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storia_ts:cronologia:1945_1948



La ridistribuzione senza fini di lucro dei contenuti di questa pagina, anche se in forma parziale, deve citare il sito di provenienza www.atrieste.eu, i nomi degli autori, professori Fabio Francescato e Bruno Pizzamei, ed il fatto che si tratta della rielaborazione per il web di un ipertesto sviluppato dagli autori nel 1999 per conto del comune di Trieste e da questo distribuito gratuitamente nelle scuole. Non è ammessa la ridistribuzione con fini di lucro senza esplicita autorizzazione degli autori e dell'acquirente dell'opera.


LA CITTÀ OCCUPATA: 1945 – 1948

1° maggio 1945

Entrano in città le avanguardie della IV Armata jugoslava, cui si erano aggiunte alcune brigate partigiane. Si conclude così la “corsa per Trieste”: l'esercito di liberazione jugoslavo aveva forzato i termini delle operazioni, correndo anche qualche rischio, pur di concludere con successo la marcia di avvicinamento. Trieste, infatti, venne raggiunta prima di Lubiana e Zagabria 1).

Le truppe jugoslave chiedono la consegna immediata delle armi al Corpo volontari della libertà, che decide di ritirare le sue forze. In questo modo gli jugoslavi vogliono sottolineare il fatto di essere gli unici “liberatori” della città e di averne il totale controllo.

2 maggio 1945

Entrano in città i soldati della seconda divisione neozelandese.

Racconta Geoffrey Cox che fino al fiume Isonzo le truppe neozelandesi erano state salutate come liberatrici. Al di là del fiume cessarono i saluti e “improvvisamente […] l'atmosfera cambiò completamente. C'era qualcosa di diverso, di indefinibile, […] ma indubbiamente c'era qualcosa. Ci sentimmo stranieri in una terra straniera, come se all'Isonzo avessimo varcato un confine non tracciato ma certo. Infatti era così. Eravamo passati dall'Italia in quella che doveva diventare la terra di nessuno tra l'Europa orientale e l'Europa occidentale, e come ogni terra di nessuno era estremamente inospitale. […] Trieste doveva il suo destino al fatto di essere l'unica zona in Europa in cui gli alleati occidentali e l'Unione Sovietica non avevano stabilito in anticipo una linea di demarcazione inequivocabile. Entrambe le parti […] avevano pensato che ci sarebbe stato tutto da guadagnare a lasciare nel vago il futuro della Venezia Giulia”2).

maggio – giugno 1945

Il 3 maggio le autorità militari jugoslave assumono anche formalmente i poteri militari e civili, emanando le prime ordinanze: le sottoscrivono il “Commissario politico” Franc Stoka e il “Comandante di città” maggior generale Josip Cerni. Sullo sfondo una città divisa tra le forze di liberazione che diplomaticamente hanno concordato le diverse zone di controllo: “È stata stabilita una linea di demarcazione” – scrive Sylvia Sprigge – “[…]: il porto ed il lungomare sono occupati dalle truppe e dalle unità neozelandesi e dalle unità navali britanniche, mentre il resto della città è in mano alle forze jugoslave. La linea non è munita: l’ho potuta attraversare per andare a visitare degli amici”3).

Con l'“Ordine N. 1” è reso noto che “nella città di Trieste ogni potere viene assunto dal Comando Città di Trieste che proclama lo stato di guerra”; si stabilisce inoltre un rigoroso coprifuoco e l’obbligo di un’autorizzazione specifica del Comando per la circolazione degli autoveicoli. Significativo è il 5° punto del testo, secondo il quale “Domani, 4 maggio, alle ore 1 di mattina tutti gli orologi vengono spostati indietro di un’ora, in modo da uniformare il tempo con quello del resto della Jugoslavia”.

Come sottolinea Ennio Maserati, le autorità militari jugoslave sapevano bene che il loro controllo sulla città si sarebbe concluso con la fine delle operazioni militari nella zona e che il potere sarebbe passato poi agli organi amministrativi civili presenti in città: si trattava quindi, nella loro ottica, di assicurare nel più breve tempo possibile il massimo del potere politico e di controllo al Comitato esecutivo antifascista Italo-sloveno (CEAIS), organismo creato agli inizi di aprile e da loro controllato 4).

Tra il 4 maggio e l’11 maggio venne emanata una serie di ordinanze con cui le autorità jugoslave tentarono a tappe forzate di imporre una sorta di nazionalizzazione dei più importanti settori finanziari e commerciali.

Furono sottoposte ad un rigido controllo le banche e vennero chiuse le compagnie di assicurazione. Venne progettata anche, ma l’iniziativa non ebbe poi realizzazione concreta, la sostituzione della lira italiana in circolazione con una nuova lira del Litorale. Dalla fine di maggio ai primi giorni di giugno vennero prelevate dalla Banca d’Italia somme per una cifra complessiva di 160 milioni, con “ordine del Governo nazionale sloveno e d’accordo col ministero delle Finanze sloveno”.

Le proprietà dei cittadini italiani non vennero confiscate, ma per il futuro vennero proibite le compravendite e le operazioni di trasferimento di capitali.

Infine le ordinanze emesse il 10 e l’11 maggio mirarono ad imporre un forte controllo sulle industrie e sulle aziende commerciali, comprese le botteghe degli artigiani.

La volontà di considerare come “sussidiarie” l’economia di Trieste e quella della Slovenia emerse nel modo più evidente a maggio, durante un incontro a Lubiana tra una rappresentanza di dirigenti industriali triestini e il governo nazionale sloveno.

Così Il nostro Avvenire 5) riportò le parole del presidente del governo sloveno Boris Kidric a conclusione dell’incontro: “Signori! Ci siamo messi d’accordo in linea di principio nelle questioni seguenti:
1) La Jugoslavia ha bisogno dei vostri prodotti industriali.
2) Trieste venderà alla Jugoslavia.
3) L’industria triestina dispone nella Jugoslavia di molte materie prime.
4) Tutti siamo interessati che i reciproci rapporti commerciali abbiano inizio quanto prima.
5) Tanto per voi, quanto per noi è necessario che presto si sviluppi l’iniziativa privata.
6) Spero che questa prima riunione dia origine a vivaci contatti e forti legami economici”
.

Questi provvedimenti, secondo Novak, “costituirono un’altra prova del tentativo delle autorità jugoslave di introdurre il comunismo. Questo vale soprattutto per Trieste, che era la sede delle maggiori industrie e dei più importanti istituti finanziari e commerciali della regione”.

Più sfumata, ma sostanzialmente analoga, l’interpretazione di Ennio Maserati: “I lineamenti fondamentali della locale politica jugoslava in materia economica, sociale ed amministrativa sono improntati sulla creazione di un sistema improvvisato di governo popolare di ispirazione progressista, preludente all’instaurazione di formule collettiviste e comuniste, sia pur mascherate a Trieste per esigenze di carattere propagandistico e psicologico. Contemporaneamente si tende a cancellare non solo ogni traccia delle strutture tipicamente fasciste ma anche del preesistente ordinamento amministrativo e giudiziario italiano, per inserire Trieste nel nuovo quadro statale jugoslavo”.

Uno dei segni di questa strategia seguita dagli jugoslavi è la costituzione di un sindacato “unico” a direzione comunista 6).

I “Sindacati unici” operarono come uno degli organismi fondamentali del nuovo “potere popolare” fino a quando, nel mese di maggio, il Governo Militare Alleato riconobbe ai sindacati il ruolo di rappresentanza e di tutela dei lavoratori esclusivamente in materia contrattuale e salariale.

4 maggio 1945

Nel suo diario Quarantotti Gambini ci dà un’immagine molto viva di una manifestazione inscenata dalla “gente del Carso”: come dichiara l’autore stesso, in queste pagine più che un’analisi storica di quella drammatica primavera va cercato “ciò che un giuliano ha provato, veduto, udito”.

Al dolore di un istriano che teme per il destino di Trieste e della propria terra, si mescolano alcuni temi retorici che ricordano certi stereotipi della tradizione liberalnazionale: “Passano uomini e donne a due a due, in una rada e lenta fila, reggendo una quantità inverosimile di bandiere bianche rosse e blu (alcune strette e interminabili, quasi sempre serpentine, come consentono i colori uniti per lungo), e drappi, sempre bianchi rossi e blu, pendenti dall’asta come stendardi. […] Non sono triestini (basta, a capirlo, un solo sguardo); ma gente del Carso e forse di più su. Vecchi e donne.
[…] È una processione, e di campagna. Tutta gente calata dai paesi sloveni, dalle caratteristiche facce bionde un po’ schiacciate; vecchi contadini, che schivano di guardarsi intorno; e ragazzotte, quasi tutte tarchiate, vestite con vecchie uniformi fasciste di Giovani Italiane. Gli uomini procedono in silenzio reggendo le aste delle bandiere e dei gonfaloni con semplice solennità campestre; ma le ragazze, di tanto in tanto, alzano la voce come se intonassero un lungo canto liturgico o rispondessero alle litanie. Voci stridule, e lamentose, che suonano stranamente qui a Trieste.
[…] Sono piccoli, in genere, questi sloveni; notevolmente più bassi di quella che è la statura media dei triestini e degli istriani. Osservo loro e poi i cittadini che mi passano accanto; sì, c’è una differenza di statura, oltre che somatica e di costituzione, che sorprende. Ho sempre pensato che gli jugoslavi fossero più alti; e quelli che avevo davanti dovevano essere quasi tutti croati o dalmati o intellettuali. Questi sloveni della campagna – e qui posso constatarlo perché ne ho, per la prima volta, alcune centinaie sotto gli occhi: uniformemente bassi e ossuti, biondicci e scabri – sembrano non cresciuti qui vicino ma di tutt’altri paesi, a paragone dei triestini che sono alti e baldi (baldi anche ora – son fatti così – nonostante le angosce di questi giorni impresse su tutti i volti). Questa differenza risalta più ancora nelle ragazze. Le slovene, di corporatura corta e muscolosa (il fisico di tante servotte, pulitissime, oneste e formidabili lavoratrici, delle cosiddette «donne del latte»), sono esattamente l’opposto delle triestine, dai torsi slanciati e dalla gambe lunghe.
Sfila sempre lenta e rada sugli asfalti della città la processione di campagna, con tutte le sue bandiere all’aria di maggio; e ogni tanto si alza una voce di donna, e poi un’altra, e un’altra: anch’esse di tutt’altro timbro, così stridule e lamentose, da quelle delle donne nostre. Penso come sarebbe un’autentica manifestazione triestina. Si procederebbe – reggendo il tricolore – quasi di corsa, e un inno proromperebbe da tutti i petti. E le ragazze, irruenti, infuocate, sfilerebbero in testa”
.

5 maggio 1945

Scoppiano sanguinosi incidenti in via Imbriani, che portano alla morte di cinque giovani italiani.

Un concitato resoconto di seconda mano è riportato dall’anarchico Umberto Tommasini, giunto a Trieste una settimana dopo i drammatici fatti: “Quando mi son rivà, iera za successo el fato. Iera i primi giorni di magio. Xe vignudi fora i Slavi e i comunisti e ga fato una manifestazione. Anche a san Giacomo i ga messo fora le bandiere rosse de le finestre e quando che xe arivai i partigiani i ghe le ga fate ritirar, meter fora slave, qualche bandiera rossa, pochissime. I ga ritardado un’ora de far la manifestazion; partiva da Modiano perché iera prima i operai. La gente che ne fazeva parte, gaveva quasi tute le bandiere rosse e dopo bandiere italiane co’ la stela e dopo bandiere slave co’ la stela, qualcheduna. Ma i dava contrordini: «Via le bandiere rosse, solo le bandiere nazionali». Dopo: «Ben, qualche bandiera rossa». Iera un tira e mola: «Bandiera rossa … bandiera nazionale». Fato sta i xe andai zo co’ quasi tute bandiere nazionali, qualche rossa, rarissima. Me lo ga dito el marì di una cugina de mia molie; lui parlava croato-italiano e lo ga ciolto in caserma a Roian. I xe vignui zo de Scala Santa, i ga ocupà la caserma e i gaveva messo fora la bandiera rossa de la caserma; i ga avudo ordine imediatamente de ritirar la bandiera rossa e de meter la bandiera croata. Alora el comandante slavo là ga dito: «Anche Tito el ne ga imbroià, el ne ga tradì». Quel là iera forsi un rivoluzionario, uno che ghe tigniva a l’internazionalismo. Questa espressione anche in mezo a loro iera, che no’ i soportava le bandiere nazionali.
I repubblicani dopo i ga fato una contromanifestazione, quando che iera i Slavi che i xe andai zo co’ le bandiere nazionali, e ghe ga sparado e ghe ga amazzado quei quattro-cinque in via Imbriani perché i xe andai co’ le bandiere nazionali. Iera una ripresa, una ritorsione perché xe sta el grave erore dei Slavi, de venir zo co’ tute bandiere nazionali e inveze, se i vegniva co’ le bandiere rosse, no’ i ghe dava l’esca a quei altri de ritorsione”
.

La manifestazione italiana, iniziata da elementi del CVL, assunse presto dimensioni notevoli: molte persone di passaggio per il centro seguirono la bandiera italiana. Il corteo si stava svolgendo pacificamente, quando alcune pattuglie jugoslave – “forse allarmate dalla consistenza della folla e temendo un tentativo insurrezionale”, scrive Maserati – aprirono il fuoco dall’angolo di via Imbriani. I caduti ufficialmente riconosciuti furono Graziano Burla, Carlo Murra, Graziano Novelli, Mirano Sanzin, Giovanna Dassich.

“I metodi impiegati dal Comando Militare jugoslavo” – scrive Ennio Maserati – “resi ancora più oppressivi ed arbitrari da iniziative di elementi locali del fronte Sloveno, della Difesa Popolare e da organizzazioni di polizia politica insediatesi nel territorio quali l’OZNA (Oddelek Zascite Naroda = Dipartimento per la difesa del popolo) richiamarono l’attenzione dei governi alleati, già insoddisfatti dell’occupazione jugoslava del porto adriatico, e colpirono l’opinione pubblica internazionale” 7).

7 – 8 maggio 1945

Nella Casa del Popolo si riuniscono le diverse organizzazioni antifasciste italo-slovene della città per rinnovare le cariche del CEAIS. Presidente del Comitato esecutivo è eletto il medico Umberto Zoratti (democratico indipendente); vicepresidenti Giuseppe Gustincich (comunista) e Franc Stoka (OF = Fronte di Liberazione sloveno); segretari l’italiano ing. Fulvio Storti (democratico indipendente) e lo sloveno Rudi Ursic (OF).

I delegati del CEAIS – circa una sessantina – decidono di assumere la denominazione di Consiglio di Liberazione di Trieste, trasformando così l’istituzione partigiana in un organo amministrativo cui sarebbe toccato il compito di amministrare la città appena finite le operazioni militari e la guerra.

Al CLT sarebbe toccato il compito di organizzare nel più breve tempo possibile le elezioni per formare un’amministrazione permanente della città secondo il modello jugoslavo (un’Assemblea cittadina e un Comitato esecutivo).

I rappresentanti italiani eletti nel Comitato esecutivo divennero subito bersaglio di una dura campagna di stampa da parte delle forze aderenti al CLN, che li accusarono di collaborazionismo e li additarono polemicamente all’opinione pubblica cittadina 8).

L’8 maggio si costituiscono i Sindacati unici degli operai, impiegati e intellettuali: “Alla Casa del popolo” – scrivono Paolo Sema e Claudia Bibalo – “si riuniscono quelli che erano stati i Comitati di fabbrica e di rione di Unità operaia, il Comitato circondariale e i delegati che erano stati eletti nei luoghi di lavoro per questa prima assise e per la formazione del Comitato circondariale che dirigerà la nuova organizzazione. L’assemblea è presieduta da Tomo Brejc del Comitato centrale dei sindacati jugoslavi; è stato segretario regionale del Partito comunista sloveno del Litorale nel 1942 e responsabile delle redazione di Delavska Enotnost per la Slovenia. Egli espone i principi fondamentali in «seno alla riforma sindacale in atto. I nuovi sindacati, egli dice, veri rappresentanti della massa lavoratrice, potranno finalmente tutelare gli interessi dei lavoratori. Il problema più importante oggi è ricostruire e produrre. Prima ricostruiremo prima godremo i frutti del nostro lavoro. Non potranno e non vi dovranno essere disoccupati nella nostra città; e in quanto al lavoro ce ne sarà fin troppo»”.

Le direttive che emergono fin dall’inizio sono chiaramente finalizzate alla costituzione di una rappresentanza aziendale e di sindacato “che non ha nulla a che fare” – sottolineano Sema e Bibalo – “col tipo di sindacato che opera in Italia e difatti mai si parla nelle direttive, nelle assemblee, nelle notizie sui giornali dell’esperienza della CGIL, dei Consigli di gestione, delle Commissioni interne, delle lotte del proletariato italiano. Il modello è quello della società socialista e ci si richiama alla realtà esistente in Jugoslavia. Per queste ragioni, i compiti fondamentali affidati al sindacato sono quelli legati alla produzione, alla ricostruzione, al controllo dei «piani stabiliti dalle competenti autorità»”.

I dirigenti eletti alla fine dei lavori provengono quasi tutti da Unità operaia, di cui erano stati a loro volta dirigenti; degli altri, Stanko Francovich proveniva dal Comitato circondariale dell’OF, Gianna Barut era membro della associazione Donne antifasciste italiane.

10 maggio 1945

Durante un discorso pronunciato il 10 maggio 1945 a Roma, al Teatro Brancaccio, Pietro Nenni affronta quella che presto si sarebbe imposta all’attenzione internazionale come la “questione di Trieste”. Nelle sue parole, come dietro alle posizioni di principio, necessariamente generiche, si nasconde non solo un problema politico-diplomatico di difficile soluzione, ma anche l'esigenza di impostare su nuove basi la politica estera del futuro stato democratico: “Uno dei più gravi problemi che si pongono in questo momento davanti alla nazione è quello di Trieste. Noi rivendichiamo il diritto italiano di Trieste; non accetteremo soluzioni di forza, né soluzioni unilaterali, ma affermiamo che se Trieste ci è contestata, se esiste in Europa un problema di Trieste, la colpa è del fascismo e della monarchia. Neghiamo a coloro che hanno fatto l'apologia della guerra fascista in Spagna, a coloro che hanno fatto l'apologia dell'aggressione italiana contro la Francia nel 1940, a coloro che hanno acclamato Mussolini quando ha portato la guerra in Grecia e in Jugoslavia, neghiamo a costoro il diritto di servirsi del nome di Trieste come di un passaporto per la loro riabilitazione.
Trieste non è stata difesa dai generali regi, che hanno capitolato il 10 settembre: è stata difesa dai pochi reparti dell'esercito che si sono costituiti dopo il settembre per lottare e combattere a fianco degli alleati; è stata difesa dai nostri partigiani, dagli insorti, ognuno dei quali, rialzando in Europa e nel mondo il prestigio dell'Italia, ci permetteva di domandare il rispetto dell'Italia. Trieste oggi non si difende rinnovando il carnevale dannunziano, dal quale sono derivate tutte le sciagure del popolo italiano in questi ultimi venticinque anni: Trieste si difende affermando che noi abbiamo dei torti da riparare verso la Jugoslavia; che noi abbiamo una frontiera da rivedere; che non vogliamo opprimere sloveni e croati; ma che, appunto perché non vogliamo opprimere la altre nazionalità, intendiamo difendere gli italiani di Trieste”
.

13 maggio 1945

Alla presenza dei rappresentanti delle missioni militari inglesi, americane e russe il generale Dusan Kveder, a capo del Comando Città di Trieste, trasferisce l’amministrazione civile al CLT. È lo stesso Kveder a dichiarare che “alla città di Trieste, che conta una maggioranza di popolazione di origine italiana, si concede l’autonomia, la più ampia autonomia in seno alla democratica e federativa Jugoslavia”9).

Il Comando della città conserva, però, la competenza sugli affari interni, sul commercio estero e sull’industria.

Durante il periodo dell'occupazione gli jugoslavi cercarono in tutti i modi di organizzare il consenso alla tesi annessionistica e di superare ogni opposizione politica – lo stesso CLN dovette tornare nella clandestinità – che la contrastasse in qualche modo.

In questi “quaranta giorni” la strategia politica jugoslava si venne modificando: in un primo momento puntò all'annessione pura e semplice della città alla Slovenia; in un secondo momento, dopo la netta presa di posizione degli alleati e la consegna del promemoria di Alexander a Tito il 9 maggio, gli jugoslavi abbandonarono l'idea dell'annessione alla Slovenia e ripiegarono sulla soluzione di Trieste quale “Settima repubblica” in seno alla “federazione jugoslava” 10).

Il radicale cambiamento della posizione americana, che fino a quel momento era stata attenta ad evitare ogni motivo di conflitto, è ben testimoniato dal telegramma inviato a Churchill il 12 maggio da Truman, da un mese succeduto a Roosevelt alla carica di presidente degli USA: “Se i suoi metodi daranno buoni risultati nella Venezia Giulia, pare che Tito abbia già pronte rivendicazioni identiche sull'Austria meridionale, Carinzia e Stiria, e potrebbe progettare qualcosa di analogo anche per parte dell'Ungheria e della Grecia […]. Si tratta fondamentalmente di decidere se i nostri due paesi intendono permettere ai nostri alleati di intraprendere un'incontrollata espansione e di perseguire tattiche che ricordano troppo da vicino quelle di Hitler e del Giappone”.

Nel periodo di presenza della IV Armata a Trieste deportazioni, processi e “infoibamenti” sottolinearono tragicamente la durezza dei rapporti politici e umani dopo anni e anni di guerra e di violenze

11).

L’opera di repressione nei confronti degli avversari politici aveva un duplice scopo: da una parte porre fine a ciò che ancora rimaneva della vecchia classe dirigente fascista, dall’altra colpire e neutralizzare gli oppositori al nuovo regime, anche se questi erano antifascisti ed avevano combattuto a fianco dei partigiani jugoslavi, come testimoniano le persecuzioni a numerosi appartenenti al CLN, colpevoli solo di opporsi alla annessione di Trieste alla Jugoslavia.

La situazione in città diventò ancor più tesa per le continue voci sul ripetersi degli “infoibamenti”, che rinnovavano drammaticamente il ricordo del settembre del 1943: questa volta il fenomeno era ancora più allarmante e coinvolgeva anche altri territori, da Trieste alla Venezia Giulia.

“Così, ciò che avvenne nelle prime settimane di maggio” – scrive Raoul Pupo – “sembrò confermare le peggiori aspettative, dal momento che un’ondata di arresti del presumibile ordine di grandezza di parecchie migliaia di unità, unita all’assenza di notizie sulla sorte dei detenuti, venne immediatamente associata al ricordo degli episodi del 1943, lasciando presumere una strage di dimensione inaudite. Il successivo rilascio di parte dei detenuti, avvenuto in sordina e ultimato appena nell’arco di alcuni anni, senza peraltro che fosse stata chiarita la sorte di molti degli scomparsi, non avrebbe più scalfito una convinzione ormai consolidata” 12).

