime notizie d'Italia e d'Europa).”A Trieste” dice a un tratto Radio Venezia Libera “la battaglia infuria”. E aggiunge che i ricognitori aerei non sono in grado di riferire di più, perché la zona è troppo battuta dal fuoco e devono tenersi ad alta quota.

A mezza mattina si è accesa qui sotto sulle rive, verso piazza Unità, una sparatoria furibonda. Si udivano le cupe mitragliere tedesche sparare compatte, inferocite, con una violenza crescente che pareva volesse coprire anche gli scoppi delle granate. Più tardi sapremo che sono stati i volontari della libertà, che, dopo aver issato il tricolore sul palazzo della Prefettura - preso subito di mira dalle raffiche tedesche - hanno iniziato un'azione risolutiva, coadiuvati da partigiani slavi, contro i marinai tedeschi in procinto di far brillare le mine disseminate lungo le rive. Risaliti sui loro natanti, i tedeschi si sono accaniti con tutte le armi di bordo contro le posizioni dei nostri, che hanno osato tuttavia, assieme alle stelle rosse, avvicinarsi sempre più alle rive per proteggerle da altri tentativi di far saltare le mine.

Ma quali sono, dunque, le relazioni tra i nostri volontari e gli slavi? Le notizie che ci giungono continuamente da varie parti della città dicono che gli uomini di Tito vorrebbero imporre ai nostri volontari di ritirarsi; e anche il nostro comando, per evitare uno spargimento di sangue che oltre ad essere inutile acuirebbe in avvenire l'ostilità tra i giuliani e gli slavi, avrebbe diramato alle varie brigate l'ordine di lasciare il campo. Ma i nostri, a quanto ci dicono, continuano a combattere, a brigate intere ove possono, e altrove a nuclei sparsi tra le formazioni di Tito e quelle comuniste triestine. Si sente anche dire che molti tra i nostri sono stati messi in un'alternativa: o prendere la stella rossa o deporre le armi, e hanno preso la stella rossa.

A spingere le cose a questi estremi sarebbero gli stessi commissari del popolo triestini, i quali vanno sobillando i comandanti slavi contro i volontari della libertà, che cercavano di fraternizzare e di collaborare con le truppe sopravvenute. Perché su di noi pesa anche questa disdetta: dopo aver subito il nazifascismo, che ha compromesso le sorti dei nostri confini, ci tocca ora assistere all'opera di questi nostri comunisti, che, preoccupati nel loro troppo facile idealismo di opporsi a ogni rinascita di spirito nazionalista italiano (quasi fosse il momento per simili atteggiamenti!), non si accorgono delle mire nazionaliste degli altri e si pongono addirittura al loro servizio credendo di giovare alla causa internazionale, e portano così a compimento - ciechi fatali prosecutori - proprio l'ultimo disastroso risultato del fascismo. Diranno, essi, che i ciechi siamo noi. Diranno che non vediamo i nuovi tempi che si avanzano, le grandi necessità sociali che urgono: un'epoca più umana, l'epoca di tutti. Si sbagliano.”

(P. A. QUARANTOTTI GAMBINI, Primavera a Trieste. Ricordi del '45, Milano, Mondadori, 1951, pp. 58-63)

Leopoldo Gasparini, dirigente comunista giuliano attivo nella Resistenza e nel dopoguerra direttore de “Il Lavoratore”, organo dei comunisti triestini, ricorda i “quaranta giorni” dell'occupazione jugoslava di Trieste. E' una testimonianza successiva, influenzata dal clima di ostilità che seguì nel giugno 1948 la rottura tra Stalin e Tito (e quindi fra comunisti italiani e sloveni), ma, comunque, significativa:

“Molto è stato scritto sui “quaranta giorni“, cioè del periodo dal 1 maggio 1945, giorno della liberazione di Trieste, al 12 giugno, quando le autorità anglo-americane presero possesso dell'amministrazione della città e di quella che venne chiamata zona A, in base all'accordo Alexander-Tito: da una parte, la direzione titista condusse una propaganda su vasta scala a base di campagne di stampa, pubblicazione di libri ed opuscoli, memoriali, ecc. per illuminare l'opinione pubblica mondiale sul significato e sulle attività delle “Istituzioni create dal popolo di Trieste vittorioso”, sull'instaurazione di un “regime di democrazia progressiva” - come si legge nelle documentazioni ufficiali di quel tempo. Dall'altra la reazione nazionalista italiana, ed anche quella slovena, si servì dello slogan dei “quaranta giorni” nella lotta contro il comunismo per rinfocolare odii e provocare urti durante tutti questi anni, per compiere una sistematica campagna di denigrazione delle conquiste del socialismo e della democrazia popolare, identificate in qualcosa come i “quaranta giorni”. […] Dopo il 1 maggio i compagni sloveni ebbero l'ordine di indossare la divisa partigiana, a noi non fu data invece nessuna disposizione.”