13 – 17 maggio 1945

A conclusione delle elezioni per i 1.348 delegati dell’Assemblea costituente della città – per la prima volta le donne parteciparono a Trieste ad una consultazione elettorale – gli eletti si riuniscono nel teatro Rossetti e confermano i 19 membri del CLT, dando ad esso un carattere permanente: per acclamazione vengono eletti i 120 membri che costituiscono la Consulta della città. 13)

Gli organi amministrativi della città sono a questo punto delineati: un Consiglio di Liberazione di 27 membri, di cui 18 italiani e 9 sloveni, con funzioni legislative ed esecutive limitatamente alla città autonoma di Trieste, ed una Consulta cittadina con funzioni legislative delegate per determinati settori, primo quello relativo alla costituzione del nuovo ordinamento giudiziario.

14)

Ai lavori dell’Assemblea costituente parteciparono ufficialmente i rappresentanti militari della Gran Bretagna, degli USA e dell’URSS. La loro presenza – come quella del 3 maggio al palazzo municipale – venne interpretata da più parti come un riconoscimento di fatto dei nuovi organi amministrativi, in conformità agli accordi verbali stretti tra Tito ed Alexander nel mese di febbraio.

In realtà le intenzioni degli alleati occidentali erano ben diverse, come il Segretario di Stato Joseph Grew chiarì il giorno stesso a Washington. Era intenzione del governo americano istituire nella Venezia Giulia un controllo militare alleato: “Gli Stati Uniti sono fermamente convinti che eventuali modifiche territoriali potranno essere accettate solo dopo attenti studi e accurate consultazioni e delibere dei vari governi interessati”.

15 maggio 1945

Sul giornale Il nostro Avvenire compare un articolo nel quale si preannuncia “la futura piena autonomia di Trieste nella nuova Jugoslavia di Tito”.

L’autore principale, se non l’unico, della proposta jugoslava sull’autonomia è Edvard Kardelj, secondo il quale Trieste di per sé non era in grado di sviluppare un’attività portuale autonoma, né poteva essere unita all’Italia senza che ciò comportasse l’annessione di alcuni territori sloveni: poiché avrebbe rappresentato un’isola nel territorio sloveno, la soluzione più giusta sarebbe stata attribuire alla città un’autonomia all’interno della federazione jugoslava.

19 – 21 maggio 1945

Dopo l’insuccesso della missione a Belgrado del generale William Morgan, capo di stato maggiore di Alexander,

15) l’atteggiamento di Alexander mutò al punto da inviare alle truppe alleate un messaggio di grande durezza contro Tito e le sue truppe di occupazione:

“La nostra politica pubblicamente proclamata è che le modifiche territoriali dovrebbero essere attuate soltanto dopo studi approfonditi e dopo esaurienti consultazioni e deliberazioni tra i vari governi interessati. Tuttavia la manifesta intenzione del maresciallo Tito è di far valere le sue rivendicazioni con la forza delle armi e con l’occupazione militare. Azioni di questo genere ci ricorderebbero fin troppo bene l’esempio di Hitler, di Mussolini e del Giappone. È stato per impedire queste azioni che noi abbiamo combattuto questa guerra. […] Non possiamo ora distruggere il principio vitale per cui noi tutti abbiamo combattuto. Ed in virtù di questi principi è ora nostro dovere tenere questi territori contestati in amministrazione fiduciaria, finché la Conferenza della Pace non disporrà definitivamente il loro destino”.

La durezza e l’autorevolezza del messaggio di Alexander non lasciano adito a dubbi, anche perché nella stessa direzione si sta muovendo il presidente degli Stati Uniti, Truman, che si dichiara disponibile anche ad usare la forza per “sbattere gli jugoslavi fuori da Trieste”

16).

Dietro queste minacciose parole di Truman – come sottolinea Valdevit – pesava indubbiamente il caso della Polonia, che era in qualche modo diventata “la cartina di tornasole delle intenzioni sovietiche circa la ricostruzione dell’Europa”.

Il comportamento dell’Armata Rossa in Polonia appariva infatti agli americani come l’evidente dimostrazione che l’URSS considerava ormai la dichiarazione di Yalta “pressoché lettera morta”: bisognava evitare assolutamente che Trieste facesse una fine analoga.

Per costringere la diplomazia jugoslava al negoziato fu sufficiente agli angloamericani spostare le truppe di qualche chilometro verso est, quasi a ridosso di quella linea che poi verrà definita dagli accordi di Belgrado, e proporre nel contempo come soluzione di compromesso la spartizione dei territori contesi in due diverse zone di controllo: in sostanza la soluzione che una ventina di giorni dopo sarà firmata a Belgrado.

Non si arrivò allo scontro armato anche perché il governo jugoslavo era ben cosciente della propria debolezza nei confronti degli angloamericani e sapeva che attendersi in quel frangente un concreto appoggio militare dal parte dell’URSS era del tutto chimerico.

A Trieste la mancata “risposta” militare da parte di Londra e di Washington fu accolta con delusione in vari ambienti. Se ne fa testimone Quarantotti Gambini, che così rievoca quelle attese frustrate: “Spettava ora a Churchill e a Truman di rispondere, di prendere una decisione e una posizione; soltanto essi avevano la possibilità, parando istantaneamente il colpo, di annullare la mossa jugoslava e di rimettere Alexander in sella. Parare il colpo? Sì: rispondendo a Tito che la questione non si era minimamente spostata nel campo politico, ch’essa non poteva essere, oggi come ieri, se non di carattere militare, e riguardava quindi Alexander nella normale esplicazione delle sue funzioni, e non già le Cancellerie. In tal caso, senza il minimo pericolo di guerra – perché Tito rischia sinché la posta vale il gioco – tutto si sarebbe risolto in poche ore. Invece Inghilterra e America hanno accettato la tesi di Tito, favorendo in tal modo tutto il gioco di Belgrado e chiudendo irrimediabilmente il cerchio intorno ad Alexander. Tito ha vibrato il primo colpo per disarmare il comandante del Mediterraneo; Churchill e Truman, anziché sostenerlo e ridargli la possibilità d’agire confermando che la questione era di sua stretta dipendenza, hanno disarmato Alexander del tutto e gli hanno serrato essi stessi le manette ai polsi”.

26 maggio 1945

Tito tiene un discorso davanti alle truppe a Lubiana. Nel suo diario Sylvia Sprigge ne riporta alcuni passi “«I nostri fratelli dell’Istria e del Litorale Sloveno [Venezia Giulia] sono liberi, ma quelli della Carinzia ancora attendono la loro liberazione. A nome vostro ed a nome della Jugoslavia dichiaro che non abbiamo dimenticato i nostri fratelli della Carinzia che tremano ancora sotto gli agenti della Gestapo, nascosti dietro altre uniformi». A proposito della Venezia Giulia continuava: «Respingo decisamente l’accusa secondo cui nostra intenzione è la conquista con l’uso della forza: non abbiamo bisogno di prenderci con la forza ciò che è nostro diritto, perché confidiamo che gli Alleati manterranno le promesse del Patto Atlantico, per cui i popoli oppressi hanno il diritto di decidere da soli il proprio destino»”.

Ma nelle parole di Tito non mancò anche un accenno polemico, neanche tanto larvato, ad un altro interlocutore, che doveva accogliere il suo messaggio da Mosca: “Noi non vogliamo pagare il conto degli altri, non vogliamo essere moneta di scambio, non vogliamo essere immischiati in non so quale sfera di interessi politici […] non vogliamo dipendere da nessuno, nonostante tutto quello che è stato scritto ed è stato detto”.

La reazione di Stalin non lasciò spazio ad equivoci e mutò profondamente i termini della contesa: “Egli minacciò Tito di rendere pubblico il dissidio che li divideva” – scrive Joze Pirjevec – “abbandonando la Jugoslavia alla sua sorte”.

17)

Tale minaccia ebbe naturalmente sul maresciallo e sui suoi collaboratori il debito effetto.

Da quel momento il loro pensiero principale fu quello di ritirarsi in buon ordine da Trieste e prepararsi alla lotta diplomatica, tesa, se non alla riconquista della città, che sapevano irrimediabilmente perduta, almeno ad una frontiera più favorevole della linea Morgan.

L’ottimismo con cui Tito il 12 maggio, in occasione della fondazione del Partito comunista serbo, aveva proclamato che “l’amore dell’Unione Sovietica nei nostri confronti è sconfinato”, è ormai solo un ricordo, come rivelò anni dopo con grande amarezza: “Oggi posso dire […] che mentre stavamo combattendo con noi stessi a proposito della terribile decisione se abbandonare o meno Trieste, non ricevemmo nessun aiuto morale, nessun segno, da parte dell’Unione Sovietica. Notte dopo notte rimasi seduto presso il telefono aspettando almeno una parola, un consiglio. Ma non sentimmo nulla, poiché i loro interessi non erano direttamente toccati”.

estate 1945

Nel corso dell’estate 1945 la politica estera del governo italiano comincia a mostrare una minor intransigenza nella difesa della linea fino ad allora sostenuta e cioè il riconoscimento del Trattato di Rapallo come unica base di contrattazione nella discussione sulla frontiera orientale del paese: era il segno di una disponibilità ad accettare una soluzione “diversa e apparentemente meno rispondente ai fini della completa tutela degli interessi italiani nella Venezia Giulia”.

Ma era anche il segno del maggior “realismo” con cui Roma guardava ai rapporti di forza in campo internazionale e al ruolo centrale che in questo scenario svolgeva il governo di Washington: “Secondo gli elementi finora a nostra conoscenza” – scrive Raoul Pupo – “la decisione di puntare sulla linea Wilson venne esplicitamente assunta dal governo italiano dopo che una serie di contatti con il Dipartimento di Stato aveva confermato la disponibilità americana a sostenere la nuova ipotesi di frontiera. […] Il puntare […] nel 1945 sull’accettazione della linea Wilson significava presupporre, perlomeno a livello di intenti, la conservazione all’Italia di una funzione certo non velleitariamente egemone, ma nemmeno esclusivamente di secondo piano, nell’area mediterranea e balcanica. Ma erano proprio quelli i presupposti che, dopo l’esperienza dell’aggressione fascista, gli ex-nemici dell’Italia, e in particolare la Jugoslavia, intendevano mettere radicalmente in discussione”.

In realtà fino a quel momento la diplomazia italiana si era illusa che la firma dell’armistizio da parte degli inglesi e degli americani comportasse per Londra e Washington una sorta di obbligo di assumersi la responsabilità di tutto il territorio nazionale e quindi anche della Venezia Giulia nei confini prebellici: in quest’ottica – osserva acutamente Pupo – chi minacciava gli interessi dell’Italia sarebbe dovuto diventare automaticamente un nemico delle potenze alleate cui l’Italia aveva offerto la propria resa!

Il rifiuto dei comandi alleati di impegnarsi nella “corsa per Trieste” e la successiva occupazione jugoslava della città avevano finalmente aperto gli occhi alle autorità italiane, troppo a lungo offuscati da una “radicale incapacità ad intendere la natura politica del conflitto in corso”: i governi occidentali non avevano alcuna intenzione di rompere con gli alleati jugoslavi a fianco dei quali avevano fino ad allora combattuto i nazisti e i fascisti, loro alleati, e non intendevano nell’immediato futuro lasciarsi invischiare, per curare gli interessi altrui, in una crisi balcanica da cui sarebbero stato arduo uscire.

2 giugno 1945

Sylvia Sprigge riferisce che tutti i giornali di Trieste hanno dato ampio spazio alle dichiarazioni fatte dal vescovo Santin: “Sono lieto di poter affermare che sono sempre stato trattato con gentilezza e con correttezza dalle autorità locali, jugoslave e comunali: secondo, che non sono mai stato deportato né segregato in casa sotto la sorveglianza della polizia, e non ho mai avuto motivo di temerli [le autorità locali]; terzo, che l’attività religiosa a Trieste è potuta proseguire indisturbata e quarto che la processione del Corpus Domini è stata svolta in tono minore ed in una chiesa diversa solo a causa di impedimenti materiali, mentre le autorità non solo non ci facevano ostruzionismo, ma anzi ci davano ogni assistenza per assicurare lo svolgimento regolare e solenne della cerimonia. Firmato Antonio Santin”18).

Va tenuto presente, a proposito di quell’accenno a “tutti i giornali di Trieste”, che durante i “quaranta giorni” l’unico quotidiano di lingua italiana ad uscire indisturbato fu Il nostro avvenire, che appoggiava le tendenze annessionistiche dei gruppi dell’OF.

9 giugno 1945

I rapporti tra gli alleati e l'URSS non sono ancora improntati ad una rigida contrapposizione: di fronte alla pressione americana, Stalin, che aveva interessi ben più rilevanti da tutelare, decide di non sostenere ulteriormente le rivendicazioni jugoslave.

In questo nuovo contesto, il 9 giugno gli jugoslavi firmano a Belgrado un accordo per la definizione di una linea di demarcazione provvisoria che passava a pochi chilometri ad oriente della città: viene così accettata la “linea Morgan” e pochi giorni dopo la IV Armata abbandona Trieste.

In base all'accordo di Belgrado la parte orientale della Venezia Giulia, la cosiddetta Zona B, rimaneva sotto l'occupazione jugoslava, ma doveva essere amministrata come unità territoriale separata. La parte rimanente dei territori contesi veniva a costituire la Zona A – compresa anche l'enclave di Pola – e passava sotto amministrazione alleata.

Va tenuto presente che l’articolo 3 dell’accordo non attribuiva un indiscusso e definitivo potere di governo all’amministrazione militare alleata: in tal modo erano gettate le premesse di quel binomio controverso tra il controllo effettivo del territorio e la vertenza diplomatica che avrebbe condizionato fino al 1954 la “questione di Trieste”.

12 giugno 1945

Le autorità alleate subentrano agli jugoslavi nel controllo della città.19)

In breve tempo il Governo Militare Alleato liquidò gli organi di governo lasciati dagli jugoslavi e ripristinò sostanzialmente il vecchio apparato amministrativo italiano. Per di più il GMA si assunse gran parte del compito di procurare le risorse necessarie alle più urgenti opere di ricostruzione e al riavvio delle attività produttive.

In realtà per gli alleati la ricostruzione si presentava soprattutto come un problema di ordine pubblico: assicurare lavoro alla popolazione significava garantire la riappacificazione sociale e l’ordine, condizioni minime per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti da Londra e da Washington. Venne così applicato anche a Trieste quel programma di “prevention of disease and unrest” seguito in tutte le zone controllate dagli alleati: bisognava in primo luogo “prevenire malattie che potrebbero diffondersi alle truppe e agitazioni che potrebbero richiedere il loro intervento”.

La speranza era che la città, superati i momenti più tragici dell’immediato dopoguerra, cominciasse prima possibile a camminare sulle proprie gambe: una speranza destinata ben presto a svanire, sia per la radicalizzazione dei rapporti politici in città e nello scenario internazionale, sia per l’estrema debolezza dell’economia triestina.

La vita economica della città era infatti drammaticamente ferma. Gran parte delle industrie e delle raffinerie di petrolio era gravemente danneggiata in seguito ai bombardamenti e il porto era bloccato dai relitti di molte navi mercantili e da guerra di diverse bandiere: basti pensare che i primi rifornimenti giunti a Trieste via mare furono scaricati con i mezzi da sbarco alleati sulla spiaggia di uno stabilimento balneare vicino al Campo Marzio.

La situazione in cui Trieste venne a trovarsi all'indomani degli accordi presi a Belgrado viene sintetizzata con grande lucidità da Apih: “Con le distruzioni e le vittime (un migliaio) provocate dai bombardamenti, con le ripetute occupazioni, Trieste aveva toccato il fondo amaro della sua natura contraddittoria: l'odio della campagna, la condizione di isola del suo retroterra, il carattere artificioso e classista del suo sviluppo, l'assenza di universalità nella sua idea di nazione. Non solo a Klagenfurt e a Lubiana, ma anche a Basovizza si era deciso di essa”.

L'uscita dal secondo conflitto mondiale collocava infatti la città in una situazione del tutto nuova: il suo naturale retroterra (che prima del primo conflitto mondiale si estendeva fino al centro-Europa e che nell'intervallo tra le due guerre si era ridotto di fatto all'area dell'ex Venezia Giulia), ora risulta quasi scomparso, dando luogo ad una città-provincia dove il Comune capoluogo copre il 40% dell'area provinciale, ma comprende l'89% della popolazione dell'area stessa e dove i nove decimi del confine provinciale sarebbero diventati confine di stato.

Nello stesso periodo, non diversamente da quanto era accaduto nella Zona A controllata dagli alleati, l'introduzione dell'amministrazione civile jugoslava nella Zona B determinò una situazione di fatto favorevole alla Jugoslavia.

In realtà queste scelte “amministrative” prefigurarono le future scelte definitive, condizionando tutto il dibattito politico nel decennio 1945 – 1954, anche se formalmente gli accordi di Belgrado dovevano essere considerati soltanto provvisori, in vigore fino alla firma di un Trattato di pace vero e proprio.

luglio – ottobre 1945

Sotto il Governo Militare Alleato viene assicurata una maggiore libertà per l’attività dei partiti. Mentre il CLN comincia perdere compattezza e incisività politica – formalmente sarebbe rimasto in piedi fino alla firma del Trattato di pace – i vari partiti che lo costituiscono vanno prendendo strade autonome. Liberali e cattolici si definiscono secondo le linee politiche caratteristiche dei partiti che agivano sulla scena italiana; gli uomini del Partito d’azione, fondendosi con i repubblicani, daranno vita al Partito repubblicano d’azione.

Il partito socialista (PSIUP) si trova invece in una situazione particolare: mentre in Italia socialisti e comunisti sono vicini e collaborano assieme al governo, a Trieste i socialisti assumono una linea autonoma sulla questione nazionale, rifiutando di seguire la scelta comunista di allineamento alla politica jugoslava e rifiutando ogni discussione sulla scelta a favore dell’Italia. Ai loro occhi i veri “nazionalisti”, infatti, sono solo gli jugoslavi.

L’Ora Socialista, settimanale del PSIUP, dichiara che “l’imposizione del nazionalismo slavo violento ed intollerante ha provocato la rottura dell’unione proletaria”. Quello jugoslavo, pertanto, non è il vero socialismo, anzi “non vi è chi non veda come i popoli jugoslavi siano stati galvanizzati dall’aver i loro capi ad essi additato la «terra promessa», la Venezia Giulia. Accarezzati nel loro sentimento più vivo i popoli della Jugoslavia hanno aderito all’ideologia perché essa si identificava con la loro passione nazionale”.

Sul fronte comunista la questione nazionale venne vissuta in modo del tutto diverso, come testimonia la fondazione, il 13 agosto, del Partito comunista della regione giulia, cui aderirono i comunisti italiani, sloveni e croati. A settembre il neonato partito si pronunciò formalmente a favore della federazione della città alla Repubblica democratica federativa jugoslava, – la parola d’ordine era “Trieste-VII Repubblica” – provocando la disapprovazione del Partito comunista italiano, che non pubblicò sull’Unità l’intervento del rappresentante dei comunisti triestini al V Congresso.20)

“Ci fu qualche dissidenza e qualche uscita dal partito, specie a Muggia, ma l’insieme del fronte della democrazia popolare” – scrive Apih – “rimase compatto. Più che dell’organizzazione, ciò era ancor sempre effetto del senso di classe e dell’aspirazione alla palingenesi sociale, a una società politica pienamente democratica, che questa gente recepiva sull’onda emotiva e morale del prezzo pagato durante la guerra e la precedente dittatura. Non era il «tradimento» di cui venivano accusati, ma una scelta di campo, che però portava all’estremo – anche perché accompagnata da insensibilità per il dramma dell’italianità istriana – la spaccatura sociale”.

Nel frattempo la questione nazionale ha effetti dirompenti anche all’interno del mondo sindacale: in contrapposizione ai Sindacati unici, di stretta osservanza politica comunista, viene fondata un’organizzazione sindacale alternativa, i Sindacati giuliani, con un programma ispirato a criteri interclassisti che incontra in breve tempo ampi consensi tra i seguaci del «partito italiano».

Agli inizi il nuovo sindacato trova i suoi iscritti soprattutto tra i ceti medi impiegatizi, nel pubblico impiego e nei servizi, che vedono in esso una più agguerrita difesa nei confronti delle proprie amministrazioni che hanno sede in Italia. Già alla fine dell’anno, però, – a novembre viene assunta la denominazione di «Camera del Lavoro» – si costituiscono all’interno delle fabbriche le prime Commissioni interne della Camera confederale del lavoro (CCdL), in alternativa ai Comitati dei Sindacati unici. I rapporti tra i due sindacati si fanno subito molto tesi.21)

In agosto gli ufficiali alleati del 13° Corpo (“Civil Affairs”) pongono le basi per l’attuazione del GMA, che viene progettato secondo il modello del “Governo diretto” (“Direct Rule”), lo stesso che viene applicato alla Germania e all’Austria: il GMA diventa così l’unica autorità di governo della Zona A.

Come scrive Valdevit, “A tale decisione si arriva perché il fronte antifascista a Trieste è già da tempo spaccato e ciò non consente la formazione di governi locali di larga unità antifascista. In particolare il Partito Comunista si contrappone alle autorità di occupazione alleate, con le quali ingaggia un confronto che domina lo scenario politico triestino per tutto il 1946 e il 1947. Tali controversie vengono interpretate dalle autorità militari di occupazione come segno di una profonda intossicazione della società triestina ad opera di agenti patogeni ostili ai principi della democrazia liberale, tant’è che la ricostruzione della democrazia (ma anche dell’economia) a Trieste – al pari di altre realtà che si considerano pure intossicate (dal nazismo) quali l’Austria e la Germania – è un processo guidato e diretto dalle autorità di occupazione. Il direct rule fa del GMA l’unica autorità di governo della Zona A. Sotto il profilo del potere i partiti e gli stessi organi amministrativi locali sono relegati a funzioni marginali”.

Per di più, a differenza di quanto stava accadendo nel vicino Friuli e nel resto d’Italia, dove i partiti cercavano una loro legittimazione sui grandi temi quali la ricostruzione del tessuto politico ed economico, a Trieste il dibattito sembra risolversi a tutti i livelli alla questione nazionale e al problema dei confini: “Ne consegue che la ricerca del consenso diventa problema ossessivo e si orienta attorno alla questione del confine, per cui entrambi gli schieramenti contrapposti – il fronte italiano e quello filojugoslavo, come si diceva allora, – si legittimano assumendo la veste di portatori dell’interesse nazionale, tant’è che chi sta sul versante opposto viene definito semplicemente «antinazionale». «Slavo-comunista» è, ad esempio un epiteto largamente usato dal fronte filoitaliano all’indirizzo dell’avversario, il quale è tale appunto perché difende gli interessi di uno stato, la Jugoslavia, nonché quelli di un sistema sovranazionale, il comunismo. Da tutto ciò deriva una sorta di marchio d’origine sulla dialettica politica triestina e giuliana, un marchio che perdurerà a lungo, in pratica fino ai tempi odierni, sia pur con intensità decrescente”.

In questo contesto è ben comprensibile che il dramma delle foibe trovi un’eco immediata nella stampa locale. L’8 settembre la Vita Nuova pubblica un articolo dai toni molto duri nel quale nazismo e comunismo vengono identificati: “Proclamiamo che questi mezzi di sistematica distruzione, non dissimili in sostanza ai malfamati forni crematori ed alle camere a gas dei campi di concentramento di Buchenwald e di Auschwitz, sono feroci ed iniqui e che UMANITÀ e RELIGIONE esigono che tali brutalità abbiano termine e che non rimangano impunite”.

Toni simili si trovano ripetutamente tra settembre e novembre nel periodico della diocesi e diventano potente veicolo di polemica contro il comunismo: “Il comunismo è distruttore implacabile e violento di tutti i valori spirituali, sociali e nazionali, che formano il nostro patrimonio ideale di cattolici, di europei, di italiani. La dottrina comunista […] tende, senza inutili circonlocuzioni, a cancellare totalmente nell’uomo il sentimento religioso, il sentimento patrio, il sentimento familiare”.

In questo clima, fatto di disorientamento e di tensioni crescenti, tornano a far capolino anche tra le forze che avevano dato vita al CLN i vecchi ed abusati temi del nazionalismo triestino. Ad ottobre sulle pagine de La Voce libera, portavoce ufficioso del CLN, 22) si può leggere: “Soltanto l'inurbarsi delle masse rustiche, conseguenza della trasformazione economico-sociale dell'ultimo secolo, portò alla slavizzazione più o meno completa delle varie città della Jugoslavia. È naturale perciò che la psicologia della Nazione campagnola, pur proclamando di voler rispettare l'italianità, si attenda qualche cosa di simile per le città italiane della Venezia Giulia […]. Tali aspettative non tengono conto di alcuni fatti fondamentali […]. Nulla di simile è concepibile nella Venezia Giulia. Qui italiani si è o non si è. L'italianità è un elemento congenito delle famiglie e degli individui – chi scrive è tutt'altro che razzista – ma vorrebbe dire quasi qualcosa di biologico”.

Ricompare così a pochi mesi dalla fine della guerra il vecchio ritornello sulla differenza di civiltà tra la città e il “contado”, accompagnata dal presupposto che la coscienza nazionale e il diritto di appartenere ad una o all'altra possono venire affermati solo a condizione che venga rispettato il maggior diritto storico del popolo che vanta una cultura superiore. “Il concetto di Kulturnation ritorna” – scrive Apih – “inglobato con quello di «civiltà occidentale»”.

L’acutizzarsi dello scontro politico sfocia ben presto in un’ondata di violenze, al centro delle quali compaiono spesso squadristi provenienti anche da varie città dell’Italia settentrionale. Così agli inizi di novembre, tra i partecipanti ad una manifestazione indetta dal CLN di Trieste vengono notati studenti armati di manganello provenienti da Padova, Venezia, Bologna. Tra gli aggressori fascisti responsabili dei disordini vengono riconosciuti alcuni elementi noti tra cui Luigi Viezzoli, dell’Ispettorato di via Bellosguardo.

A Roiano una trentina di giovani fascisti molestano numerosi cittadini. La polizia ne arresta una ventina e vengono trovati manganelli con anima di piombo e pugni di ferro.

Nei pressi della sede della Democrazia cristiana cinque operai vengono feriti dagli squadristi a colpi di pistola.

Nel centro cittadino compaiono scritte firmate “ZAP” (“Zivio Ante Pavelic”). 23)

4 – 8 luglio 1945

Uno dei problemi più delicati in cui si imbatterono le autorità del GMA fu quello delle scuole. “Un’adeguata opera di ricostruzione” – scrive Alfredo Vernier – “era urgente qui come altrove per riparare i danni che il fascismo e la guerra avevano prodotto nella scuola; ma qui, dove il guasto, soprattutto quello morale, era stato maggiore che altrove, occorreva ancora qualcos’altro. Occorreva, in primo luogo, provvedere a ripristinare le scuole con insegnamento nella lingua materna, che il fascismo aveva soppresso; occorreva, poi sopire anche per mezzo di una nuova educazione, l’acuto antagonismo fra i due gruppi etnici, che la lunga sopraffazione fascista e la recente violenta reazione slava avevano rinfocolato; occorreva, infine, evitare per quanto possibile, che la scuola fosse direttamente coinvolta nella frenetica attività politica e negli aspri conflitti che agitavano la città”.

Per aiutare le autorità del GMA in questo compito delicato la Commissione Alleata di Controllo per l’Italia inviò a Trieste il noto pedagogista americano Carleton Washburne, capo della sottocommissione per l’educazione. Su suo consiglio venne inviato a Trieste John Simoni, un ufficiale americano che aveva già fatto una lunga e proficua esperienza nella riorganizzazione delle scuole in varie parti d’Italia.

Nella Divisione per l’Educazione Simoni si servì della collaborazione del preside Antonio Andri e del professor Srecko Baraga, che si occupò delle istituzioni scolastiche e educative della minoranza slovena. 24)

Molti problemi immediati furono risolti, ma rimase insoluto il problema di fondo e cioè la creazione di un sistema scolastico finalizzato al superamento dei contrasti tra la comunità italiana e quella slovena. La proposta caldeggiata da Washburne di inserire scuole slovene nel tessuto urbano e scuole italiane nelle località a maggioranza slovena cadde nel nulla; anche l’impiego di docenti sloveni anticomunisti fu duramente osteggiato.

Un primo bilancio dei lavori svolti e una messa a punto delle proposte per il futuro furono tentati nel Congresso degli Insegnanti della Venezia Giulia, che si svolse nel febbraio 1946, alla presenza dello stesso Washburne: “Il Congresso” – scrive Alfredo Vernier – “mosse certamente le acque della scuola triestina, piuttosto stagnanti sotto certi aspetti, agitando problemi, stimolando l’interesse degli insegnanti, favorendo lo scambio di esperienze e di idee, sollecitando la discussione e la riflessione. Ma non raggiunse tutti gli scopi che si prefiggeva. La scuola triestina non era né pronta né disposta a rinnovarsi. Come la città era allora in un atteggiamento di scontrosa diffidenza, persuasa che in quelle circostanze il suo compito principale, se non esclusivo, fosse quello di conservare le sue peculiari caratteristiche, per trasmetterle intatte agli eredi, e che ogni apertura nascondesse oscure insidie. Il dialogo, appena iniziato, fu così interrotto. Anche l’incontro tra insegnanti italiani e sloveni mancò completamente; i tempi non erano maturi, nonché per l’intesa, nemmeno per la tolleranza. L’anno successivo un tentativo del GMA di organizzare un nuovo congresso cadde nel vuoto per la solidale opposizione delle autorità e degli insegnanti italiani e sloveni”.

21 luglio 1945

Sul dramma degli internati nei campi di concentramento interviene sulla Vita Nuova il vescovo Santin con un articolo dal titolo molto significativo: “Per intenderci”.

Sono evidenti nelle sue righe sia la volontà di inserirsi con autorevolezza nella polemica contro il comunismo “antireligioso” e ai suoi “sistemi”, sia la preoccupazione per l’ampio seguito che la propaganda comunista aveva incontrato tra gli operai e “i fratelli di lingua slovena”.

Dopo aver precisato di voler scrivere solo “per tutti coloro che forse ci giudicano male, ma che sono in buona fede”, dichiara con forza: “Noi non siamo antislavi. Non saremmo cattolici. Noi amiamo e stimiamo i nostri fratelli di lingua slovena. La nostra denuncia degli orrori dei campi di concentramento [alla fine di giugno aveva scritto una lettera al Comando Militare Alleato per denunciare le condizioni in cui si trovavano i prigionieri raccolti nei campi di Borovnica, S. Vito, di Lubiana e dintorni] non era un’accusa fatta al popolo slavo, ma ai sistemi adoperati. Essa colpiva quindi i responsabili di quelle infamie. Sappiamo che anche migliaia di slavi sono tra le vittime. Non il popolo dunque, ma i sicari, che non hanno Patria perché privi di umanità, abbiamo colpito. Noi non siamo contro gli operai. Siamo per la elevazione morale, sociale ed economica degli operai. Abbiamo già scritto che non temiamo le vie ed i progetti più audaci, purché siano salvi i diritti di Dio e non sia violata la legge morale. Siamo con tutta l’anima con gli operai, per gli operai. Plaudiamo alle loro conquiste, soffriamo quando vengono ingannati e sfruttati, appoggiamo ogni loro giusta ed umana aspirazione. Ma che c’entra tutto questo con i campi della fame e della morte? Vi è a Trieste un solo operaio che possa ritenere false le voci sopra gli orrori dei campi della Slovenia e della Croazia, quando ognuno può apprendere dalla viva voce delle vittime la tremenda realtà? Vi è un solo operaio che possa approvare simili iniquità? Chi può arrogarsi il diritto di ritenere lanciata contro i nostri buoni ed onesti operai l’accusa che noi rivolgemmo contro un gruppo di uomini che si sono rivelati delle iene? E un secondo punto ci importa chiarire. Noi abbiamo affermato che la dottrina comunista è antireligiosa: perciò la combattiamo. Dimostrateci che non lo è, che ufficialmente sono stati rinnegati i principi antireligiosi che stanno alla base del comunismo, e noi rispetteremo imparzialmente un sistema sociale che si batte per una nuova organizzazione del lavoro. Ma fino a che si manterrà fede a quei principi che portano all’ateismo, noi non potremo tacere; mancheremmo alla nostra missione. Ma tutto questo significa forse essere reazionari, essere contro il popolo, contro l’operaio?”. 25)

24 luglio 1945

Le fratture nel fronte antifascista diventano sempre più nette e di fronte ai pericoli di un’involuzione nazionalista e antidemocratica Bruno Pincherle si rivolge a Parri, allora Presidente del Consiglio dei ministri: “Bisognerebbe ricostituire nelle zone occupate dagli angloamericani le premesse per una vita democratica che non sia né quella “democratico-progressista” slavo-comunista né quella di una democrazia a visione ristretta, e per reazione alla precedente, antioperaia dell’attuale CLN giuliano. […] Urge quindi giungere ad un accordo con il partito comunista per la creazione di una nuova amministrazione che raccolga tutte le forze antifasciste rappresentate dai cinque partiti e anche gli slavi (i “titiani” [sic] non meno che gli altri). Noi avremmo così il vantaggio di portare i comunisti su un terreno democratico e i comunisti per contro quello di impedire la formazione di un fronte anticomunista”.

“Analoghi concetti” – scrive Miriam Coen – “egli aveva espresso pochi giorni prima a Milano in una riunione dell’Esecutivo Alta Italia del Partito d’Azione. In quell’occasione aveva anche sottolineato l’inadeguatezza ad affrontare la nuova delicata situazione, da parte del locale Partito d’Azione, “composto sostanzialmente da uomini che non vanno più in là di un irredentismo e di un repubblicanesimo d’altri tempi”.

Pochi mesi dopo Bruno Pincherle e Fabio Cusin rassegneranno le dimissioni dal Partito d’Azione, ai loro occhi ormai compromesso definitivamente in una politica nazionalista e marcatamente moderata.

11 agosto 1945

Il colonnello americano Alfred Connor Bowman, nella sua carica di “Senior Civil Affairs Officer” (“Ufficiale superiore per gli Affari civili”) emana l’“Ordine generale numero 11”, con il quale viene sancita ufficialmente la nascita del governo civile nella Regione Giulia.

Vengono dichiarati decaduti tutti i poteri “popolari” istituiti durante il periodo di occupazione jugoslava e viene ristabilita, nelle grandi linee, la legislazione italiana entrata in vigore dopo l’8 settembre: il GMA riconosceva così il principio, accettato dal diritto internazionale, che la Venezia Giulia, fino alla firma del Trattato di pace, dovesse essere considerata come facente parte dello stato italiano e quindi soggetta alla legislazione in vigore al momento dell’armistizio.

L’Ordine generale istituisce due Consigli di Zona, uno per Trieste e uno per Gorizia (valido anche per il Comune di Pola), composti rispettivamente di 17 e di 14 membri che vengono nominati direttamente dal GMA; il GMA nomina anche i presidenti di Zona ai quali sono riconosciuti “i poteri e gli obblighi di un Prefetto e degli Enti provinciali legislativi, amministrativi ed esecutivi”.

Al GMA spetta anche il diritto di nominare, e di rimuovere, i Consigli comunali e i rispettivi presidenti. A Trieste, dopo il rifiuto dei comunisti di accettare l’Ordinanza, viene designato presidente dal CLN, appena uscito dalla clandestinità, l’avvocato Michele Miani, esponente, come il fratello Ercole, del Partito d’Azione.

È prevista inoltre la nomina di un vicepresidente, che ha il compito di assistere il presidente.

Il consiglio, che funge da organo consultivo del presidente, deve riunirsi almeno una volta per settimana.

Le forze che si riconoscevano nella resistenza jugoslava e nei suoi programmi, in gran parte forze di ispirazione comunista, sia italiane che slovene e croate, considerano l’Ordinanza come una violazione aperta degli accordi presi a Belgrado il 9 giugno e passano all’opposizione: un’opposizione dura, frontale che avrebbe caratterizzato lo scenario della città per lungo tempo. 26)

24 settembre 1945

A conclusione dello sciopero generale unitario contro i licenziamenti, i dirigenti del Partito comunista ribadiscono con forza che “l’azione di lotta di questi giorni diventerà più efficace quando tutti i lavoratori comprenderanno la necessità dell’unione di Trieste al suo retroterra che oggi è la Jugoslavia del maresciallo Tito”.

L’utilizzazione delle lotte sindacali ai fini della lotta politica e nazionale contribuisce non poco ad approfondire la frattura tra le due anime del sindacalismo triestino: poco tempo dopo la frattura risulterà ormai irreversibile. Un segno inequivocabile di ciò si avrà il 14 dicembre, quando uno sciopero di protesta contro la sospensione del quotidiano in lingua slovena Primorski Dnevnik da parte del GMA troverà tra i lavoratori scarso seguito.

ottobre – novembre 1945

Il problema dei confini orientali viene affrontato dal governo italiano, che mostra di essere disponibile ad accettare qualche lieve arretramento rispetto alla linea ufficialmente sostenuta: il 18 ottobre, De Gasperi, riferendo al Consiglio dei ministri sulla situazione della Venezia Giulia, dichiara che “certe interferenze economiche sono tali per cui non può non tenersi conto. Si presenta perciò il dilemma di spostare la linea più a nord o a sud e a est o a ovest creando delle fluide zone franche che permettano di avere una zona intorno alla città e completino la soluzione etnica”.

Il 12 novembre Ferruccio Parri, durante una conversazione con il generale Harding, afferma di condividere personalmente l’opinione già espressa da De Gasperi ed auspica che il confine venga definito lungo la linea Wilson. Nel caso in cui però questa soluzione si fosse mostrata irrealizzabile, qualche ritocco a vantaggio della Jugoslavia sarebbe stato possibile: in nessun caso, comunque, un governo italiano avrebbe accettato di discutere sull’appartenenza di Trieste al territorio italiano.

Qualche tempo prima Parri si era fatto promotore di una serie di interventi tra diversi rappresentanti antifascisti italiani e sloveni della Venezia Giulia per sondare la possibilità di arrivare ad un accordo sui confini accettabile per entrambe le parti, ma questi incontri non avevano sortito alcun affetto. Egli stesso avrebbe confessato a Harding che “nessuno dei tentativi di riconciliazione fatti dal suo governo aveva ottenuto risposta dalla Jugoslavia”.

1946

I verbali del CLN della Venezia Giulia testimoniano che quasi tutta l'attività politica cittadina è concentrata sul tema della difesa nazionale, sul dilemma “Italia o Jugoslavia”, in un'atmosfera di grande tensione nella quale non mancano le vittime e gli scontri tra squadre organizzate.

La situazione appare ancora più lacerata a causa del drammatico esodo dall’Istria di una parte via via crescente della popolazione di lingua italiana: “Le partenze di massa si avviarono […] fin dal 1946, per poi coinvolgere” – scrive Raoul Pupo – “l’intera popolazione dopo che il trattato di pace ebbe sancito il passaggio della città alla Jugoslavia. […] Nel suo complesso, l’esodo durò a lungo, più di dieci anni, perché fu il frutto di spinte tra loro assai simili ma impresse con ritmi diversi, in relazione al momento in cui le comunità italiane maturarono la certezza della loro irrimediabile inclusione nella Jugoslavia. Si ebbero così diversi esodi che si innestarono uno sull’altro”.

Ben poco spazio sembra esserci dunque per la mediazione e per la discussione equilibrata dei problemi, anche perché lo schieramento filojugoslavo veniva assumendo posizioni sempre più rigide, forte di un'organizzazione e di una presenza politica notevoli e di una grande influenza nel mondo operaio e sindacale. L’utilizzazione degli scioperi a fini di lotta politica e di rivendicazione nazionale era diventata ormai una prassi usuale, in quanto i dirigenti comunisti, sia nel partito che nel sindacato, erano convinti che solo attraverso questo riacutizzarsi dello scontro ideologico si potesse far fronte alla ripresa degli ambienti moderati ed ai rigurgiti fascisti, sempre più presenti in città.

La radicalizzazione degli scontri politici finisce così col dividere sempre più i lavoratori, condizionando pesantemente i rapporti tra i SU e la CCdL: mentre la Camera del Lavoro, forte del riconoscimento da parte della CGIL unitaria, costituisce le proprie Commissioni interne e si rafforza anche negli ambienti operai, i SU rispondono legando sempre più i loro Comitati di fabbrica, eredi degli organismi clandestini di “Unità operaia”, alle strategie politiche.

Le divisioni politiche sulla questione nazionale passano anche attraverso il clero e la comunità cattolica: numerosi sacerdoti sloveni accusano il vescovo Santin di voler imprimere a questa regione un carattere prettamente italiano e di far pesare in questa direzione tutto il suo prestigio e il suo potere.

Invero la stampa cattolica locale, da Vita Nuova, organo della diocesi, a La Prora, settimanale della DC, è piena di appelli all'unificazione con l'Italia, identificando spesso la causa italiana con la “civiltà cristiana”: “Non si tratta soltanto di identificare la nostra passione per l'Italia e di voler tornare in grembo alla madre. Si tratta di cosa ben più grave e importante: di affermare e difendere Cristo e, con Lui, le nostre anime, la nostra vocazione storica, la nostra stessa civiltà. Se noi guardiamo all'Oriente che incalza (Oriente a noi tanto vicino) non possiamo che trepidare per questi eterni valori e per questi supremi interessi dello spirito […]. Qui oggi non sono in gioco soltanto dei territori; non soltanto le sorti politiche della Venezia Giulia; non soltanto i diritti sovrani dell'Italia. No! Qui è ancora e soprattutto in gioco la civiltà cristiana”. (Vita Nuova, 30. 3. 1946)

Tutti questi fatti esasperano ancor più quel tradizionale “localismo ipertrofico” che già tante volte aveva caratterizzato le reazioni di difesa della città. La classe dirigente locale si illude ancora di poter porre la “questione di Trieste” al centro dei problemi mondiali e interpreta ogni avvenimento in quest'ottica miope e provinciale, e ancora una volta viene duramente smentita dai fatti, in quanto le scelte definitive vengono prese ormai in ben altre sedi.

“Emblematica, in tal senso” – sottolinea lo storico Raoul Pupo – “fu la sostanziale irrilevanza, ai fini della decisione assunta, della ricognizione compiuta nella Venezia Giulia nei primi mesi del 1946 dalla commissione di esperti nominata dai governi alleati, come pure dell'enorme mole di materiale documentario prodotto da italiani e jugoslavi a sostegno delle rispettive tesi: e altrettanto significativa è la circostanza che l'ipotesi di un plebiscito, tenacemente perseguita da larga parte degli ambienti giuliani di orientamento filo-italiano, non trovò mai lo spazio politico reale per poter venir presa in seria considerazione”.

La sorte di Trieste non è infatti l'unico problema neanche per la politica estera italiana e comunque i responsabili della politica estera di Washington e di Londra sanno bene che se il governo italiano di Roma avesse voluto battere strade alternative rispetto alla strategia alleata gli spazi di manovra a sua disposizione sarebbero stati praticamente inesistenti.

Lungo tutto il 1946, mentre tra Washington, Londra, Mosca e Parigi – che è la sede della conferenza di pace – gli alleati stanno tessendo le fila del trattato, si delineano sempre più chiaramente alcuni punti fondamentali:

il gioco diplomatico è sempre saldamente in mano alle potenze vincitrici, i cui rapporti non sono ancora improntati alla “guerra fredda” e alla strategia globale del “containment” che sarebbe emersa solo l'anno successivo;

il peso reale del governo italiano e del governo jugoslavo è ben poca cosa: le scelte definitive sarebbero state fatte altrove, a tutt'altro livello;

i segnali provenienti dagli ambienti angloamericani della Venezia Giulia – che influiscono in maniera significativa sull'atteggiamento degli alleati – sono assai precisi e coerenti con il principio fondamentale che fin dall’estate del 1945 aveva ispirato il GMA: assicurare prioritariamente il mantenimento dell'assoluto controllo della Zona A da parte delle autorità alleate come unica garanzia contro il suo assorbimento da parte jugoslava.

gennaio 1946

Al V Congresso del PCI partecipa una delegazione comunista giuliana diretta da Marino Solieri, che sostiene apertamente la tesi dell’annessione di Trieste alla Federazione jugoslava. Togliatti risponde affermando “di comprendere ma non giustificare l’atteggiamento dei compagni triestini”.

Lo scontro sul destino nazionale di Trieste passa oramai anche all’interno dei comunisti italiani: agli inizi di luglio, per tranquillizzare il partito ed evitare fratture con la base partigiana, molto sensibile all’orgoglio nazionale, Togliatti farà diffondere questa comunicazione: “La Direzione del PCI non ha mai autorizzato la costituzione o appoggiato l’azione del “PCI-VG” il quale è sorto alla sua insaputa e agisce all’infuori di qualsiasi contatto con essa; […] è stato dato ai lavoratori iscritti a questo partito il consiglio di non creare una simile organizzazione, perché ciò poteva servire soltanto a scindere le forze del proletariato giuliano e a favorire manovre di provocazione; […] la Direzione del nostro partito in data 23 aprile ha costituito un Ufficio di Informazioni affidandogli il compito di rappresentare il PCI a Trieste”.