(L. GASPARINI, Atto d'accusa dei comunisti triestini contro il titismo, Fondo Vittorio Vidali, fasc. 66, Archivio Fondazione Istituto Gramsci)

Gasparini prosegue citando testimonianze di alcuni “compagni”:

“I comitati popolari erano di preferenza composti o diretti da persone che non avevano nulla in comune con il proletariato e con i contadini poveri. Per esempio a Prosecco il presidente del Comitato popolare era il più ricco contadino del paese, a Basovizza lo stesso. Anche ad Opicina il Comitato era composto in buona parte da piccolo-borghesi sloveni. L'amministrazione dei beni nazionali era nelle mani di persone nominate dall'alto, tra cui non c'era neppur un membro del Partito. Non si esercitava su questo Comitato il più piccolo controllo sull'impiego del patrimonio popolare. Presidente, ad Opicina era uno tra i più forti commercianti locali.”

Ecco gli scheletrici ma eloquenti appunti di un compagno di Gorizia: “1 maggio 1945: occupazione di Gorizia. Mobilitazione per il lavoro obbligatorio fatta a mo' di “rastrellamento”. Requisizione delle biciclette e delle macchine fotografiche senza discriminazione. Fuga da Gorizia anche di elementi che per mesi hanno collaborato coi partigiani. Delusione. Un giorno ha rovinato mesi a venire. 3 maggio 1945: riunione a Gorizia dei comunisti italiani con qualche compagno sloveno. Poco tatto degli sloveni che a Gorizia ignorano la “minoranza”. Fanno tutto da soli. I nostri compagni parlano di nazionalismo slavo. I nostri attivisti sono trascurati. Dovunque compaiono dirigenti e funzionari sloveni. Conquista del territorio anzichè conquista delle masse. …

Gli sloveni non badano a noi. Si fanno più dolci con noi nei modi, man mano che il terreno sotto i piedi viene a mancare e che l'occupazione inglese si avvicina. Ma mentre noi guardiamo alle masse, essi con affanno costruiscono un'autorità legale da presentare completa nella sua impalcatura agli inglesi. Pallone gonfiato che un colpo di spillo inglese svuoterà. Occorreva opporre dei fatti che tranquillizzassero le nostre masse. Fatti, cioè provvedimenti che dessero alle città italiane anche un colore italiano.”

(Ibidem)

BIBLIOGRAFIA:

SULLA POLITICA DEI PARTITI:

- Trieste nella lotta per la democrazia, Trieste, (s.n.), 1945, a cura del Comitato cittadino dell’AUIS.
- Il socialismo triestino nella lotta antifascista e nella difesa dell'italianità: 1942-1948, (s.l)., Edito a cura dell'Ufficio stampa del Partito socialista della Venezia Giulia, 1948
- L. LONGO, I comunisti italiani e il problema triestino, Edizioni del PC del TLT, 1953
- I cattolici triestini durante la resistenza, Udine, Del Bianco, 1960
- Aspetti della lotta politica nella Venezia Giulia 1944-45, in “MLI ”, 1961, n. 64
- U. MASSOLA, Una polemica tra comunisti italiani e sloveni durante l'ultimo conflitto mondiale, in “Critica marxista”,1970, n.5
- P. PALLANTE, Il Pci e la questione nazionale. Friuli-Venezia Giulia 1941-1945, Udine, Del Bianco, 1980
- P. PALLANTE, Trieste 1944-45: la politica dei comunisti italiani dopo la “svolta” jugoslava, In “Storia contemporanea”, 1987, n. 6
- R. GUALTIERI, Togliatti e la politica estera italiana dalla resistenza al trattato di pace: 1943-1947, Roma, Editori Riuniti, 1995

SU EPISODI SPECIFICI:

- F. CUSIN, La liberazione di Trieste: contributo alla storiografia non nazionalistica di Trieste, Trieste, Zigliotti, 1946
- G. PADOAN (Vanni), Abbiamo lottato insieme, partigiani italiani e sloveni al confine orientale, Udine, Del Bianco, 1965
- E. MASERATI, L'occupazione jugoslava di Trieste: maggio-giugno 1945, Udine, Del Bianco, 1968
- E. MASERATI, Bibliografia dei periodici clandestini della Venezia Giulia in lingua italiana e bilingui, 1943-45, in Fascismo, guerra, resistenza: lotte politiche e sociali nel Friuli-Venezia Giulia, 1918-1945, Trieste, Libreria internazionale Italo Svevo, 1969
- A. CLOCCHIATTI, Cammina frut, Milano, Vangelista, 1972


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