26 gennaio 1946

Il periodico della DC triestina La Prora pubblica la testimonianza di un sopravvissuto all’infoibamento. Il fatto drammatico era avvenuto nel maggio del 1945. Il testo venne poi frequentemente utilizzato dalla pubblicistica del dopoguerra: “Dopo otto giorni di prigionia, durante i quali fummo selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell’alba, sentii uno dei nostri aguzzini dire agli altri: «Facciamo presto, perché si parte subito». Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico filo di ferro, oltre a quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo i soli pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze.
Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un sasso di almeno venti chilogrammi. Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, ci impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra, cosicché, quando mi gettai nella foiba, il sasso era rotolato lontano da me.
La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 15 fino alla superficie dell’acqua che stagnava sul fondo. Cadendo non toccai il fondo, e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole: «Un’altra volta li butteremo di qua, è più comodo», pronunciate da uno degli assassini.
Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi con la pressione dell’aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutive, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese, per tema di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo”
.

31 gennaio 1946

Entra in vigore la nuova costituzione della repubblica federale popolare di Jugoslavia. Nel testo costituzionale si omette accuratamente ogni riferimento preciso a termini quali “socialista” e “comunista”, ma la proprietà privata dei mezzi di produzione viene fortemente limitata e si proclama che la neonata repubblica è fondamento dell’economia nazionale.

“Prima ancora che la costituzione fosse proclamata” – scrive Pirjevec – “Tito ottenne un significativo successo col riconoscimento, il 22 dicembre 1945, della repubblica da parte della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Le due grandi potenze lo fecero per realismo politico, seppure con qualche riserva, espressa in modo particolarmente chiaro nella nota di Washington. In questa si sottolineava che il riconoscimento non implicava consenso al regime e ai suoi metodi di governo. La nuova Jugoslavia aveva comunque ottenuto la benedizione degli alleati angloamericani, che facevano in tal modo capire di ritenere superata la pretesa di Churchill di un’influenza occidentale nel paese”.

marzo 1946

In un rapporto della polizia viene evidenziato un clima di angoscia diffusa nella popolazione triestina per il timore di un colpo di mano jugoslavo: “Nella Zona A, si acuisce sempre più il malessere, si paventa ancor più l’insidia slava, si comincia da qualche gruppo a mettere al sicuro in territorio nazionale non contestato capitali e valori, non perché si dubiti del ritorno di Trieste all’Italia, ma per il temuto assalto, sia pure di breve durata, delle orde slave interne ed esterne a scopo di rapina e di sterminio. Continuano ad affluire notizie sugli apprestamenti militari jugoslavi lungo la linea Morgan, nell’immediato retroterra carsico, sulla costa istriana e con maggior solidità ed arte (si parla di gettate di cemento) alla frontiera italo-jugoslava”.

Nel mese successivo si intensificano le voci allarmanti di un colpo di mano che gli jugoslavi avrebbero messo in atto il 1° maggio. “La Voce Libera, pur evitando di incrementare l’allarmismo a proposito di queste voci recepisce questo clima. Si intensificano” – scrive Liliana Ferrari – “le notizie sugli «infiltrati», sui provocatori giunti da «fuori», sulla misteriosa attività che si svolgerebbe in alcuni uffici affittati da jugoslavi, sugli «indesiderabili» ospiti di Trieste. Da un lato richiama la cittadinanza alla calma, ad evitare di scendere in piazza durante il soggiorno della commissione per evitare incidenti, dall’altro però contribuisce a creare un clima in cui tale suggerimento non potrà essere accolto. […] Il tema dell’esodo si inserisce in questo quadro come un corollario inevitabile, il punto di arrivo del «piano» congegnato per espellere gli istriani di nazionalità italiana. […] L’esule assume un ruolo di spicco tra le figure emblematiche di quella «passione adriatica» che avrebbe visto il popolo giuliano vittima innocente, senza soluzione di continuità, di oppressori dal nome diverso ma dalla comune volontà sopraffattrice. L’esule diventa un simbolo. L’esodo è «naturale» perché «innaturale» è la situazione in cui gli italiani dell’Istria si sono trovati a vivere. Cominciano ad apparire le prime cifre, esorbitanti, prodotte come risultati di un plebiscito. Lo sfollamento di Zara, anche nella sua fase iniziale determinata dai bombardamenti, diventa un esodo. Con le decisioni definitive della conferenza di Parigi, la partenza dei polesi consacra, con un esempio clamoroso, il significato di protesta civile dell’esodo”.

marzo – aprile 1946

Una commissione alleata composta da quattro delegazioni – inglese, statunitense, francese, sovietica – visita la Venezia Giulia al fine di elaborare un documento comune da presentare al tavolo dei lavori per il Trattato di pace.

“La zona visitata dagli esperti” – scrive Jean Duroselle – “fu delimitata verso est da quella linea che sembrava segnare la fine della presenza di gruppi italiani – molto approssimativamente dalla linea Wilson. I quattro esperti, Philip Moseley (USA), Jean Wolfron (Francia), C. H. Waldock (Regno Unito), M. Garaschenko (URSS), il 29 aprile 1946 consegnarono un rapporto comune ai viceministri degli Affari Esteri. C’è da notare che questa fu l’ultima Commissione delle quattro potenze che, a prezzo di lunghe discussioni, riuscì ad elaborare un rapporto comune”.

Il documento risultò comune, ma le conclusioni risultarono irrimediabilmente diverse: mentre gli esperti russi avevano proposto un confine quasi identico a quello rivendicato dagli jugoslavi, gli esperti inglesi ed americani proposero un confine più favorevole all'Italia prevedendo anche l'annessione della costa occidentale dell'Istria. Secondo la linea francese tutti i grandi centri del “Litorale sloveno”, nonché i piccoli porti e le cittadine del nord-ovest (Capodistria, Umago, Pirano, Buie) dovevano essere assegnati all’Italia: veniva così negata la possibilità di un porto sloveno.

“Queste tre linee” – sottolinea Duroselle – “passavano considerevolmente, per tutta la loro lunghezza, ad ovest della linea Wilson, e, a nord, sensibilmente ad ovest della linea Morgan, linea di demarcazione militare”. La linea Wilson, va ricordato, era la linea richiesta dal governo italiano.

Pochi giorni dopo la consegna della relazione comune nelle mani dei viceministri degli Esteri, Kardelj e De Gasperi criticarono duramente i risultati della Commissione. Il vicepresidente jugoslavo Kardelj dichiarò che la soluzione proposta dagli occidentali avrebbe attribuito all’Italia sia Gorizia che Trieste, distruggendo così l’unità economica della Venezia Giulia, le cui zone rurali sarebbero state separate dai centri economici ed amministrativi. L’attribuzione di Trieste all’Italia avrebbe per di più ignorato un vasto territorio occupato da sloveni: “Trieste e le zone limitrofe, così come una parte dell’Istria, sono state internazionalizzate ed hanno costituito il Territorio Libero di Trieste (TLT), sotto la tutela dell’ONU; sono state cioè strappate alla Jugoslavia cui appartenevano”.

Per questi motivi, aveva precisato Kardelj, la Jugoslavia avrebbe mantenuto la richiesta già avanzata alla Conferenza di Londra.

De Gasperi, che oltre ad essere capo del governo era anche ministro degli Esteri, ribadì con forza che nessuna tra le proposte fino ad allora emerse aveva fatto propria la linea Wilson: il confine proposto dagli americani si avvicinava più degli altri ai desideri italiani, ma aggiunse con rammarico che nessuna aveva tenuto conto che l’Italia perdeva Fiume, Zara e le isole di Cherso e di Lussino.

Sebbene ufficialmente l’Italia si attenesse ancora alla linea Wilson, De Gasperi dichiarò che l’Italia avrebbe accettato tutt’al più di discutere un compromesso tra la linea americana e la linea Wilson.

Il problema era, per il momento, del tutto insolubile e l’atmosfera in quei giorni in città era gravida di tensione.

Così il dirigente comunista Claudio Tonel ricorda l’atmosfera in cui si inserirono i lavori della Commissione: “La Commissione si sistema all’Hotel de la Ville prospiciente le rive. Per affermare le rispettive posizioni i due blocchi (noi da una parte e tutti i rimanenti dall’altra) organizzano grandi e violente manifestazioni di popolo per influenzare i membri della Commissione. Davanti all’albergo, poi, c’erano ancora i ruderi di un bunker tedesco, la cui “conquista” era ormai diventata un problema di principio per ognuno. Da qui gli attacchi reciproci per scalzare chi occupava quella posizione privilegiata (definita “collina del pianto”) quando era “occupata” dagli uni o dagli altri: una massa di gente accalcata in pochi di metri quadri. Quindi gli scontri erano all’ultimo sangue. Noi al grido di “najuris” (all’attacco) e gli altri al grido di “ne la patria de Rossetti non se parla che italian”. In quelle settimane si poté accertare la presenza di centinaia di fascisti provenienti dal resto del paese, a dar man forte ai fautori di Trieste italiana”.

Di tutt’altro tenore la descrizione di quegli avvenimenti fatta da Alfio Morelli, che avrebbe aderito al MSI fin dalla sua fondazione e ne sarebbe divenuto a Trieste uno dei leader più importanti: “La città colse questi esperti con il civismo che le è proprio. La popolazione si mantenne serena, anche se non mancarono minacce e provocazioni da parte degli slavo-comunisti. Questi, infatti, fecero affluire migliaia di stranieri provenienti dai paesi del Carso, dalla Slovenia e dalla Croazia, nel tentativo di alterare le caratteristiche della città. La Commissione aveva soprattutto il compito di rilevare la composizione etnica della regione. Per questo i comunisti, con ogni forma di coazione, cercarono di comprimere anche psicologicamente la città, in una sorta di assedio, per ridurne la capacità di resistenza e limitarne i “confini” al solo centro storico. Essi spadroneggiavano in via Molino a Vento, a San Giacomo, San Sabba, ed oltre; in via Giulia, nei pressi della birreria Dreher, fino a San Giovanni; nella parte alta di via Fabio Severo, vicino alla nuova Università, nei paesi del ciglione carsico. Altrettanto intimiditi erano i rioni di San Luigi e di Roiano alta. Erano queste le strozzature entro le quali i comunisti si proponevano di “interrompere” il centro urbano di Trieste. Nella periferia, per la presenza di numerosi circoli, organizzazioni politiche e paramilitari lasciate dai titini, dominava ancora il prepotente attivismo slavo-comunista, che riusciva a mantenere in stato di soggezione la popolazione residente. In quei giorni, i comunisti imposero agli abitanti l’esposizione della bandiera della federazione jugoslava e di quella italiana con la stella rossa; obbligarono gli esercenti ad apporre sulle tabelle dei loro negozi scritte bilingui. In alcuni rioni, come a San Giacomo e Servola, sembrava di trovarsi in una repubblica dei Soviet. Si verificarono ovunque episodi di violenza. […] Le aggressioni, le bastonature, le minacce erano all’ordine del giorno ed assumevano sempre più l’intensità ed i caratteri del periodo titino. Trieste, dunque, era città assediata”.

Il “localismo ipertrofico”, come la psicosi della “città assediata” e la identificazione tra slavo e comunista dominano incontrastati le sue pagine.

maggio – luglio1946

Verso la metà di maggio comincia ad essere evidente ai membri del Consiglio dei ministri degli Esteri a Parigi che la linea proposta dalla Francia era destinata a raccogliere i maggiori favori.

Dopo il 4 giugno, alla ripresa dei lavori, si tengono le sedute decisive. Il ministro degli Esteri inglese, Ernest Bevin, dopo aver nettamente rifiutato le proposte di Molotov – l’URSS era disposta alla restituzione delle colonie all’Italia e alla riduzione dei debiti del governo di Roma alla Grecia pur di veder approvate le richieste di Belgrado – abbracciò le tesi del ministro francese Bidault, che per primo aveva apertamente proposto la internazionalizzazione di tutta la città e non solo del suo porto.

In qualche modo interlocutoria fu la proposta americana, avanzata forse per sondare le posizioni degli altri più che per convinzione, di assegnare ad un plebiscito il destino nazionale delle popolazioni insediate nei territori compresi tra la linea francese e quella di Washington. Tutti si opposero, con diverse motivazioni: il governo italiano, che temeva un pericoloso precedente qualora la scelta del plebiscito fosse stata allargata anche all’Alto Adige, mostrò chiaramente di preferire un prolungamento a tempo indeterminato dell’occupazione alleata.

Scartata la tesi del plebiscito, il 1° luglio il ministro degli Esteri sovietico Molotov accolse la proposta francese e si dichiarò favorevole a trattative dirette tra Italia e Jugoslavia per una soluzione definitiva della questione nazionale: fino a quel momento il ministro degli Esteri sovietico aveva sostenuto con forza la soluzione degli jugoslavi.

Venne così concordata la internazionalizzazione della città attraverso la creazione del Territorio libero di Trieste. 27)

30 giugno 1946

È previsto per questa data l’arrivo a Trieste di una tappa del Giro d’Italia: secondo gli accordi, i ciclisti sarebbero entrati in città scortati dalla polizia civile. Tra i corridori vi è anche il gruppo di atleti rossoalabardati sponsorizzato dalla Wilier-Triestina, guidato da Cottur.

Ben presto questo avvenimento sportivo era stato caricato di un acceso significato nazionale da parte di certi ambienti triestini, che avevano invitato la popolazione ad accogliere con entusiasmo i ciclisti “coperti dalla polvere della Madre Patria”!

A Pieris, però, i comunisti locali si oppongono alla continuazione della corsa con un fitto lancio di pietre e lo spargimento di chiodi sull’asfalto, “perché ciò avrebbe rappresentato un avallo che Trieste è Italia”. L’intervento della polizia e una decisa caccia all’uomo pongono fine alla giornata sportiva: il grosso della carovana, fermo alle porte di Monfalcone, devia verso Udine.

La notizia si sparge in città e molti tra i manifestanti che si preparavano ad accogliere i ciclisti si abbandonano a violenti disordini, che coinvolgono gli stessi soldati inglesi ed americani. Vengono presi d’assalto sedi del Partito comunista e del Movimento indipendentista: come scrissero i rapporti alleati “bande di giovani attaccarono sistematicamente e in molti casi devastarono tutti i più importanti uffici di organizzazioni filoslave”.

La reazione dei comunisti è particolarmente violenta nel rione di San Giacomo, dove la polizia apre il fuoco: un operaio viene ucciso e due rimangono feriti. L’UAIS-SIAU dichiara immediatamente uno sciopero generale contro l’atteggiamento della polizia e contro gli attacchi indiscriminati delle “bande fasciste”.

Nel frattempo qualche atleta aveva continuato la corsa: tra questi il triestino Cottur, che all’ippodromo giunse primo e si lanciò in un simbolico giro d’onore applaudito dal pubblico presente.

3 luglio 1946

Viene fatto conoscere il comunicato delle quattro grandi potenze che annuncia l’avvenuto accordo per la creazione del Territorio libero di Trieste.

A Trieste la situazione è estremamente tesa, anche in seguito al grande sciopero generale che i Sindacati unici portano avanti con estrema decisione. 28) Anche questo sciopero, come avveniva ormai da quasi un anno, aveva in realtà un fine prevalentemente politico – a Parigi era in discussione il Trattato di pace con l’Italia – e cioè l’annessione della città alla Jugoslavia. Non è da escludere che fosse anche un segnale nei confronti del governo sovietico, per indurlo a mostrare un qualche più diretto coinvolgimento nella questione della Venezia Giulia.

L’internazionalizzazione della città di Trieste, decisa con la costituzione del Territorio libero, allontanava infatti sempre più quel legame con il retroterra slavo che nei programmi dei SU rimaneva la scelta di fondo, e che rifletteva, in ultima analisi, le vecchie rivendicazioni del movimento di liberazione sloveno e croato.

Anche sull’altro versante l’istituzione del TLT suscita in città reazioni molto dure.

Se ne fa portavoce la stampa cattolica, che reagisce con forza alle decisioni prese dalle quattro potenze. Il 13 luglio la Vita Nuova pubblica un duro articolo contro il ministro cattolico francese Bidault, che viene così dipinto: “Democristiano rinnegato, che, non contento di aver strappato per sé all’Italia circa 700 Kmq. di territorio, ha avanzato la nefanda proposta di gettare alla belva slavocomunista 200 mila italiani cattolici”.

Su posizioni rigidamente anticomuniste si schiera anche il settimanale della DC, La Prora, diretto da Gianni Bartoli, che fin dalla sua fondazione (settembre 1945) aveva strettamente legato al destino di Trieste quello dell’Istria, sulla scia di una continuità dell’assetto territoriale dello stato che trovava la sua prima legittimazione nelle vecchie battaglie irredentiste. Nelle pagine di questo giornale sempre più spesso gli esuli diventano un monumento vivente della malvagità del comunismo, nonché strumento propagandistico di una lotta politica contro tutti coloro che sembrano tiepidi nel contrastare certi settori del CLN e la “presenza passiva” del GMA.

“Alla linea di contrapposizione frontale fornisce un valido supporto” – scrive Valdevit – “la tematica relativa alle drammatiche vicende che avevano caratterizzato soprattutto l’ultima parte della lotta di liberazione. La propaganda della DC – ma, è ovvio, non solo della DC – tende a far assumere agli infoibamenti, alle deportazioni, ai campi di concentramento, all’attività dell’OZNA, la dimensione di un vero e proprio genocidio, alimentando così anche in coloro che quelle vicende non avevano vissuto direttamente, reazioni emotive ed atteggiamenti irrazionali di viscerale antislavismo”.

agosto – dicembre 1946

A Parigi, i lavori della Conferenza della pace continuano a ritmi sempre più intensi. Si profilano per l’Italia decisioni che appaiono ad ampi settori dell’opinione e del mondo politico troppo punitive.

Alcide De Gasperi dichiara polemicamente: “E per correre l’alea di un espediente così poco durevole (quale quello della costituzione del TLT) voi avete dovuto assegnare l’81 per cento del territorio della Venezia Giulia agli jugoslavi […]. Voi siete stati indotti, così, ad arrecare un torto all’Italia, voi avete, rinnegando la linea etnica, assegnato alla Jugoslavia la regione di Parenzo-Pola, dimenticando che la Carta atlantica riconosceva alle popolazioni il diritto di essere consultate in materia di cambiamenti territoriali.29) E di più aggravate la situazione degli italiani della Venezia Giulia passata sotto la sovranità slava, stabilendo che coloro i quali avranno optato per conservare la loro nazionalità di origine potranno essere espulsi nello spazio di un anno e dovranno trasferirsi in Italia, abbandonando le loro case e i loro beni”.

In quel periodo, infatti, i primi cittadini italiani stavano abbandonando la città di Pola. Non appena fu chiaro che la linea di demarcazione proposta dai francesi aveva ottenuto l’approvazione delle quattro potenze la propaganda italiana cominciò anzi ad esortare tutti gli italiani a lasciare in massa la città per mostrare all’opinione internazionale che Pola era italiana e doveva passare all’Italia, altrimenti tutta la popolazione avrebbe lasciato la città. 30)

Durante la terza ed ultima sessione dei lavori, che ebbe inizio a New York il 4 novembre, venne avanzata da parte italiana, con una nota redatta dal nuovo ministro degli Esteri Pietro Nenni, la proposta di un plebiscito nelle aree giuliane contestate, nonché, nell’eventualità della costituzione del “Territorio libero di Trieste”, il suo allargamento fino a Pola. Tra novembre e dicembre si tennero numerose riunioni tra i rappresentanti dei governi di Roma e di Belgrado, ma i negoziati non portarono ad alcun risultato positivo: le posizioni delle delegazioni italiana e jugoslava erano molto distanti e tali sarebbero rimaste a lungo.

Nel frattempo la situazione di Pola si fa sempre più drammatica: di fronte al panico crescente nella città, il CLN declina ogni responsabilità nel caso di un’ulteriore permanenza e due giorni prima di Natale dichiara aperto l’esodo.

L’inizio delle partenze di massa viene stabilito per il 27 gennaio e nei mesi successivi l’esodo si svolse con ritmi crescenti: il 15 settembre 1947, infatti, la città sarebbe formalmente passata sotto la sovranità jugoslava.

A quella data, secondo i dati offerti da Liliana Ferrari, la città era stata abbandonata da quasi 30.000 dei suoi abitanti. 31)

Preoccupato che la questione di Trieste possa danneggiare il partito ed esporlo a critiche da ogni parte, Togliatti decide di tentare un’iniziativa diplomatica e si reca a Belgrado per trattare con Tito. Dopo il suo rientro a Roma fa pubblicare sull’Unità un articolo “esplosivo”: “Il maresciallo Tito mi ha dichiarato di essere disposto a consentire che Trieste appartenga all’Italia, cioè sia sotto la sovranità della Repubblica italiana qualora l’Italia consenta a lasciare alla Jugoslavia Gorizia, città che, anche secondo i dati del nostro ministro degli Esteri, è in prevalenza slava […]. Io penso che la risposta del maresciallo Tito può servire felicemente di base fra i due Paesi e soprattutto per soffocare per sempre ogni possibile focolaio di discordia fra di loro […]. Spetta ora al Governo prendere le necessarie iniziative per realizzare un’intesa concreta”.

L’iniziativa di Togliatti scatena reazioni molto violente. Nenni, ministro degli Esteri, nega categoricamente di aver mai parlato di una maggioranza slovena a Gorizia e i comunisti, isolati, ritorcono l’accusa ai democristiani: il viaggio di Togliatti – foriero di “lunghe prospettive a favore dell’indipendenza italiana” – viene contrapposto al viaggio che De Gasperi si prepara a fare negli USA, per “vendere l’indipendenza per un piatto di lenticchie”.

In realtà queste polemiche risentono ampiamente del nuovo clima politico che si sta delineando in Italia. De Gasperi, e con lui le forze moderate, ritiene che la collaborazione con i partiti di sinistra, in particolare con i comunisti, crei non pochi problemi, interni e internazionali: le elezioni amministrative di novembre hanno avuto un esito disastroso per la DC – a Roma la DC diventa il terzo partito, dietro il Blocco del Popolo e i “qualunquisti”, ma perdite sensibili si hanno in tutto il Meridione – e si intensificano anche le pressioni del Vaticano sul capo del governo perché ponga fine alla collaborazione con i “partiti anticlericali”. Per di più socialisti e comunisti aumentano sensibilmente i loro voti!

I rapporti tra la DC e il Partito comunista sono ancora più tesi a Trieste, dove anche in campo sindacale lo scontro politico si fa sentire in modo dirompente. La neonata Commissione centrale di intesa sindacale (CCIS), una commissione paritetica formata da rappresentanti delle due organizzazioni sindacali istituita su pressione della CGIL e della Federazione sindacale mondiale per porre le basi di una futura unità sindacale, viene ostacolata in tutti i modi e per un anno intero, fino all’ottobre del 1947, deve subire i continui condizionamenti dei rispettivi partiti di riferimento, poco sensibili alle spinte unitarie che salivano dai quadri di fabbrica: da una parte i dirigenti comunisti vedono nel processo unitario il pericolo di un indebolimento del fronte filojugoslavo, dall’altra la DC, soprattutto nelle sue frange più conservatrici, teme “l’abbraccio strangolatore” dei SU al punto di bloccare l’esperimento anche all’interno della stessa CCdL. 32)

gennaio 1947

La campagna di stampa dell’organo della DC contro la Jugoslavia di Tito e la sua politica in Istria comincia ad intrecciarsi strettamente con la polemica contro le forze politiche della sinistra, comunisti in particolare, che ancora partecipavano al governo italiano.

In questo contesto la questione degli esuli – sottolinea Valdevit – diventa per la DC il “monumento vivente della disumanità del comunismo, della totale impossibilità di creare con esso altri rapporti se non quelli dello scontro frontale: “Troppe persone in Italia – scrive La Prora – attualmente al Governo o comunque ricoprenti cariche preminenti, grazie alla loro appartenenza ai cosiddetti partiti di sinistra, in nome di un malinteso nazionalismo e nell’intento di spegnere, non importa come, i ‘focolai di nazionalismo’, accesi sugli spalti orientali, troppe persone che si arrogano il diritto di difendere gli interessi del popolo istriano, ne tradiscono con colpevole inerzia la parte più nobile e minacciata, sabotando l’opera amorosa di chi, senza nulla chiedere, si appresta ad accogliere cristianamente i fratelli doloranti”.

Nel giugno del 1947, quando in città si comincerà a parlare di elezioni, la DC proporrà il conferimento della cittadinanza agli esuli istriani.

febbraio 1947

Dopo la conclusione a New York dei lavori per la definizione dei Trattati di pace tra le potenze che avevano partecipato al conflitto, viene firmato a Parigi il Trattato con l'Italia.

Nonostante la dura opposizione dei governi di Roma e di Belgrado, si decide che il Trattato entri in vigore dopo la ratifica da parte delle quattro grandi potenze sia che la Jugoslavia e l'Italia lo sottoscrivano o meno: quel breve lasso di tempo doveva servire a Tito e a De Gasperi per addivenire a più miti consigli.

In realtà la diplomazia italiana e quella jugoslava avevano tutto l’interesse a non cedere, per poter affermare che il Trattato di pace era stato imposto dalle quattro grandi potenze con la forza e quindi delegittimarlo agli occhi delle opinioni pubbliche interne!

Il Trattato di pace, che sanciva la conclusione del regime armistiziale e restituiva così all'Italia una condizione di piena sovranità, prevedeva, tra gli altri punti, l'istituzione del “Territorio libero di Trieste”, che sarebbe stato retto da un governatore nominato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e avrebbe compreso la città e il suo immediato retroterra.

Gradualmente l'amministrazione del GMA avrebbe lasciato spazio all'amministrazione civile. Si prevedeva che tutto dovesse svolgersi in brevissimo tempo, come recitava l'art. 1 dello “Statuto provvisorio”: “Il governatore assumerà le sue funzioni […] al più presto possibile dopo l'entrata in vigore del presente Trattato”.

In realtà la nomina del governatore, che avrebbe sancito formalmente l'internazionalizzazione della città, non fu mai decisa dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, per l'opposizione delle grandi potenze: le amministrazioni militari degli alleati e della Jugoslavia continuarono pertanto a governare rispettivamente la Zona A e la Zona B, come previsto dallo “Statuto provvisorio”. 33)

Le divisioni tra gli ex alleati erano in effetti destinate a diventare sempre più insanabili e la “questione di Trieste” a diventare una delle tante “Cold War Issue”, uno dei tanti problemi causati dalla guerra fredda: certamente non il più importante e il più urgente per Londra e per Washington e ancora meno per Mosca.

Il Trattato di pace, che sul problema di Trieste si presentava chiaramente come un compromesso, suscitò nella popolazione polemiche e rancori, aumentando il disorientamento di ampi strati della popolazione e radicalizzando ancor più gli attriti tra l’Italia e la Jugoslavia.

L'istituzione del TLT risulta infatti invisa in gran parte degli ambienti politici, sia italiani che sloveni, e certamente non incontra i favori del gruppo dirigente dell'economia triestina, che si muoveva in una situazione oltremodo difficile, stretta tra la pressione della Jugoslavia socialista ed i bisogni particolaristici delle industrie locali.

Proprio a febbraio si ricostituisce l’Unione degli industriali giuliani e dalmati, “che s’impegnò” – scrive Sapelli – “con chiaro significato politico-nazionale, nell’organizzazione non soltanto degli industriali giuliani e goriziani, ma anche di quelli già facenti capo all’Unione di Fiume, Pola e Zara. L’azione per ottenere l’indennizzo delle perdite subite negli eventi bellici (che culminò nell’accordo del 18 dicembre tra Italia e Jugoslavia) e la pressione sugli organismi governativi per ottenere – in base agli accordi della Commissione quadripartita del febbraio dello scorso anno – non soltanto moneta italiana e valuta estera, ma anche l’assegnazione di materie prime e la possibilità di utilizzare, da parte degli importatori e degli esportatori, gli accordi di clearing tra l’Italia e gli altri paesi, fu uno dei suoi principali compiti”.

Anche il vescovo Santin polemizza contro il “trattato ingiusto” ed aggiunge che già grandi personalità quali Luigi Sturzo, Vittorio Emanuele Orlando e Benedetto Croce si erano espresse in questo senso: “Io non oso pronunciare un giudizio. Temo che mi faccia velo l’amore per le mie terre ingiustamente strappate. D’altra parte l’Italia non meritava una tale punizione. Non solo si sapeva che non era stato il popolo a volere la guerra, ma dopo l’armistizio la collaborazione bellica con gli alleati fu cospicua e sincera. E d’altra parte troppo si era proclamato che la guerra doveva ristabilire la giustizia e distruggere i fascismi per farne poi una guerra d’ingiuste conquiste, favorendo il totalitarismo comunista. Perché tale fu il regime imposto allora nell’Istria occupata dalla Jugoslavia. Il Trattato adunque prevedeva un Territorio Libero, che non si fece. Fu un trattato che non tenne conto della volontà delle popolazioni, né dell’annessione delle terre italiane alla Jugoslavia. Il mondo vive di quei principi proclamati e violati da chi li proclama. È per questa ragione che non ha pace”. 34)

La costituzione del TLT incontra invece favori e consensi in quel movimento che prese il nome di “indipendentismo”: si trattava di una corrente autonomista, né antislava, né antimarxista, erede in qualche modo di quell'ideale che un secolo prima aveva animato i sostenitori della “nazione triestina”. Gli “indipendentisti” erano convinti che l'unione con l'Italia era stata la causa principale del declino della città ed erano fautori di una gestione diretta dell'attività portuale e commerciale e in una prospettiva antiirredentista ed antinazionalista. Il movimento si sarebbe sviluppato rapidamente fino a raggiungere nel 1952 il 15% dei voti della popolazione. 35)

febbraio – aprile 1947

La mattina del giorno in cui a Parigi doveva essere firmato il Trattato di pace, a Pola la maestra Maria Pasquinelli uccide a colpi di pistola il comandante inglese della piazza Robin de Winton, reo ai suoi occhi di essere un rappresentante dei Quattro Grandi, che avevano “strappato una volta ancora dal grembo materno le terre più care dell’Italia”.

Il processo suscitò un interesse eccezionale anche sulla stampa internazionale e la Pasquinelli divenne per molti il simbolo dell’eroismo e dell’amor patrio: la vicenda della “fragile maestrina” balzò in prima pagina su tanti giornali e un suo diario a puntate venne pubblicato su alcuni giornali della sera italiani.

La Pasquinelli, che aveva per anni aderito alla scuola di Mistica Fascista e che era stata infermiera volontaria alla guerra d’Africa, aveva collaborato a Pola con il “Comitato per gli esuli”. Nella lettera che aveva preparato per spiegare il suo gesto sostenne di aver ucciso chi aveva “la sventura” di rappresentare coloro che avevano condannato quelle terre “o agli esperimenti di una novella Danzica o – con la più fredda consapevolezza che è correità – al giogo jugoslavo, oggi sinonimo per le nostre genti, indomabilmente italiane, di morte in foiba, di deportazione, di esilio”.

La difesa fu assunta dall’avvocato Luigi Giannini, che fin dall’inizio impostò il processo in chiave politica, appellandosi al fatto che l’imputata aveva agito in stato di necessità, spinta dall’“imperativo del suo pensiero nazionale”, con la speranza di allontanare dagli italiani il pericolo che gravava su di loro a causa del “sistematico programma di soppressione razziale nel territorio conteso” messo in atto dagli slavi.

Tra le deposizioni a favore della Pasquinelli fu accolta con grande compiacimento dalle forze “patriottiche” e dai nostalgici del fascismo quella di Guido Slataper – fratello di Scipio e pur egli medaglia d’oro al valor militare nella prima guerra mondiale – che era stato vicino al gerarca fascista Cobolli Gigli e poi Commissario prefettizio al Comune di Trieste durante il periodo Badoglio: “Ella [la Pasquinelli] recava nello spirito il turbamento per i massacri di Spalato e gli infoibamenti dell’Istria; e invocava la costituzione di un unico blocco di italiani, al fine di prepararsi alla difesa non appena i tedeschi, in seguito all’inevitabile sconfitta, avessero sgomberato la Venezia Giulia. […] Parlava esclusivamente da italiana, al disopra di partiti e di nazioni”. 36)

Il processo durò fino ad aprile e alla fine Maria Pasquinelli fu condannata a morte quale colpevole di violazione delle leggi di guerra previste dal proclama N. 1 del GMA. La condanna fu poi commutata in ergastolo dal Comandante Supremo delle Forze Armate Alleate nel Mediterraneo: la Pasquinelli venne consegnata al governo italiano affinché scontasse la pena in Italia, a condizione che non le fosse concessa una liberazione anticipata.

Il governo italiano non mantenne l’accordo e la Pasquinelli uscì dal carcere alla fine del 1964.

Il processo funse da catalizzatore di quelle forze nazionaliste e moderate che avrebbero ben presto proposto la creazione in città di un blocco di forze “sane” contro il pericolo slavo e che da tempo si battevano per il superamento dell’antifascismo. Il Giornale di Trieste e il Messaggero Veneto, che furono tra i più vicini alla Pasquinelli, sarebbero stati in prima fila in questa operazione politica al fianco di numerose associazioni quali la Compagnia Volontari Giuliani e Dalmati, retta da Guido Slataper, e la Lega Nazionale, dal 1947 sempre più terreno di conquista del MSI.

aprile 1947

Esce il numero unico della rivista Ponterosso, un “opuscolo d’arte e di cultura” diretto da Giuseppe Menassé. Come scrive Miriam Coen, alla rivista, che “si propone come punto di incontro tra la cultura italiana, quella slava e quella mitteleuropea, collaborano – tra gli altri – proprio alcuni tra i più assidui frequentatori del Centro (Il “Centro di cultura politica” era stato fondato da Fabio Cusin e da Bruno Pincherle poco tempo prima sotto il comune denominatore dell’antifascismo laico e della democrazia): Carolus L. Cergolj e Maria Lupieri, oltre a Fabio Cusin e a Pincherle, che vi pubblica un breve saggio sui rapporti intercorsi tra Stendhal e Domenico Rossetti”.

maggio 1947

La situazione che si era delineata in città all’indomani della firma del Trattato di pace è al centro del rapporto mensile del GMA che veniva inviato ai rispettivi governi (“Monthly Report”): “Da un punto di vista psicologico l’italiano medio di Trieste è vissuto per quasi due anni in un vuoto ed è oggi una persona del tutto scoraggiata e delusa senza molte speranze soggettive in un futuro migliore. Di conseguenza le sue reazioni sono molto spesso immotivatamente violente e la sua percezione degli avvenimenti su scala internazionale pressoché nulla. Egli aspira a cominciare a crearsi una vita per se stesso ma le circostanze limitano i suoi piani, che sono fatti mese per mese, alla giornata. Egli avverte la carenza di un’effettiva organizzazione dei suoi connazionali di fronte a quella degli slavi, e, piuttosto che accettare una propria responsabilità per ciò, è incline a rimproverare gli inglesi e gli americani, che nel 1945 ha accolto come liberatori e dai quali in qualche modo si aspettava, nonostante il passato atteggiamento dell’Italia nei loro confronti, la difesa e la rivendicazione dei propri interessi fino all’ultimo sangue. Egli ritiene che prima o poi si verrà ad un confronto aperto con gli slavo-comunisti e non è disposto a lasciare il controllo della città senza combattere”.

Dopo mesi di incontri inconcludenti, il tentativo delle autorità del GMA di coinvolgere gli esponenti politici locali considerati più “ragionevoli” e più “moderati” nella soluzione dei diversi problemi legati alla esecuzione del Trattato di pace si arena e i rapporti tra le parti diventano sempre più tesi, pieni di sospetti e incomprensioni. 37)

30 maggio 1947

L’abolizione del TLT e il ritorno di Trieste all’Italia è una delle richieste che gli imprenditori e gli industriali triestini avanzano con maggior forza. In varie sedi se ne fanno autorevoli interpreti Antonio ed Augusto Cosulich. Augusto, presidente della locale associazione industriale, descrive con chiarezza il quadro in cui le attività economiche si trovano ad operare:

“L’artificiosa creazione di tre confini ha determinato un sovvertimento tale nell’economia locale da rendere a tutt’oggi impossibile qualsiasi fondata previsione sulla attività delle nostre industrie nel futuro, anzi addirittura sulla possibilità di vita delle stesse. Alla Jugoslavia sono stati assegnati dei territori nei quali sono situate industrie che svolgevano attività complementari delle industrie che rimangono al di qua del nuovo confine. Infatti un confine ci separerà dalle centrali elettriche che forniscono la forza motrice, dalle importantissime nostre industrie cementiere e attività minerarie ed in special modo quelle dell’estrazione del carbone, della bauxite e della silice verranno tolte alle industrie per le quali lavoravano e alle quali fornivano materie prime necessarie all’attività produttiva […]. Ad aggravare tale situazione sono venute le spoliazioni effettuate negli stabilimenti siti in località che dovrebbero far parte del Territorio libero e che sono stati ridotti in condizioni tali da mettere in forse una qualsiasi possibilità di ripresa […]. Auspichiamo pertanto un futuro per quanto più possibile vicino in cui in un’atmosfera di vera pace mondiale le cortine determinate dal sospetto politico siano abbattute ed allora Trieste non sarà la prigioniera di un budello tutto confini e barriere, ma un punto d’incontro di vie commerciali e di traffico aperto”.

Da questo punto di vista, commenta Sapelli, il diritto acquisito da Trieste nell’ottobre del 1948 di valersi degli aiuti del Piano Marshall sarebbe stato per l’economia della città “un evento di grande significato”.

maggio – giugno 1947

Si tengono nei maggiori luoghi di lavoro le elezioni per gli organismi unitari: in questa occasione lo scontro tra le organizzazioni sindacali si acuisce e si verificano gravi tensioni nei seggi delle aziende. “I primi risultati delle elezioni” – scrive Tristano Matta – “contrastano con le previsioni che volevano il monopolio dei SU tra gli operai, mentre confermano quello della CCdL nelle categorie impiegatizie. Secondo una stima ufficiosa del Lavoratore, l’andamento dei risultati dopo circa un mese di elezioni assegna 281 delegati per l’assemblea di categorie ai SU e 233 alla CCdL. In particolare, la rappresentatività della CCdL tra gli operai appare più consistente del previsto nelle piccole aziende, anche del settore navalmeccanico”.

Tra la fine di maggio e gli inizi di giugno l’organo comunista Il Lavoratore pubblica alcuni dati ufficiosi relativi ai risultati di alcune aziende:

SU CCdL
Cantiere San Marco 6 seggi 3 seggi
Raffineria Aquila 3 seggi 2 seggi
Magazzini Generali 4 seggi 3 seggi
Beltrame 1 seggio 4 seggi

Significativi i dati dell’industria tessile Beltrame, dove la maggioranza della mano d’opera è femminile.

In linea generale emerge una netta prevalenza dei SU solo nel settore cantieristico, dove la mano d’opera è tradizionalmente più politicizzata e più alto è il grado medio di specializzazione.

agosto – settembre 1947

Quindici giorni prima dell’entrata in vigore del Trattato di pace viene costituito il Partito comunista del Territorio Libero di Trieste.

Durante i lavori del Comitato esecutivo del PCRG, apertisi alla fine di agosto, vengono drammaticamente al pettine le tensioni e le diverse strategie delle due anime del Partito. Ne è una fedele testimonianza la lettera che Vittorio Vidali scrisse agli iscritti il 10 settembre. In questa lettera Vidali attacca senza mezze misure Rudi Ursic e Branko Babic, responsabili di aver soffocato ogni forma di democrazia interna: “Esiste l’impressione – ed è così – che tutte le decisioni più importanti sono prese da Babic e da Ursic, ed il CE è convocato per approvarle o per discutere dei problemi che sono stati già decisi altrove”.

Si impone pertanto la necessità di “fare della educazione nello spirito dell’internazionalismo proletario dei membri del Partito e delle masse un compito costante per combattere contro ogni genere di sciovinismo […]: perché non è detto che questo compito si risolve soltanto lottando contro lo sciovinismo italiano, i suoi molteplici aspetti, le sue sfumature. […] È un problema che ci interessa tutti i giorni, specialmente noi comunisti che viviamo in una zona in diretto contatto con movimenti nazionalisti”.

A Babic, deciso sostenitore di un “destino jugoslavo” per Trieste 38) Vidali rimprovera di mantenere sempre “il suo punto di vista che tutti coloro che non erano con noi erano fascisti ed agenti dell’imperialismo”: il suo settarismo lo ha “veramente sorpreso, e addirittura indignato”, dal momento che ha finito col coinvolgere anche altri partiti comunisti.

Con questi metodi – continua Vidali – “si corre il pericolo molto facilmente di essere espulsi dal partito come nemici della Jugoslavia e sciovinisti italiani ogni settimana ed ogni volta che si apre bocca per dire ciò che non fa piacere a qualcuno. […] Veramente è difficile per un compagno di origine italiana lottare con compagni come Babic ed Ursic. Attaccato dalla reazione come “traditore” e “rinnegato” ed allo stesso tempo sentire continuamente il pungolo della loro sfiducia e qualche volta anche del loro disprezzo, il compagno finisce nella demoralizzazione, nella passività e talvolta si apparta totalmente”. 39)

La maggioranza del nuovo partito rimane però saldamente in mano a Babic e a Ursic ed alla fine dei lavori dichiara con forza che la Jugoslavia aveva firmato il Trattato di pace solo in nome della pace internazionale e che non aveva assolutamente raggiunto quella legittima soluzione per la quale avevano combattuto le masse democratiche: viene riconosciuta l’esistenza di fatto del TLT, ma si sottolinea al contempo la necessità di iniziare una nuova lotta in rapporto alla mutata situazione.

15 – 16 settembre 1947

Le autorità jugoslave, in applicazione del Trattato di pace, entrano nelle parti della Zona A assegnate alla Jugoslavia. 40)

Vengono inoltre annesse alla repubblica croata l'Istria, Fiume, Zara e le isole dell'Adriatico. Contemporaneamente le truppe italiane entrano a Gorizia e nel territorio assegnato all'Italia dal Trattato di pace. Aveva così fine la lunga lotta per quelle zone della Venezia Giulia che erano passate sotto la sovranità italiana o sotto quella jugoslava: la contesa si polarizzava ora sul controllo del nuovo Territorio libero di Trieste.

Nel frattempo cambia radicalmente l’ottica con cui gli angloamericani guardano alla città. Già da tempo gli americani e gli inglesi avevano mostrato di non fidarsi troppo delle reali intenzioni del governo di Belgrado e di considerare ogni mossa jugoslava come un tentativo di scardinare, in pieno accordo con l’URSS, le strutture previste dal Trattato di pace e di annettersi il TLT, o, per usare il linguaggio del tempo, di “balcanizzare” la città di Trieste.

“In base alle concezioni strategiche americane” – scrive Valdevit – “tale eventualità avrebbe comportato una serie di reazioni a catena che avrebbero coinvolto l’intera area europea occidentale. Da questa fase Trieste diventò un ganglio fondamentale nella politica di contenimento, quella politica che caratterizzò gli anni dell’amministrazione Truman e che fu diretta ad arrestare l’espansionismo che essa considerava il movente principale della politica estera sovietica”.

In questo contesto, la presenza del GMA viene definita infatti come “l’ultima barriera contro l’infiltrazione da est nell’Italia settentrionale” e la città diventa uno dei “dòmini” della presenza americana in Europa: controllare politicamente e militarmente la città significava mostrare a tutti che Washington non avrebbe permesso in alcun modo la caduta di altre, e più importanti pedine dello scacchiere europeo e mediterraneo.

L’ambasciatore americano a Belgrado, Cavendish Cannon, sintetizzò bene questo mutamento di prospettiva: “Il TLT ha un’importanza simbolica come pure intrinseca e Trieste rappresenta oggi la continuità dei nostri interessi verso l’Est europeo”.

novembre – dicembre 1947

Le condizioni socio-economiche della città sono decisamente allarmanti. I disoccupati sono più di 22.000 su una forza lavoro di circa 100.000 unità; 1.500 degli operai in produzione non svolgono un effettivo lavoro.

In questi anni le Assicurazioni Generali e la Riunione Adriatica di Sicurtà portano la loro sede legale rispettivamente a Roma e a Milano.

Quello triestino, dice un funzionario del Governo Militare Alleato, è un “tenore di vita assistito”: il Trattato di pace, infatti, impone all'Italia di fornire valuta circolante ed il governo italiano è impegnato inoltre ad appianare il deficit, dal momento che la città e il suo porto non possono più riprendere l'antico ruolo di centro di traffici internazionali.

Ad aggravare ancor più la situazione si aggiungono ora anche le dure polemiche tra i partiti locali sulle condizioni del Trattato di pace. “La contrapposizione tra il Partito comunista, fautore ora dell’attuazione piena del Territorio Libero di Trieste, ed i partiti del blocco italiano” – scrive Matta – “che protestano per la cessione dell’Istria alla Jugoslavia e spingono per l’immediato congiungimento della città e della Zona B all’Italia, si fa acuta e coinvolge in continue manifestazioni di segno opposto anche le organizzazioni sindacali. Il già difficilissimo progetto unitario della CCIS – reso del resto meno plausibile dal contemporaneo incrinarsi del modello da cui traeva ispirazione, per effetto delle lacerazioni che si aprono in questi mesi nella CGIL unitaria e che preludono alla rottura dell’unità sindacale anche in Italia – naufraga e viene così a sancire la storia del movimento sindacale triestino fino agli anni Settanta”.

Nel frattempo la situazione internazionale diventa sempre più tesa per l'acuirsi dei contrasti tra gli alleati occidentali e l'Unione Sovietica; su questo sfondo aumentano i timori degli americani sulla possibilità di tenuta del Territorio Libero di Trieste di fronte alla spinta espansionistica dei comunisti jugoslavi.

Per questi motivi le potenze occidentali mostrano sempre minor interesse a dare una pratica attuazione all'internazionalizzazione della città, imposta solo qualche mese prima, e decidono di cambiare strategia: la nomina del governatore presupponeva infatti l'esistenza di rapporti distesi tra le grandi potenze che controllavano il Consiglio di sicurezza dell'ONU, e non la logica della “guerra fredda” che si stava ormai delineando.

Se nel 1946, quando aveva cominciato a prefigurarsi la creazione del TLT, gli occidentali credevano ancora di poter concludere in breve il Trattato con l'Austria – per cui, mentre gli alleati avrebbero ritirato le loro truppe da Trieste e dall'Austria, i russi le avrebbero ritirate dall'Austria e dagli stati satelliti – ora, tra la fine del 1947 e gli inizi del 1948 la possibilità di questi reciproci accordi sembrava del tutto svanita.

Se si aggiungono inoltre il colpo di stato comunista in Cecoslovacchia e il perdurare della guerra civile in Grecia, si possono ben comprendere i motivi che indussero gli alleati, gli americani primi tra tutti, a mutare le scelte politiche fatte poco tempo prima.

Una puntuale riprova di questa volontà di “contenimento” anche in sede locale si trova nell’ordine del giorno, elaborato a novembre, in previsione di una discussione fra i vertici del GMA ed una missione economica angloamericana. Il documento comprendeva i seguenti punti:

l’esclusione delle organizzazioni sindacali dalla politica e l’obbligo di attenersi al loro proprio terreno, e cioè alle vertenze salariali, alle definizioni delle condizioni di lavoro, alla sicurezza dell’ambiente di lavoro, ecc.;

ostacolare in ogni modo la politica degli slavo-comunisti volta ad usare, di conseguenza, le organizzazioni sindacali per il conseguimento dei loro obiettivi;

lo sviluppo di una positiva e progressista politica del lavoro che ispiri nei lavoratori la fiducia che l’approccio comunista non è l’unico né il migliore nelle relazioni fra lavoratori e datori di lavoro.

Il 17 dicembre la Polizia civile interviene duramente per disperdere un corteo organizzato dall’Unione giovanile antifascista; pochi giorni dopo l’intervento si ripete ai danni di un corteo organizzato dall’Associazione partigiani giuliani.

L’atmosfera si fa sempre più tesa in città, anche a causa del ripetersi degli interventi delle squadre d’azione italiane. Il comandante alleato, generale Terence Airey, emana delle direttive che limitano pesantemente alcune fondamentali libertà civili e politiche, contravvenendo, scrive Valdevit, “alla stessa concezione di “democrazia controllata”, di “democrazia a piccole dosi”, alla quale si era ispirata la condotta di governo del GMA.”

14 novembre 1947

Risale a questa data un “Memorandum” redatto dal tenente colonnello Dennis S. Bickersteth, capo della divisione economica del GMA, che ci dà un quadro molto interessante della realtà socio-economica della città e della politica che le autorità angloamericane avevano seguito fino ad allora.

Riprendendo un’analisi che già da tempo andava approfondendo, Bickersteth, in procinto di abbandonare la città, traccia un bilancio degli ultimi due anni: “Garantire il cibo rappresentava il primo obiettivo […] per prevenire disordini” e pertanto tutto era stato fatto per assicurare gli approvvigionamenti alimentari e per tutelare l’occupazione. Ora bisognava andare avanti perché “altrimenti questo posto correrà verso un punto morto molto più velocemente di quanto non ci si possa aspettare”.

Per gli americani – già dal mese di luglio gli inglesi avevano limitato sensibilmente gli aiuti finanziari – si trattava ora di coinvolgere il governo italiano in una serie di interventi di più ampio respiro che andassero al di là della “day bay day policy”.

Né mancavano da parte alleata pesanti critiche agli ambienti economici triestini, abituati sempre a chiedere, privi di coraggio e di spirito imprenditoriale: “Molte città hanno conosciuto analoghe fasi di decadenza e Trieste non rappresenta certo il centro dell’universo”. 41)

In effetti stava accadendo in quegli anni qualcosa di simile a quanto era già accaduto una sessantina d’anni prima: “Non diversamente la gestione politica della classe dirigente nazional-liberale tra l’800 e il ‘900” – scrive al riguardo Luigi Ganapini – “aveva utilizzato i capitali dell’Impero, ma si era soprattutto preoccupata di contenere e dominare le conseguenze dell’industrializzazione che ne derivava. È certo che, se qualcosa viene da lontano, questo è proprio l’odio nazionalistico, la chiusura ad ogni collaborazione col mondo slavo, il tentativo di usare a vantaggio proprio le risorse che vengono dall’esterno: alle radici di queste scelte la necessità di difendere il proprio potere, la volontà di dividere, indebolire, piegare l’opposizione di classe”.

21 dicembre 1947

Fino alla firma del Trattato di pace con l’Italia gli sloveni della Zona A avevano trovato una loro rappresentanza unitaria nell’Unione antifascista italo-slovena (UAIS), controllata dai comunisti.

Già nel 1946, però, erano emerse profonde divisioni tra i quadri dirigenti e gruppi di emigrati politici dalla Jugoslavia, nonché tra la maggioranza e i numerosi intellettuali liberali e cattolici che da lungo tempo rappresentavano una parte non trascurabile della comunità slovena.

Agli inizi del 1947 queste forze avevano dato vita ad un partito autonomo nella città di Gorizia ed avevano fondato un settimanale, la Demokracija. Ora, a dicembre, anche a Trieste viene costituita una federazione della Unione democratica slovena (SDZ, Slovenska demokratska zveza), con un’organizzazione interna che vede alleati i liberali e i cattolici: un patto organico aveva infatti legato fin dall’inizio il nuovo partito con gli appartenenti alla Unione dei cristiano-sociali sloveni e croati (Udrezenje slovenskih in hrvatskih krscanskih socijacelcev), fondata pochi mesi prima dal sacerdote Peter Sorli.

Il programma della SDZ, che voleva essere la continuazione dell’antico partito Edinost, al quale alcuni dirigenti avevano di fatto partecipato attivamente, trova una delle sue più lucide esposizioni nel primo numero della Demokracija. “Il filo conduttore dell’editoriale” – scrive Nadja Maganja – “è dettato da un sentimento anticomunista molto pronunciato, un rifiuto del monopolismo politico, presente tra gli sloveni, del terrore psicologico ed anche fisico che si era instaurato dopo la guerra e che colpiva tutti coloro che per diversi motivi si opponevano alla politica dei vari organi politici comunisti. Altri principi evidenziati dall’articolista sono la scelta per il modello politico occidentale, per il pluralismo ideale e partitico, la difesa dell’etica e dei valori cristiani”.

La SDZ si contrappone nettamente alle altre associazioni slovene controllate dai comunisti anche su altri due temi di fondamentale importanza: il “boicottaggio” e la “fratellanza”, per usare la terminologia della lotta politica di quegli anni.

Al “Signor Babic” e ai suoi seguaci si rimprovera di aver rifiutato fin dall’inizio, anzi “boicottato”, ogni proposta di collaborazione avanzata dalle autorità del GMA, abbandonando in mano agli italiani il controllo dei tribunali, della ricostruzione, della pubblica sicurezza e soprattutto della scuola e ricacciando così in una sorta di ghetto la comunità slovena. Per di più, in nome dell’internazionalismo proletario, le diverse associazioni slovene dirette dai comunisti hanno collaborato con i “compagni” e “fratelli” italiani, dando vita ad una linea politica che ha snaturato la specificità degli interessi degli sloveni ed impedito la formazione di un gruppo dirigente sloveno veramente autonomo.

Tra i dirigenti della SDZ vanno ricordati Franc Vesel, Josip Abram, Josip Agneletto, Boris Sancin, Ivan Rudolf. Molti tra i quadri svolgevano “professioni liberali”, quali l’avvocatura. Numerosi avevano partecipato alla lotta partigiana, rifiutando però le posizioni e le finalità degli aderenti al Fronte di Liberazione (Osvobodilna fronta) egemonizzato dai comunisti.

Abram e Agneletto erano stati dirigenti dell’Edinost e, all’epoca dell’incendio del Narodni Dom, erano stati presi come ostaggio dalle autorità per prevenire incidenti.

L’Unione democratica slovena (SDZ) e la Unione dei cristiano-sociali sloveni e croati si dichiararono fin dall’inizio favorevoli alla istituzione del TLT, in quanto vi vedevano il riconoscimento dei diritti nazionali degli sloveni della Zona A. “Questi chiedevano” – scrive Nadja Maganja – “che anche durante il governo militare, reputato provvisorio, venissero attuate nell’amministrazione della Zona A tutte le norme dello statuto permanente, in quanto fossero praticabili e non fossero sostituite con norme dello statuto provvisorio”. Con particolare favore erano state accolte le norme che garantivano piena libertà di culto, di lingua, di espressione di stampa e di insegnamento, di riunione e di associazione, nonché l’articolo 7, per il quale “Le lingue ufficiali del Territorio Libero saranno l’italiano e lo sloveno”.

In tutti gli anni successivi, fino al 1954, la Unione democratica slovena (SDZ) e la Unione cristiano sociale slovena 42)

si sarebbero battute, a fianco dei movimenti “indipendentisti” italiani, per l’applicazione rigorosa ed integrale del TLT.



1)
Gli ultimi atti della “corsa per Trieste” si inserirono in un clima di forti tensioni anche all’interno delle forze che combattevano contro i nazisti. Ne fu testimone diretto Edvard Kardelj, che così scrive nelle sue Memorie: “La situazione più acuta e più pericolosa si verificò nel momento in cui i due eserciti si incontrarono sul fiume Soca [Isonzo] e a Trieste. Il nostro esercito era arrivato al Soca prima degli eserciti alleati. Per un momento pensammo che forse sarebbe stato saggio distruggere i ponti sul Soca e attestarci sulle rive del fiume. Ci avevano messo in guardia precedenti dichiarazioni di Churchill su Trieste, quelle del generale Alexander e dello stesso Churchill sull’apertura delle cosiddette Porte di Lubiana, ecc., ed in particolare il fatto che, per quanto riguardava il Soca e Trieste, il governo sovietico non si era espresso nemmeno con una parola, né a favore nostro, né a favore del punto di vista britannico. Non potevamo quindi contare sull’appoggio sovietico. Forti delle precedenti esperienze, ci chiedevamo – se anche questo ci fosse stato – in quale misura si sarebbe esplicato, quanto cioè sarebbe stato decisivo e risolutivo. In una tale situazione non potevamo non tenere conto delle possibilità che Churchill provocasse uno scontro sul problema del Soca, allargando poi a tutta la questione delle porte di Lubiana, ciò che, specialmente per gli sloveni, sarebbe stato catastrofico. Una simile eventualità ci sembrava molto probabile.
Dal punto di vista politico, è ben vero che Churchill avrebbe potuto muoversi con difficoltà in questa direzione. Ma Churchill poteva essere sicuro che in quel momento, mentre l’esercito sovietico stava entrando in Europa centrale e in Germania, l’aiuto sovietico alla Jugoslavia non avrebbe certamente oltrepassato i limiti dell’unità della coalizione antihitleriana. In quella situazione, se non volevamo esporci ad una avventura molto rischiosa, non potevamo far altro che assicurarci il controllo di Trieste e di tutte le zone liberate, fino a Monfalcone: non potevamo però impedire il passaggio delle truppe alleate attraverso il Soca.
La giustezza della nostra condotta fu confermata poco dopo dal drastico ultimatum di Churchill all’esercito di liberazione jugoslavo, in cui chiedeva il nostro immediato ritiro, non solo dalla zona di Trieste, ma anche da tutta l’ampia zona da Pola al Soca. Il governo sovietico non reagì a questo ultimatum e noi non potemmo fare altro che inchinarci, altrimenti avremmo perso molto di più”
.
2)
La giornalista inglese Sylvia Sprigge, corrispondente del Manchester Guardian per l’area del Mediterraneo centrale, giunge a Trieste con la II Divisione neozelandese. Nel suo libro Trieste Diary così racconta quella giornata: “Chi scrive ha raggiunto la colonna della 2a Divisione neozelandese poco prima del Tagliamento: le retroguardie stavano avanzando fra file di contadini esultanti, ogni mezzo era ornato di fronde e bandiere italiane. Poco prima di arrivare al Tagliamento è arrivato l’ordine di sbarazzarsi di bandiere e fiori, e la colonna ha proseguito la sua marcia grigia e polverosa. (La colonna comprendeva anche una cospicua Unità navale britannica che, via terra, si recava a Trieste ad attrezzare il porto per le navi in risalita lungo l’Adriatico).
2 maggio (dopo mezzogiorno) – La Divisione neozelandese ha attraversato l’Isonzo: qui il lungo ponte era ancora intatto. Verremo a sapere successivamente che i partigiani di Tito l’hanno difeso per 4 giorni dai tentativi tedeschi di farlo saltare. Circa 4 chilometri prima dell’Isonzo è cessata ogni manifestazione di benvenuto nei confronti dei neozelandesi. Su tutte le case si leggeva “Tukaj je Jugoslavia” (Qui è Jugoslavia) oppure “Zivio Tito” (Viva Tito). Una casa su due esponeva la bandiera jugoslava e le poche bandiere italiane avevano una grande stella rossa nella banda bianca.
La gente è rimasta nelle case. I partigiani, con la stella rossa sul berretto di tela blu, stavano allestendo vari blocchi stradali, che sono stati tuttavia aperti per lasciar passare la nostra lunga colonna meccanizzata.
A Monfalcone circa 10.000 fra operai portuali e donne erano riuniti per una manifestazione a favore della liberazione sotto una gigantesca stella rossa e sotto improvvisate bandiere dei paesi alleati. I discorsi erano in italiano. Gli uomini indossavano il berretto blu con la stella rossa. La nostra colonna non ha interrotto la loro riunione.
Lungo la famosa strada costiera che porta a Trieste una batteria navale tedesca di circa 300 uomini ha opposto resistenza a Miramare, cercando di attrezzare alla rinfusa la parete di cemento armato, spessa tre metri, costruita a metà strada fra le due gallerie. I numerosi fortini di calcestruzzo sui fianchi della collina e lungo la strada erano fortunatamente già stati affrontati dai partigiani di Tito.
Seicento fanti di marina tedeschi sono stati catturati a Grado; altri 300 sono stati presi nel golfo di Sistiana (base dei siluri monoposto).
Da Miramare (dove il generale Freyberg ha fissato i suoi quartieri generali) un distaccamento navale tedesco ha tartassato Trieste con cannoni italiani da 6 pollici per due giorni, avendo saputo che a Trieste c’erano soldati jugoslavi.
Alle 4 del pomeriggio carri armati ed auto corazzate di ricognizione sono entrati in Trieste e dopo una breve azione hanno raccolto la resa di 2.600 tedeschi.
Il Governo Militare Alleato e la sua polizia sono rimasti indietro, a Monfalcone, e non sono operativi.
A Trieste gruppi di 12-15 partigiani, ciascuno munito di due o tre armi, pattugliavano le strade giorno e notte. Non c’era traccia di fraternizzazione. I negozi erano chiusi”.
3)
A questa improvvisata linea di demarcazione si aggiungeva una ben più grave e profonda spaccatura che la Sprigge non manca di cogliere immediatamente: “Alle quattro del pomeriggio gli Jugoslavi hanno organizzato una massiccia dimostrazione slovena nelle vie di Trieste. Migliaia di contadini sloveni, alcuni persino nei costumi tradizionali, sono affluiti dai villaggi circostanti, e qualche centinaio anche dalla periferia di Trieste stessa: dalle quattro alle sette di sera hanno battuto tutte le strade di Trieste cantando e ripetendo i loro slogan: mentre la popolazione italiana li guardava in profondo silenzio.
Era evidente che, tornando a casa, i contadini si rendevano conto che qualcosa della manifestazione di Trieste non era riuscita: nessuno veniva a dare loro il benvenuto”
.
4)
Questa esigenza rispondeva ad una linea genericamente concordata a Belgrado nel febbraio del 1945 tra Tito e il generale Alexander, comandante supremo alleato nel Mediterraneo. Successivi colloqui avvenuti tra aprile e maggio avevano rassicurato Tito sull’intenzione degli alleati di riconoscere le amministrazioni civili già insediate al momento dell’occupazione. “Da ciò” – aggiunge Maserati – “il significato della funzione politica del CEAIS e la spiegazione del febbrile lavorio per assicurarne l’esistenza dopo il crollo nazista. Infatti, nell’eventualità che le truppe jugoslave non avessero potuto mantenere il controllo su Trieste, sarebbe pur sempre rimasta nella città un’amministrazione monopolizzata dagli organi della Resistenza jugoslava e quindi sostenitrice dell’unione di Trieste alla repubblica federativa di Tito”.
5)
Il Nostro Avvenire era in origine il “Portavoce degli italiani del Litorale aderenti al movimento per la nuova Jugoslavia”, cioè l’organo dei gruppi partigiani italiani di montagna che combattevano nell’esercito di liberazione della Slovenia. Durante i “quaranta giorni” divenne l’unico quotidiano cittadino in lingua italiana; sosteneva senza indugi l’annessione di Trieste alla nuova Jugoslavia socialista. Ne fu redattore Mario Pacor.
6)
L’organizzazione si riallaccia infatti alla precedente struttura della “Unità operaia - Delavska Enotnost” – organizzazione di massa a direzione comunista che operava a Trieste e nel circondario a partire dalla primavera del 1944 – e ne mantiene il principio fondamentale della subordinazione delle rivendicazioni sindacali alle esigenze della lotta politica. La dicitura “Sindacati unici” è frutto dell’erronea traduzione dal croato della denominazione di “Sindacati unitari” jugoslavi. Un errore involontario che – come sottolinea Tristano Matta – “rispecchia nella sostanza il modello di organizzazione che si vuol creare: il sindacato di tutti i lavoratori, iscritti o no, di stampo sovietico, con compiti quindi sia di rappresentanza dei lavoratori che di controllo del processo di ricostruzione e di sviluppo nella prospettiva di un’economia pacifista”.
7)
Dotata di ampia autonomia operativa l’OZNA aveva ricevuto fin dal 1944 dai vertici del Partito comunista sloveno l’ordine di ripulire i territori occupati della Venezia Giulia da tutti i “reazionari” in qualche modo compromessi col fascismo. L’arresto in massa dei sospetti era condotto sulla base di lunghe liste predisposte da tempo: i prigionieri venivano inviati negli stessi campi in cui si trovavano i militari ed erano sottoposti alla stessa disciplina. L’OZNA aveva proceduto anche a numerose esecuzioni immediate, compiute senza seguire le procedure previste per i nuovi tribunali popolari messi in piedi dalle autorità civili.
A Trieste, a differenza di quanto stava accadendo a Fiume e nell’Istria, l’opera dell’OZNA è sotto gli occhi degli osservatori angloamericani e ciò induce le autorità slovene ad agire con maggior cautela. Lo testimonia una lettera del 10 maggio inviata da Boris Kidric, presidente del governo sloveno, a Boris Kraigher, rappresentante del Comitato centrale del Partito comunista presso i “poteri popolari” di Trieste: “Oggi ho sentito che l’OZNA continua a non capire la situazione e continua ad eseguire arresti soprattutto tra gli italiani di Gorizia. Fai subito tutto il necessario e spiega alla gente la situazione politica. Io parlerò di nuovo con Matija [Ivan Macek, ministro degli Interni sloveno, era a capo dell’OZNA per la Slovenia]. Dobbiamo renderci conto che in questo momento errori di questo genere ci danneggiano moltissimo perché rappresentano un pericolo e possono rovinarci tutto”. Dieci giorni dopo Ivan Macek invia un telegramma con ordini ben precisi: “Compagno Janez [Boris Kraigher]!. Alle 21 e 45 ho ricevuto il seguente telegramma: Miso [Stanislav Runko, dirigente dell’OZNA a Trieste] con Janez ordina immediatamente che i comitati rionali cessino gli arresti. Matija. […] Per me [Miso] è arrivato il seguente telegramma: per ora cessate con gli arresti di tutti coloro che in qualsivoglia maniera si sono compromessi fino alla liberazione di Trieste. Arrestare si possono soltanto coloro che attualmente compiono atti terroristici, tutti gli altri dovete tenerli sott’occhio nel loro lavoro. È necessario liberare più gente di quanta ho detto questa mattina. Matija”. Un tentativo di distinguere nettamente l’operato dell’OZNA dalle autorità di Lubiana si trova nell’autobiografia di Ursic, allora “primo sindaco di Trieste”, come ama ricordarsi, in quanto segretario del Consiglio di Liberazione: “Anzitutto è doveroso rilevare che i comitati effettuavano gli arresti tramite la milizia popolare, composta esclusivamente da abitanti di Trieste e relativa provincia. Questa venne costituita per disposizione del Comandante del Comando Città di Trieste, generale Dusan Kveder, pochi giorni dopo la liberazione di Trieste. La totale inesperienza dei «militi popolari», la faciloneria nel fare arresti, le idee poco chiare nel distinguere la funzione di «pubblico ufficiale» dagli «interessi privati», l’infiltrazione di avventurieri che non si facevano scrupoli «sequestrando» ben assortiti non legittimi, le esplosioni vendicative per vecchie «ruggini» mascherate da imputazioni di collaborazionismo e di attività delatoria, avevano fortemente allarmato le autorità di Lubiana, inducendole ad emanare l’ordine con cui s’impedivano ulteriori arresti da parte dei Comitati rionali. E ciò a soli sette giorni dal passaggio dell’amministrazione pubblica dalle mani dei militari a quelle civili – avvenuto per l’appunto il 13 maggio 1945 – nonché ventitré giorni prima dell’evacuazione da Trieste e provincia delle truppe jugoslave. Quindi la situazione era ben diversa da come veniva dipinta dalla sfrenata, tambureggiante propaganda di tutta la stampa occidentale con «la caccia all’italiano per le vie di Trieste e relativo infoibamento»: di fatto preoccupazione e cura delle massime Autorità per limitare e circoscrivere gli arbitri”. In un’intervista concessa al Piccolo il 20 febbraio 1998 Ursic non risparmia le critiche più severe all’operato dell’OZNA di quei giorni: “L’OZNA, cioè la polizia politica jugoslava è stata il peggior predatore del mondo intero. Lo avevo già scritto, ecco qui la lettera al presidente del Consiglio sloveno. Dal 20 maggio al 6 giugno uomini dell’OZNA e militari jugoslavi salivano ininterrottamente via Rossetti carichi di oggetti e di denaro depredati nelle case e negli uffici triestini”. Anche l’esercito jugoslavo viene chiamato in causa: “Si era capito ben presto che i militari jugoslavi non erano in grado di controllare una città cosmopolita. Ero convinto allora e sono convinto ancora oggi, che Trieste sarebbe stata ben più ricca, prospera e felice se fosse divenuta una città autonoma all’interno della Repubblica jugoslava. Non ho mai parlato di settima repubblica federativa, ho sempre parlato di città autonoma”. Oggi Ursic dichiara senza mezzi termini che il comportamento dell’OZNA e di certi militari è stato una “enormità che ha gettato un’ombra su tutta la lotta partigiana di quattro anni”!
8)
Tra questi Silvio Benco, che manifestò il suo sdegno senza mezze misure: “Potevo io, italiano, di Trieste, avere nello spirito altra immagine del presente che non fosse quella d’un universale disordine? Poteva il caotico di un domani di guerra presentarmisi con più esasperata ridda di antitesi? Non vi si aggiungeva anche lo spettacolo miserando degli innocenti che sentendo proclamata in italiano decaduta l’Italia e condannata, e come unica salvezza dell’avvenire offerta agli italiani la sudditanza al nuovo dittatore straniero, si mostravano pronti a rompere il vincolo nazionale e a correre al nuovo padrone? Certamente, in quello stato d’animo, non m’era facile ordinare il pensiero né distogliermi dal guardare con occhi sbarrati il seguito che pareva implacabile degli avvenimenti”.
9)
Mario Pacor riporta alcuni passi significativi degli interventi dei rappresentanti delle missioni alleate presso il Comando generale sloveno in occasione del ricevimento svoltosi in serata al Municipio: “Disse tra l’altro il ten. col. Woods della missione americana: «Ho l’impressione che questo sia il giorno della seconda fondazione per Trieste. Trieste ha ora il destino nelle proprie mani. La popolazione si è scelta il Consiglio di Liberazione che la rappresenta, ed apparentemente non esiste per il momento nessun’altra soluzione migliore…».
Ed il sovietico maggiore Zavaronkov: «All’amministrazione della città di Trieste, che oggi prende nelle sue mani i poteri civili, auguro di riuscire a risolvere felicemente tutti i compiti che le incombono. Auguro che Trieste non solo si rinnovi, ma sorga più bella e felice di quanto sia stata finora […]». Infine il maggiore inglese Pears: «È grande merito delle forze della Resistenza di Trieste. Gli ufficiali alleati presso l’Armata jugoslava hanno inteso parlare della bellezza della città e del suo porto. E questo grande porto è stato liberato con il sacrificio di tante vittime. Siamo certi che italiani e sloveni creeranno insieme una felice convivenza e che l’avvenire di Trieste sarà quello di un grande porto nell’Europa meridionale»”
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10)
Leopoldo Gasparini, dirigente comunista giuliano attivo nella resistenza e nel dopoguerra direttore de Il Lavoratore, ricorda questi giorni con sofferta partecipazione. È testimonianza successiva, influenzata probabilmente dal clima di ostilità che seguì nel giugno 1948 alla rottura tra Stalin e Tito, e quindi fra comunisti italiani e sloveni, ma comunque molto significativa:
“Molto è stato scritto sui «quaranta giorni», cioè sul periodo dal 1° maggio 1945, giorno della liberazione di Trieste, al 12 giugno, quando le autorità anglo-americane presero possesso dell'amministrazione della città e di quella che venne chiamata zona A, in base all'accordo Alexander-Tito: da una parte, la direzione titista condusse una propaganda su vasta scala a base di campagne di stampa, pubblicazione di libri ed opuscoli, memoriali, ecc. per illuminare l'opinione pubblica mondiale sul significato e sulle attività delle «Istituzioni create dal popolo di Trieste vittorioso», sull'instaurazione di un «regime di democrazia progressiva» – come si legge nelle documentazioni ufficiali di quel tempo. Dall'altra la reazione nazionalista italiana, ed anche quella slovena, si servì dello slogan dei “quaranta giorni” nella lotta contro il comunismo per rinfocolare odii e provocare urti durante tutti questi anni, per compiere una sistematica campagna di denigrazione delle conquiste del socialismo e della democrazia popolare, identificate in qualcosa come i «quaranta giorni». […] Dopo il 1° maggio i compagni sloveni ebbero l'ordine di indossare la divisa partigiana, a noi non fu data invece nessuna disposizione”. Gasparini prosegue citando testimonianze di alcuni “compagni”: “I comitati popolari erano di preferenza composti o diretti da persone che non avevano nulla in comune con il proletariato e con i contadini poveri. Per esempio a Prosecco il presidente del Comitato popolare era il più ricco contadino del paese, a Basovizza lo stesso. Anche ad Opicina il Comitato era composto in buona parte da piccolo-borghesi sloveni. L'amministrazione dei beni nazionali era nelle mani di persone nominate dall'alto, tra cui non c'era neppur un membro del Partito. Non si esercitava su questo Comitato il più piccolo controllo sull'impiego del patrimonio popolare. Presidente, ad Opicina, era uno tra i più forti commercianti locali. Ecco gli scheletrici ma eloquenti appunti di un compagno di Gorizia: «1° maggio 1945: occupazione di Gorizia. Mobilitazione per il lavoro obbligatorio fatta a mo' di ‘rastrellamento’. Requisizione delle biciclette e delle macchine fotografiche senza discriminazione. Fuga da Gorizia anche di elementi che per mesi hanno collaborato coi partigiani. Delusione. Un giorno ha rovinato mesi a venire. 3 maggio 1945: riunione a Gorizia dei comunisti italiani con qualche compagno sloveno. Poco tatto degli sloveni che a Gorizia ignorano la ‘minoranza’. Fanno tutto da soli. I nostri compagni parlano di nazionalismo slavo. I nostri attivisti sono trascurati. Dovunque compaiono dirigenti e funzionari sloveni. Conquista del territorio anziché conquista delle masse. […] Gli sloveni non badano a noi. Si fanno più dolci con noi nei modi, man mano che il terreno sotto i piedi viene a mancare e che l'occupazione inglese si avvicina. Ma mentre noi guardiamo alle masse, essi con affanno costruiscono un'autorità legale da presentare completa nella sua impalcatura agli inglesi. Pallone gonfiato che un colpo di spillo inglese svuoterà. Occorreva opporre dei fatti che tranquillizzassero le nostre masse. Fatti, cioè provvedimenti che dessero alle città italiane anche un colore italiano»”.
11)
Alla vigilia della marcia su Trieste ai partigiani del IX Corpus e alle unità regolari della IV Armata il Partito comunista sloveno aveva dato indicazioni molto precise: “Tutte le unità non tedesche e l’intero apparato amministrativo e di polizia a Trieste vanno considerati nemici e occupatori. Impedite che si proclami qualsiasi potere che si definisca antitedesco. Tutti gli elementi italiani di questo tipo possono soltanto consegnarsi e capitolare all’armata jugoslava di liberazione. Tutto ciò che agisca contro di essa è esercito di occupazione e in questo senso la vostra linea [mobilitazione di masse italiane] è corretta. Smascherate ogni insurrezione che non si fondi sul ruolo guida della Jugoslavia di Tito contro l’occupatore nel Litorale, sul Comando di città, sulla cooperazione fra italiani e sloveni, consideratela un sostegno all’occupatore ed un inizio di guerra civile”. Una testimonianza diretta di queste drammatiche vicende ci è data da Mario Pacor, combattente partigiano col IX Corpus, redattore del Nostro Avvenire. “Se dolorosi, deplorevoli eccessi vi furono – e in gran parte sono stati allora e poi ingigantiti dalla propaganda politica avversaria – essi vanno attribuiti prevalentemente alla durezza di qualche quadro politico permeato di concezioni e metodi di tipo stalinista, in particolare nell’ambito della polizia politica, l’OZNA (Oddelek zascite naroda – Dipartimento per la difesa del popolo), e della Guardia del popolo, che pure era costituita ovunque da elementi coscienti locali, ma nella quale si infiltrarono anche avventurieri, come accade sempre in formazioni simili e in analoghi momenti”. Pacor sostiene comunque che l’OZNA e la Guardia del Popolo agirono in condizioni eccezionali e inserisce il loro operato in un contesto più generale: “Nelle zone della regione rimaste dopo la liberazione e dopo il 12 giugno sotto l’amministrazione militare jugoslava, si attuò […] una specie di «comunismo di guerra». Una classe dirigente nuova, mancante necessariamente di quadri intermedi preparati, costretta – per assicurare e consolidare il potere popolare – a metodi più drastici, fece quello che poté nelle condizioni in cui si trovò ad operare. […] Tutto ciò poteva essere, in quel momento, necessario ed inevitabile, e quando le condizioni lo resero via via possibile vi fu posto gradualmente rimedio”. Un altro testimone di primo piano fu il vescovo Santin, che nella sua autobiografia così ha scritto di quegli avvenimenti: “Il fenomeno delle foibe, che si spiega con l’odio scoppiato in seguito all’oppressione dei fascisti prima e poi dei tedeschi, colpì gli italiani di ogni indirizzo politico, e come ogni fenomeno scatenato da passioni violente fu un rigurgito di pura bestialità. Questo sfogo non fu opera del popolo slavo, ma di gruppi violenti di fanatici slavi, che, come avviene in queste occasioni, presero la mano”.
12)
Nell’aprile del 1947, un rapporto del Displaced Persons Branch al Quartiere generale del governo militare alleato pubblicò i risultati delle ricerche condotte nella Zona A sulle dimensioni quantitative di questi “infoibamenti”: veniva denunciata la scomparsa da Trieste di 190 militari. “Nel novembre del 1947” – commenta Spazzali – “il GMA era in possesso di 3.419 segnalazioni, mentre doveva ammettere di non avere elementi per valutare quanto accaduto nella Zona B. Ma anche sui dati in possesso quell’ufficio manteneva delle riserve, poiché solo una percentuale molto limitata di rimpatriati si presentava a dichiarare il rientro dalla prigionia, e citava a proposito il caso di circa 1.100 persone restituite dalla Jugoslavia. Rimaneva tuttavia impossibile accertare tra i deportati, per tutti i casi, colpevolezza o innocenza”.
13)
Dietro il tavolo della presidenza dei lavori campeggia una scritta lunga quanto tutto il palcoscenico: “VIVA TRIESTE AUTONOMA NELLA FEDERATIVA DEMOCRATICA JUGOSLAVIA”.
14)
“A sua volta” – precisa opportunamente Ennio Maserati – “il Consiglio di Liberazione è subordinato al Comitato Regionale di Liberazione Nazionale, che sovraintende all’attività di tutti i comitati esecutivi locali costituiti nel «Litorale Sloveno». Si abbia presente che il Litorale sloveno, con decreto del Comitato Regionale, era stato suddiviso in tre settori: città autonoma di Trieste, comprendente il vecchio comune di Trieste; circondario di Trieste, comprendente la parte rimanente della ex provincia di Trieste con in più il distretto di Capodistria; circondario di Gorizia, comprendente tutto il territorio della ex provincia di Gorizia ed il territorio nord-orientale della provincia di Udine (distretti di Cividale, Tarcento, Tarvisio).
Il Comitato Regionale per il Litorale sloveno, infine, è organo periferico del Governo nazionale della Slovenia, costituitosi il 5 maggio 1945”
15)
Morgan era stato inviato a Belgrado il 9 maggio per discutere con Tito un progetto di accordo che prevedeva la divisione della Venezia Giulia in due zone di occupazione temporanea secondo una linea che sarebbe poi passata alla storia appunto come “linea Morgan”. Dopo questo fallimento il governo di Londra decise che la soluzione migliore era quella di affidare la questione ai diplomatici: l’incarico fu assegnato ai rappresentanti americano e britannico a Belgrado.
16)
Secondo Raoul Pupo, questa presa di posizione di Truman, che il presidente comunicò ai sorpresissimi inglesi, segnò “una duplice svolta nella politica degli Stati Uniti per la Venezia Giulia: […] comportava infatti sia l’accettazione della proposta americana, in precedenza fieramente contrastata, della linea di demarcazione, sia, e soprattutto, la nuova disponibilità dell’amministrazione di Washington a utilizzare le proprie truppe per sventare i progetti jugoslavi su Trieste”.
Già dalla fine del 1944 inglesi e americani avevano infatti guardato alla “questione di Trieste” con due ottiche sensibilmente diverse: mentre il Foreign Office aveva fatto propria l’idea di dividere la Venezia Giulia con una linea di demarcazione per assicurarsi, con il consenso degli jugoslavi, una comunicazione verso l’Austria, Roosevelt aveva mostrato di prediligere il mantenimento dei confini fino alla firma del Trattato di pace.
17)
Pirjevec sottolinea il fatto che i primi attriti tra Stalin e Tito risalivano al 1944: “C’era soprattutto il modo avventuroso con cui il maresciallo jugoslavo aveva condotto le ultime operazioni belliche, senza riguardi per la delicata situazione dell’Unione Sovietica: proprio mentre Mosca era costretta a ricorrere ad ogni precauzione e ad ogni astuzia per assicurarsi il controllo della Polonia e il ritiro delle truppe americane da quella parte della Germania orientale, che le spettava secondo gli accordi, Tito aveva provocato un gravissimo incidente con gli alleati occidentali, entrando con le sue truppe a Trieste, e suscitando l’impressione di agire con il beneplacito di Stalin; e questo, sebbene con gli accordi di Yalta il porto adriatico dovesse essere occupato dalle forze angloamericane”.
18)
In un passo della sua autobiografia il vescovo Santin ricordò quei giorni con queste brevi parole: “Quando i partigiani jugoslavi invasero Trieste e l’Istria, l’atteggiamento nei miei riguardi non fu ostile. Nei quaranta giorni nei quali rimasero a Trieste non ebbi motivo di lamentarmi personalmente. Non mi schierai, naturalmente, dalla loro parte. Non potevo divenire comunista e approvare l’occupazione ingiusta di Trieste e dell’Istria. Man mano le cose peggiorarono. Il 19 giugno 1945, fui a Capodistria per S. Nazario. Tenni come ogni anno pontificale e cresima. Due loro rappresentanti vi parteciparono e vennero in presbiterio alla cattedra a rendere omaggio. A Trieste vi era uno di loro il quale mediante il mio segretario don Borsi mi teneva informato degli umori che regnavano nei miei riguardi”.
19)
Sylvia Sprigge descrive in modo molto incisivo la partenza dei soldati jugoslavi: “Il 13 di giugno l’Armata jugoslava si è ritirata al di là della curiosa e frammentaria Linea Morgan, lasciando le forze anglo-americane sole ad occupare militarmente la regione dall’Isonzo a Tolmino, lungo un arco, fino a otto miglia più a sud di Trieste, e quindi ancora più giù fino a Pola, la grande base navale nell’estrema punta della penisola istriana.
Io ho visto i soldati jugoslavi sia al loro arrivo sia alla partenza e devo raccontare ciò che ho visto. L’immagine dell’armata del maresciallo Tito nella prima settimana di maggio resta qualcosa di indimenticabile, come una stampa tratta da un antico libro di storia. I soldati erano tutti a piedi, guerrieri temprati con i segni di grandi patimenti sul volto. Molti erano feriti. Ogni trecento uomini c’era un piccolo carro coperto, trainato da due cavalli; qui si esaurivano i mezzi di trasporto dell’Armata jugoslava ai primi di maggio. Allora a Trieste avevano anche cinque carri armati: ora ne hanno molti di più, avendo riparato molto del materiale bellico catturato ai Tedeschi.
Il 10, 11, 12 di giugno le truppe jugoslave si sono ritirate intonando lugubri canti durante il loro cammino. C’era un che di tragico in loro. Duemila uomini sono rimasti come forza simbolica in un luogo da noi stabilito.
Il 13 di giugno in regione è stato finalmente costituito il Governo Militare Anglo-Americano”
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20)
In realtà il Partito comunista italiano cercò di barcamenarsi e di prendere tempo e così non andò al di là di una dichiarazione generica: “Noi, comunisti, affermiamo l’italianità di Trieste. […] Vogliamo trovare per la questione di Trieste una soluzione che soddisfi i diritti nazionali di tutti […] e non comprometta in nessun modo i futuri nostri rapporti di fraternità e collaborazione coi popoli della Jugoslavia”. La mancanza di una linea precisa nei confronti dell’intero problema e delle sue implicazioni internazionali era emersa ancora una volta in quei mesi, anche a causa delle divergenze tra Togliatti, sostenitore della necessità di non rompere con gli alleati di governo, ed altri dirigenti del partito, più sensibili alla fedeltà all’Unione Sovietica. Togliatti aveva fatto votare l’adesione dei rappresentanti del PCI all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri di condanna dell’occupazione jugoslava.
21)
La Camera confederale del Lavoro si costituì il 21 novembre, subentrando ai Sindacati giuliani. La segreteria fu composta da Gino Sferza, del Partito socialista di unità proletaria, Elio Geppi del Partito d’azione, Enrico Pelosi della DC. Anche la Commissione esecutiva fu controllata dai rappresentanti dei tre partiti. “Nella sua prima seduta” – scrivono Sema e Bibalo – “la Commissione esecutiva delibera all’unanimità di comunicare alla CGIL l’avvenuta costituzione della Camera confederale del Lavoro in base allo Statuto della CGIL e ne sollecita il riconoscimento. Passa un solo giorno e i Sindacati unici, tramite il Coordinamento dei metallurgici della grande e media industria, prendono posizione sia contro la nascita della Camera del Lavoro sia contro la possibilità che essa venga riconosciuta, e fanno presente alla CGIL che prima di prendere la relativa deliberazione, «che potrebbe provocare nel campo sindacale e internazionale delle vaste ripercussioni, è un dovere di sana democrazia appurare fino a quale punto i Sindacati unici e i cosiddetti Sindacati giuliani hanno la responsabilità dell’attuale soluzione» e invitano pertanto i tre presidenti della Confederazione a portarsi immediatamente a Trieste per rendersi conto personalmente della locale situazione (23 novembre). Da questo momento sembra che la più importante attività dei Sindacati unici sia quella di moltiplicare le proteste di fabbriche, aziende, reparti, gruppi, zone, ecc., contro la possibilità che la CGIL accolga la richiesta dei Sindacati giuliani; dall’ultima decade di novembre ai primi di gennaio 1946 non si contano più le lettere di questo tipo”.
22)
Sul finire del 1945, l’uscita dalla direzione del giornale del rappresentante della DC finì per far perdere progressivamente al quotidiano quella veste di voce unitaria dei partiti antifascisti “nazionali” che esso aveva tentato inizialmente di realizzare. Dal 1947 al 31 luglio 1949, quando cesserà le pubblicazioni, La Voce libera rimarrà in pratica portavoce del Partito repubblicano e del Partito socialista.
23)
Subito dopo la fine della guerra gli ustascia di Ante Pavelic fecero di Trieste il loro quartier generale; molti volevano far perdere le tracce, possibilmente attraversando l’oceano e rifugiandosi in Argentina, come fece il loro “poglavnik”.
Il 6 marzo 1946 il giornale La Voce del Popolo – dal 1945 pubblicato legalmente a Fiume a cura del Comitato cittadino del Fronte unico popolare di liberazione di Fiume – pubblicò una mappa dei ritrovi e dei luoghi di cospirazione degli ustascia a Trieste. Al numero 10 di via Imbriani è padrone di un ristorante dal nome anonimo “Luogo di colazione”, Juraj Busic, uomo di fiducia di Pavelic ed ex membro della Corte marziale di Zagabria: lo frequentano, tra gli altri, il capo della pubblica sicurezza degli ustascia, Crljenkovic, il giornalista Milan Ilinic, che alla fine del 1944 celebrava l’imminente, certa, vittoria dei nazisti su Hrvatski Narod, organo ufficiale degli ustascia, nonché altri noti “carnefici” quali Ivan Nikolic.
Un altro punto di incontro – scrive La Voce del popolo – è il locale “Ai tre canarini”, in via Udine, dove si incontrano ustascia, cetnici e belogardisti sloveni.
Secondo il resoconto del giornale, svolge un ruolo rilevante di copertura il pope della chiesa ortodossa di Trieste, Jovo Marcetic, assiduo frequentatore del bar “Stella polare” e non privo di appoggi presso le autorità di occupazione.
Il fior fiore dei criminali si ritrova in via Udine, nella trattoria Zafred. Tra questi il dottor Malcic, fedele collaboratore del tristemente noto tenente Lisak, che da Trieste entrò clandestino in Jugoslavia per mettere in piedi le bande dei “crociati”. Fu arrestato dalle autorità jugoslave presso il palazzo arcivescovile di Zagabria, dove si era rifugiato.
Frequentano la trattoria anche Franjo Kresic, ex capo della polizia ustascia a Slavonskj Brod, e il giornalista Omar Sefic, che come giornalista a Mostar incitava i lettori “al macello dei serbi”.
24)
L’opera di Baraga fu contrastata in tutti i modi dai comunisti, contrari ad ogni forma di collaborazione con le autorità del GMA; venne accusato dalla stampa comunista di aver collaborato con i nazisti a Lubiana e ripetutamente fu richiesta la sua sostituzione.
Le accuse non furono mai dimostrate e Baraga collaborò con il GMA fino all’inizio del 1948.
25)
La paura del diffondersi del comunismo era stata anche al centro di uno scritto che il vescovo aveva fatto pubblicare alla fine di maggio sul Bollettino diocesano sotto il titolo “Alcune norme”.
Lo spunto era dato dalle elezioni “popolari” organizzate dagli jugoslavi. “È necessario impedire che i fedeli siano permeati dalla dottrina comunista, che avendo come base dei principi materialisti atei, li porterebbe necessariamente all’ateismo, cioè alla distruzione di ogni religione. E i comunisti non pretenderanno che la Chiesa li aiuti a distruggere se stessa. È necessario inoltre che i fedeli conoscano le seguenti norme, che derivano logicamente dalla dottrina cristiana: in considerazione dei pericoli, ai quali sono esposti la Religione e il bene pubblico, tutti coloro che hanno diritto di voto, di qualsiasi condizioni, sesso ed età, senza alcuna distinzione, sono in coscienza strettamente obbligati di far uso di quel diritto.
I cattolici possono dare il voto soltanto a quei candidati, di cui si ha la certezza che rispetteranno e difenderanno l’osservanza della legge divina e i diritti della Religione e della Chiesa, nella vita privata e pubblica”
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26)
La popolazione di lingua slovena e croata era in realtà più differenziata al proprio interno.
Se il boicottaggio del GMA ebbe pieno successo nei comuni del circondario, sia per la grande influenza della propaganda comunista sulla popolazione, sia per il timore di eventuali rappresaglie, non dappertutto la parola d’ordine del netto rifiuto venne accolta. “Sull’opportunità di cooperare o meno con il GMA” – scrive Adrijan Pahor – “si accesero poi durissime polemiche soprattutto fra gli Sloveni: molti di essi infatti paventavano che a lunga scadenza la politica di astensione avrebbe sicuramente (e così fu) favorito le forze nazionaliste italiane. Quando il GMA, per esempio, decise di istituire ex novo le scuole slovene, la collaborazione degli Sloveni anticomunisti fu di vitale importanza, ma fu duramente criticata dai comunisti.
[…] Nella minoranza slovena in questo periodo cominciò a prendere forma una netta differenziazione fra il gruppo comunista e coloro che si ispiravano ai concetti liberali e cattolici. Si presume che sia stato proprio il boicottaggio dell’amministrazione del GMA da parte del CLT (Consiglio di Liberazione di Trieste) a provocare tale fenomeno”
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Furono queste le prime polemiche interne: tra il 1947 ed il 1948, in occasione della costituzione del TLT, queste differenze avrebbero portato alla nascita di nuovi raggruppamenti “autonomi” sloveni, accomunati dal rifiuto del comunismo.
27)
“Il 3 questa decisione di fondamentale importanza” – scrive Duroselle – “venne annunciata al mondo attraverso un comunicato. Era stato deciso:
che tutti i territori situati ad est della linea francese passino alla Jugoslavia;
che ad ovest della linea francese venga creato un «Territorio libero di Trieste» (TLT), con un territorio che va da Duino, a nord, sulla costa, fino allo sbocco della linea francese a Cittanova, sulla costa ovest dell’Istria. La linea Morgan, che delimita le zone d’occupazione anglosassone e jugoslava, dovrà dividere in due il futuro «Territorio libero»;
che l’integrità e l’indipendenza del TLT siano assicurate dal Consiglio di sicurezza, che dovrà approvare il suo statuto;
che i «Quattro» nominino una commissione per conferire con gli italiani e gli jugoslavi;
che sia costituito un governo provvisorio;
che il Consiglio di sicurezza, dopo una consultazione con l’Italia e la Jugoslavia, nomini un governatore”
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28)
“Durò dodici giorni, più esattamente dodici giorni e dodici notti intensissimi” – scrive Vittorio Vidali – “e terminò con una sconfitta e con la fuga, per sottrarsi all’estero, dei massimi dirigenti, sindacali e politici, dello sciopero. Sul fronte dei sostenitori di Trieste all’Italia fecero la parte dei leoni i fascisti, in buona parte provenienti anche da altre province italiane.““
Dall’una e dall’altra parte le menti erano sconvolte e per dimostrarlo basta citare come termina l’editoriale del Bollettino dello sciopero N. 7, che dopo aver annunciato che “lo sciopero continua” afferma:
“Viva lo sciopero generale di tutto il popolo democratico quale protesta contro i crimini delle bande fasciste organizzate dal CLN e tollerate dall’AMG!
Vogliamo l’arresto del colonnello Fonda Savio e degli altri dirigenti del CLN!
Vogliamo lo scioglimento del CLN organizzatore delle bande saccheggiatrici e devastatrici!
Vogliamo l’arresto di Bartoli, di Miani, di Gentili e di tutti i mandatari degli assassinii!
Vogliamo l’arresto di Vittorio Furlani direttore della Voce Libera, aizzatore feroce dell’odio nazionale, organizzatore spirituale delle bande neofasciste!
Vogliamo la soppressione della Voce Libera responsabile delle devastazioni, degli incendi e degli assassinii!
Vogliamo l’arresto dei dirigenti delle Polizia Civile responsabili dell’attività antipopolare e delittuosa della Civil Police nell’opera di sostegno e di incitamento delle bande fasciste!
Vogliamo l’arresto e la punizione dei poliziotti responsabili delle uccisioni e dei ferimenti degli antifascisti!
Vogliamo la restituzione delle nostre sedi!
Vogliamo il risarcimento dei danni patiti!
Vogliamo lo scioglimento e l’arresto di tutte le bande fasciste!
Vogliamo l’espulsione dalla Zona A di tutti i criminali di guerra, dei profughi istriani e di tutta la teppaglia, compromessa col fascismo, importata dall’Italia!”
Sulla natura fondamentalmente politica di questo sciopero concordano anche Paolo Sema e Claudia Bibalo: “Ma se l’occasione è stata la risposta alle violenze reazionarie, il vero scopo delle agitazioni di quelle settimane, da una parte e dall’altra, è quello di influire sulla discussione al consiglio dei ministri degli Esteri riunito a Parigi, la volontà di far pesare sulle sue decisioni l’atmosfera della città. […] Il Lavoratore del 16 luglio afferma che lo sciopero «fu in un certo senso una prova generale; il popolo ha fatto esperienze preziose che sono la base per la continuazione della lotta, non importa quali abbiano ad essere le forme ch’essa andrà via via assumendo nei suoi successivi sviluppi. Le dodici memorabili giornate però rappresentano un grande successo anche per le ripercussioni nel mondo che daranno i loro frutti pure alla popolazione della nostra regione. Non soltanto la radio sovietica, quella francese e di altri paesi, ma anche quella americana hanno avuto di nuovo occasione di mettere in grande rilievo la situazione nella nostra regione. Si tratta del fatto che circoli politici decisivi vedono nella situazione di questo angolo di terra un pericolo per la tranquillità d’Europa e faranno ogni sforzo per eliminare le cause di turbamento nella nostra regione nell’interesse della pace. La nostra lotta è sentita più come un’autodifesa, come lotta per la democrazia in Europa. Noi siamo in funzione d’avanguardia sul fronte della democrazia, che è unico»”.
È interessante notare come all’intransigenza sulla questione nazionale ed al ricorrente massimalismo verbale i Sindacati unici finissero col far corrispondere una prassi sindacale moderata e meramente difensiva, che col passare dei tempi doveva logorare i suoi rapporti con la classe operaia. Ne era una chiara testimonianza la relazione tenuta da un quadro di fabbrica durante la riunione del Coordinamento CRDA dell’aprile 1946: “Le masse stanno perdendo la convinzione di essere ben guidate; si teme che la nostra organizzazione abbia a subire qualche duro colpo, se succedesse qualche cosa di anormale. Per risollevare il morale delle masse e far sentire loro la necessità della lotta, la nostra stampa dovrebbe trattare più in largo le questioni economiche che sono le più sentite. Per i licenziamenti non è stata fatta l’agitazione necessaria. Le masse sono ancora immature […] esse hanno la sensazione che il sindacato sia una succursale economica di una data organizzazione politica”.
29)
La “Carta atlantica” fu firmata da Churchill e da Roosevelt – senza un carattere formale! – nell’agosto del 1941: era una dichiarazione “sugli scopi cui il Commonwealth britannico e gli Stati Uniti pensano di dirigere le loro strade”.
L’iniziativa era stata presa da Churchill per tentare di coinvolgere sempre più gli Stati Uniti, ancora neutrali, nella lotta contro il nazismo. Roosevelt contribuì non poco alla impostazione democratica del documento, il quale prevedeva, al 3° punto, il rispetto dell’autodecisione dei popoli e la volontà di restituire l’autonomia a quei popoli che ne fossero stati privati.
I due leader si dichiaravano inoltre favorevoli alla collaborazione pacifica tra i diversi paesi attraverso la creazione di una organizzazione internazionale di pace.
Molti ritengono che la Carta atlantica, al di là di certo nobile ma astratto utopismo, abbia costituito la base dei principi cui si ispirò la Carta delle Nazioni Unite.
30)
Così ricorda quei giorni Giani Stuparich: “Erano i giorni più amari di Trieste e della Venezia Giulia, quando i potenti del mondo giocavano col nostro piccolo destino. Speranze e delusioni s’alternavano, si passava dall’esasperazione all’abbattimento e dall’abbattimento alla rivolta.
I cittadini camminavano per le strade smarriti, avviliti, guatando da ogni parte se non fosse per sopraggiungere qualche sorpresa che li scotesse o li annientasse per sempre. I fuggiaschi di Pola e dell’Istria sbarcavano come storditi e s’afflosciavano sulle rive, accanto alle loro masserizie. E di giorno in giorno il pianto e il dolore che venivano di là mettevano acido e fuoco nelle nostre piaghe.
Che cosa volevano fare di noi, perché ci avevano staccato dalla terra a cui appartenevamo, perché volevano costringerci ad essere altri da noi stessi? Le notizie, le proposte, i consessi, le commissioni formavano ridda sopra di noi, che non chiedevamo altro se non d’esser lasciati a condividere in pace la sorte della nostra madre comune, dell’Italia. Per colmo di sventura c’erano i traviati dalla politica che giungevano fino a rinnegare se stessi, i calcolatori che rimestavano nei propri sporchi interessi e certi illusi teorizzanti che credevano giunto il momento di fare di Trieste il banco di prova delle loro speculazioni storicistiche”
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31)
Molto interessante è l’analisi che Liliana Ferrari fa dell’evoluzione dell’atteggiamento dei comunisti triestini nei confronti degli “esuli” di Pola attraverso lo spoglio del Lavoratore. Nel saggio Gli esuli a Trieste (1947-1953), contenuto nel libro Storia di un esodo. Istria 1945-1956, la Ferrari mostra come i comunisti triestini considerarono i primi esuli come degli “ingenui” che si erano lasciati strumentalizzare da un “ristretto numero di elementi veramente compromessi durante il regime fascista”. A quelli che volevano partire per Trieste o per l’Italia il giornale preannunciava un futuro da “disgraziati”; in Italia “dovranno servire come massa di manovra antidemocratica, […] diverranno qualunquisti, monarchici, assumeranno tutte le tinte fino al colore più scuro, il nero”.
I comunisti triestini cambieranno atteggiamento solo dopo la rottura tra Stalin e Tito. Da allora i “cominformisti” cominciarono ad accusare di sfrenato nazionalismo la “cricca trotzkista di Tito” e il Lavoratore aprì una rubrica intitolata “Vita di partito in Istria”. In un articolo del 1949 intitolato “Opinioni di un esule dalla Zona B del Territorio” – si era ormai in clima preelettorale – il governo italiano e i suoi “emissari” a Trieste vennero accusati di tradire i veri interessi degli istriani e degli esuli tramando alle loro spalle il “baratto”, cioè la cessione definitiva della Zona B, e discriminando gli esuli comunisti e le loro famiglie che avevano lasciato l’Istria solo dopo la rottura con Stalin e l’ondata snazionalizzatrice decisa dalla “cricca titina”.
“L’accusa che ora si rivolgeva al CLN dell’Istria non era più di organizzare una massa di esuli reazionaria ed antipopolare, ma di averne tradito le – legittime – attese, di attuare nei loro confronti una politica di discriminazione. Gli esuli ne uscivano – nelle linee generali – «scagionati» dalle accuse loro rivolte in passato. Questo nuovo registro avrebbe caratterizzato la linea del partito comunista negli anni seguenti, di fronte all’esodo sempre più massiccio dalla zona B”.
32)
Il compito del CCIS era di preparare la fusione, predisporre i meccanismi e le strutture che la rendessero possibile ed effettuarla entro il 1° marzo del 1947. “Ci si trova quasi subito di fronte” – scrivono Sema e Bibalo – “a grosse difficoltà, sia nel gestire la lotta sindacale, sia nella ricerca dell’unità. Gli stessi protagonisti, al tavolo della stanza n. 40 di via Montfort, continuano ad accapigliarsi, a lanciarsi pesanti accuse, a creare ulteriori ostacoli al raggiungimento dell’obiettivo fondamentale. Spesso in una seduta si fa un passo avanti e nella seduta successiva se ne fanno due o tre indietro. Esiste poi una serie di problemi – difficilmente superabili – di carattere politico, ideologico, morale, territoriale che sono il riflesso della situazione esistente nella città, nella regione, nei rapporti tra Italia e Jugoslavia, fra il partito comunista e gli altri partiti operanti nella Zona A. Quasi ogni avvenimento esterno ha riflessi sulla discussione e sul procedere più o meno spedito dei lavori: un episodio di violenza, uno sciopero male impostato, il progresso o il rallentamento nei rapporti internazionali e nelle trattative per la pace, un dissenso o una zuffa in una fabbrica, il mancato rispetto di un impegno assunto, le dichiarazioni di qualche personaggio della vita politica, sindacale, religiosa, ecc.”.
33)
Con il trattato di pace venivano a decadere la Zona A e la Zona B della Venezia Giulia e venivano sostituite dalla Zona A e dalla Zona B del TLT.
34)
Una volta sancita la costituzione del TLT, il vescovo finì col dar prova – per usare le parole di Corrado Belci – di “lealismo costituzionale” e di “realismo” e nella sua lettera pastorale del 1947 richiamò il dovere dei cattolici di operare all’interno della nuova struttura: “Qui sta sorgendo il “Territorio Libero”. Vi è chi applaude, chi deplora, chi si rassegna; chi guarda con grandi speranze e chi rimane scettico. Ognuno ha il diritto di avere la propria opinione. E questa non riguarda la Chiesa. Io però vorrei farvi rilevare che esso è una realtà, con la quale ciascuno di voi che rimarrete nella nostra diocesi avrà da fare. Comunque la pensiate. Esso sarà la vostra nuova casa. È bene che ognuno dia una mano per renderla abitabile. A prescindere dalle condizioni politiche, sociali ed economiche che certamente hanno una grande importanza, è necessario che ognuno faccia del suo meglio perché rimangano come norme inviolate il rispetto di Dio, il rispetto dell’uomo, il rispetto della verità. In un costume improntato da così alte forme di civiltà, potrà rifiorire la libertà e saranno aperte le vie del progresso”.
35)
Nel luglio del 1945 il comitato promotore di un “Fronte Separatista per il libero Stato Adriatico” aveva pubblicato un documento per il nuovo Stato e in agosto si era costituito il “Fronte dell’Indipendenza per il libero Stato Giuliano”; tra i suoi dirigenti Mario Gianpiccoli e Teodoro Sporer.
Alle elezioni del 1949 si era presentata anche un’altra lista “indipendente”, il “Blocco Triestino”, diretto da Mario Stocca. Due i giornali portavoce del movimento indipendentista, il Corriere di Trieste, che sarà in edicola fino al 1959 e Trieste sera, che chiuderà nel 1953. A Trieste si costituì anche un terzo raggruppamento indipendentista, che prese il nome di “Unione Triestina”. Alle elezioni comunali del 1962 avrebbe raccolto 2.561 voti, pari all’1,4%.
36)
Un ricordo caloroso è dedicato alla Pasquinelli anche dal vescovo Santin. Nella sua autobiografia il vescovo ricorda che la maestra di Bergamo “figlia di uno dei più valorosi e convinti propagandisti del movimento cattolico in Italia, era religiosa” e che aveva agito “sconvolta dalla enormità della cessione delle terre italiane”.
“Era un’anima ardente e generosa” – conclude il prelato – “è una tragedia scoppiata nel clima della grande iniquità commessa”.
Non una parola sulla sua lunga militanza nel Partito nazionale fascista e sulla sua adesione alla Scuola di Mistica Fascista.
37)
In aprile le tensioni erano scoppiate in modo clamoroso quando il GMA costrinse a dimettersi il rettore Cammarata. Le imputazioni, quali comparivano dalla bozza del documento redatto dal capo della divisione legale del GMA, parlavano di “manifesta posizione di cane da guardia dell’italianità di Trieste” offerta dal rettore nel momento in cui aveva dato il suo sostegno al nuovo statuto delle organizzazioni studentesche. Questo statuto voleva, infatti, fare dell’Università “l’organo per la difesa e la promozione dell’italianità”, attraverso l’esclusione delle minoranze negando l’iscrizione degli studenti provenienti dalle scuole slovene.
Il testo di questo documento venne tenuto in un cassetto e la motivazione ufficiale del provvedimento nei confronti di Cammarata fu l’asserita incapacità di amministrare l’Ateneo.
“Il fatto che il GMA si sentisse costretto ad una spiegazione che eludeva i sostanziali motivi di attrito” – commenta Valdevit – “è indice della difficoltà di movimento del GMA nei rapporti con le forze italiane”.
38)
In nome dell’internazionalismo proletario numerosi dirigenti comunisti del PCRG rivolsero calorosi appelli agli operai monfalconesi a recarsi in Jugoslavia per contribuire alla “costruzione del socialismo”.
Un migliaio di operai aderì, licenziandosi, lasciando la propria casa e trasferendosi con le famiglie a Fiume, Pola, Zagabria ed altrove.
Per gran parte di loro l’esperienza si risolse in una tragedia quando la rottura tra Tito e Stalin scatenò in Jugoslavia la caccia al “cominformista”. Gli operai monfalconesi si schierarono a fianco dell’Unione Sovietica e subirono l’immediata repressione: ci furono licenziamenti, sfratti imposti con violenza dalla polizia, condanne fino a vent’anni, il confinamento in Bosnia e per i più sfortunati gli orrori di Goli Otok, un’isola vicino a Rab (Arbe) che nel luglio 1949 venne trasformata in un lager per i sostenitori del Cominform.
Tra le tante testimonianze riportate da Giacomo Scotti nel suo Goli Otok. Italiani nel Gulag di Tito vi è quella di Riccardo Bellobarbich, montatore aeronautico, comunista, che nel 1947 si recò con la famiglia a Fiume per lavorare. Da Fiume fu destinato a Zenum, alla periferia di Belgrado, nelle officine Icarus: “Eravamo in duecento monfalconesi nella zona. Organizzammo uno dei primi scioperi della Jugoslavia contro il cibo troppo piccante: quelli del posto ci guardavano come fossimo marziani. Tutto andò liscio fino a quando ci fu lo «scisma» di Tito e noi sposammo tutti la causa filosovietica. Nel frattempo avevo chiesto il trasferimento a Fiume, al silurificio, ed a Fiume cominciarono le repressioni”.
Convinto di poter lavorare alla luce del sole senza subire sanzioni, Bellobarbich organizzò una colletta per le famiglie dei deportati in Bosnia, per cui fu trasferito al tribunale militare di Susak per un processo farsa. La condanna fu: 28 mesi di “lavoro socialmente utile” nell’isola di Sveti Grgur, vicina alla tristemente nota Goli Otok (Isola Calva): “Era un periodo di gran confusione e incertezza: dopo qualche mese furono internati anche il giudice che mi aveva condannato e il pubblico ministero. La detenzione serviva al ravvedimento: a comandare ogni baracca c’era un kapò, un ravveduto, e ogni giorno c’erano riunioni con interrogatori stringenti. Volevano sapere tutto sui nostri rapporti esterni con i compagni e se non parlavamo ci bastonavano. Alcuni sono arrivati al suicidio, altri al punto di denunciare parenti e familiari. Era inverno: subii dieci giorni di isolamento, con cibo razionato a metà e senza indumenti pesanti. Alla fine dei 28 mesi il tribunale interno decise che non ero ancora ravveduto e mi portarono sull’Isola Calva-Goli Otok per l’ultima fase di rieducazione. Dovevamo spaccare pietre servendoci di altre pietre. Chi non la faceva era bastonato dai compagni e chi non picchiava era a sua volta picchiato. Passai così altri sei mesi a Goli Otok prima di essere liberato. Tornato a Fiume, volevo rientrare in Italia, ma ero privo di soldi, di lavoro, di passaporto. E qui cominciò il tentativo della polizia di farmi diventare delatore. Ero avvicinato di continuo da agenti e provocatori mandati apposta per verificare se ci si poteva fidare di me. Riuscii a farglielo credere, ripresi il vecchio lavoro in fabbrica fino a quando non chiesi un permesso temporaneo per rientrare in Italia. Me lo concessero e nel ’52 tornai a casa”.
39)
L’entrata in vigore del Trattato di pace ha conseguenze pesanti anche sul fronte sindacale. Lo scontro politico tra il Partito comunista, che si dichiara favorevole all’attuazione piena del TLT, e il blocco italiano, che rivendica il ricongiungimento della città e di tutta l’Istria all’Italia, coinvolge immediatamente i vertici dei SU e della CCdL, vanificando in breve tempo tutti i precedenti tentativi di intesa e di collaborazione tra le due organizzazione sindacali.
40)
Due giorni prima dell’entrata in vigore del Trattato di pace, La Voce Libera, organo del CLN, usa toni in cui alla retorica si mescolano le minacce: “Idi di settembre, idi di lutto […]. Tutto si paga: Trieste, simbolo della tragedia italiana, rimane una ferita boccheggiante. Oggi paghiamo noi col nostro dolore, con il nostro lutto: una mediocre saggezza avrebbe evitato tanto male. Domani pagherà chi si è ostinatamente rifiutato di ascoltarci. Trieste ha scardinato l’Impero austriaco. Era più saldo dell’ONU”.
L’idea che Trieste potesse “scardinare” l’ONU era di per sé patetica, ma nascondeva, il che era ben più grave, quella incapacità di valutare i reali rapporti di forza nello scenario internazionale che avrebbe drammaticamente caratterizzato la storia della città fino al 1954.
41)
Molto interessanti sono le osservazioni che Raoul Pupo fa su questo periodo decisivo per gli sviluppi successivi del GMA: “Alla fine del 1947 dunque, inglesi ed americani – coinvolti ormai in un impegno a scadenza illimitata a tutela delle posizioni occidentali in Zona A – si trovavano solidali in un’azione politico-diplomatica volta a rendere inoperanti le clausole del Trattato di pace riguardanti il Territorio Libero di Trieste: si trattava di una scelta che avrebbe avuto evidentemente conseguenze di rilievo sugli sviluppi successivi della vertenza, ma proprio per questo è interessante notare come tutto il processo di ridefinizione della politica inglese ed americana per Trieste si svolse alla completa insaputa del governo italiano.
Tale circostanza – oltre a confermare, in termini generali, che anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di pace l’Italia trovava serie difficoltà nel tornare ad essere un soggetto reale di politica estera – sottolineava ancora una volta come la questione giuliana, inserita in pieno nella logica della guerra fredda, trascendesse completamente il piano dei rapporti bilaterali italo-jugoslavi e degli interessi nazionali dei due contendenti, per rappresentare piuttosto un banco di prova delle relazioni fra i due blocchi; e, come tale, si trattava di un problema la cui gestione non poteva che venir riservata in misura esclusiva ai governi delle grandi potenze. Si capisce perciò come ogni tentativo dell’Italia o della Jugoslavia di inserirsi direttamente nel gioco diplomatico venisse non solo considerato inutile, ma riguardato come un fattore di disturbo.
È muovendo da simili premesse infatti che nell’autunno del 1946 Gran Bretagna e Stati Uniti avevano decisamente preso le distanze dalle ipotesi di intesa fra Tito e Togliatti, ed è sempre nella medesima prospettiva che i due governi occidentali condussero la loro azione nell’autunno del ’47, preoccupandosi non già di consultare o anche d’informare il governo italiano sulle decisioni da prendere in merito al futuro del TLT, bensì unicamente di evitare che autonome iniziative italiane potessero rendere più difficile il conseguimento degli obiettivi fissati a Londra ed a Washington”
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42)
Nell’agosto 1948 la Unione dei cristiano sociali sloveni e croati cambiò la propria struttura interna ed assunse il nome di Unione cristiano sociale slovena (SKSZ, Slovenska krscansko socialna zveza). Non fu solo una questione di sigle; fu anche la rivendicazione di una nuova autonomia rispetto alla SDZ di indirizzo liberale e di una più precisa ispirazione cattolica. Come scrive infatti la Maganja: “La SKSZ rappresentò un tentativo, riuscito, di emancipare i cattolici triestini anche in campo culturale e politico. Le intenzioni iniziali della SKSZ erano di coprire l’intero arco di attività pubblica dei cattolici sloveni del TLT, sull’esempio della SKSZ dei tempi di J. E. Krek nel periodo del rinnovamento cattolico in Slovenia. In questo intento la fondazione della nuova associazione veniva appoggiata dalle strutture cattoliche esistenti”.
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storia_ts/cronologia/1945_1948.txt · Ultima modifica: 09-03-2024 08:23 da 127.0.0.1

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